Cotta e mangiata. La legge di bilancio già promulgata da Sergio Mattarella

            E’ francamente difficile non riconoscersi in qualche modo nel gesto scaramantico delle corna attribuito da Emilio Giannelli, sulla prima pagina del Corriere della Sera, nel brindisi di Capodanno ai due uomini più rappresentativi del governo in carica. Che sovrastano e di parecchio il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, specie dopo la sua prestazione  -tra gaffe, errori e successive precisazioni o smentite- nella tradizionale conferenza stampa di fine anno.

            I vice presidenti grillino e leghista del Consiglio Luigi Di Maio e Matteo Salvini, in ordine rigorosamente alfabetico, avrebbero ottime ragioni tabellone Montecitorio.jpgper ricorrere a quel gesto delle corna pensando l’uno all’altro nell’incipiente 2019, quando verranno inesorabilmente al pettine su tutti i piani -politico, elettorale e personale- i nodi della legge di bilancio approvata in terza e bruciante lettura alla Camera con 247 deputati assenti su 630. E promulgata in modo altrettanto bruciante dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella guadagnandosi l’applauso del Fatto Quotidiano, con due righe di tiolo sopra la testata, per non avere ceduto alla tentazione di assumere “la guida dell’opposizione”. Così avrebbe fatto il capo dello Stato se avesse raccolto ansie, timori, proteste e quant’altro. E così invece avrebbe fatto, nella logica di quel giornale, il Il Fatto .jpgpresidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano apprezzando pubblicamente nei giorni scorsi il duro discorso pronunciato al Senato da Emma Bonino, ed anche quello successivo -si deve ritenere- dell’ex presidente del Consiglio Mario Monti, sulle Camere “esautorate” con le procedure adottate per l’esame appunto del bilancio, e per la sua approvazione.

            Anche a consolazione di Monti e Bonino, che pure ne avevano apprezzato originariamente l’annuncio della pur tardiva apertura di una trattativa con la Commissione Europea per ridurre il deficit dal 2,4 per cento del pil festeggiato da Di Maio sul balcone di Palazzo Chigi e bocciato a Bruxelles, il ministro dell’Economia Giovanni Tria ha attribuito al bilancio così avventurosamente approvato dalle Camere il merito di avere risparmiato all’Italia, “un commissariamento dai cinque ai sette anni”. Ma contemporaneamente da Bruxelles e dintorni è stato annunciato che i conti italiani continuano ad essere “vigilati” e che l’intesa raggiunta per evitare la procedura d’infrazione ha riguardato numeri e saldi, non il contenuto delle misure che il governo deve peraltro ancora prendere per tradurre in “fatti”, pur già vantati da Di Maio, il cosiddetto reddito di cittadinanza e l’accesso anticipato alla pensione. La vicenda, quindi, è tutt’altro che chiara e conclusa.

            Il presidente grillino della Camera, Roberto Fico, che ha avuto pietà, diciamo così, delle opposizioni difendendole almeno dall’attacco mosse loro dal blog del suo movimento di avere praticato del terrorismo mediatico contro il governo e la sua legge di bilancio, ha cercato di fornire un altro elemento di consolazione ai vari Monti e Bonino. A cose ormai fatte, mentre Mattarella già smaltiva al Quirinale la pratica della promulgazione del bilancio, Fico dal suo ufficio di Montecitorio, in barba scura e  in maniche di camicia bianca, ha spiegato che era stato appena evitato il ricorso al cosiddetto esercizio provvisorio. Che pure è regolarmente previsto e regolato dalla Costituzione. E  fior di costituzionalisti ed economisti, fra i quali il mancato presidente del Consiglio Carlo Cottarelli, prevedendolo della durata necessaria, e perciò limitata, ad un completo e vero esame del bilancio in Parlamento, avevano dichiarato di preferire a ciò che invece è accaduto.  

 

 

 

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Berlusconi mette il pettorale ai suoi deputati e fa sognare i grillini

               Per una volta, proprio nelle ultime battute della brutta partita parlamentare sulla legge di bilancio – giocata violando le regole persino costituzionali con la complicità neppure tanto sofferta dei presidenti di entrambe le Camere, trattenuti un po’ da affinità di parte, come nel caso del pentastellato Roberto Fico a Montecitorio, e un po’ dalla preoccupazione di evitare il ricorso al cosiddetto esercizio provvisorio, come nel caso della forzista Maria Elisabetta Alberti Casellati al Senato- i grillini hanno potuto più divertirsi che imbarazzarsi, più godere che soffrire.

            E’ accaduto tutto nell’aula di Montecitorio, prima della votazione di fiducia che con 327 sì e 188 no, e più di cento assenti, ha approvato le 270 pagine e più di mille commi del maxi-emendamento già passato al Senato. E’ accaduto quando i parlamentari di Forza Italia, il partito di Silvio Berlusconi, hanno indossato una pettorina azzurra di protesta e, addossati ai banchi del governo, hanno voltato ad esso le spalle.

           Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il vice presidente Luigi Di Maio, il ministro dei rapporti col Parlamento Riccardo Fraccaro, tutti grillini, sono stati ripresi dai teleobiettivi con le facce a dir poco sorridenti. E ne avevano tutte le ragioni, dal loro punto di vista, perché i forzisti voltando loro le spalle e rivolgendosi quindi ai banchi dei deputati in realtà protestavano contro quelli più a portata delle loro braccia e dei loro occhi: i colleghi leghisti. Che per tutto il giorno erano stati attaccati dagli esponenti del partito berlusconiano per avere “tradito” nell’azione di governo i loro elettori di centrodestra.

            Contemporaneamente Silvio Berlusconi, ancora ineleggibile al momento dell’elezione delle Camere di questa diciottesima legislatura, accreditava  dai suoi uffici e residenze la protesta pettorale dei suoi deputati come un antipasto di quello che accadrà nell’incipiente anno nuovo sulle piazze: si deve presumere come antipasto o pietanza unica delle campagne elettorali per il rinnovo non solo della rappresentanza italiana al Parlamento Europeo, ma anche di un bel po’ di amministrazioni regionali. Alle quali ultime però forzisti e leghisti parteciperanno insieme, da alleati, con candidati a governatori già concordati o in via di perfezionamento con incontri al vertice dei due partiti, e dei Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, per niente clandestini.

             Pertanto lo spettacolo improvvisato nell’aula di Montecitorio dai forzisti emuli, con quei pettorali azzurri, dei francesi in gilet gialli a Parigi e altrove  nelle settimane scorse, ha potuto mettere di buon umore i grillini. Fra i quali la convivenza al governo con la Lega di Matteo Salvini è stata vissuta dasalvini corazziere.jpg maggio con crescente disagio e preoccupazione un po’ per i perduranti legami personali e politici dello stesso Salvini con quel demonio che rimane nell’immaginario grillino il fondatore di Forza Italia ed ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, e un po’ per la capacità costantemente dimostrata dal capo del Carroccio di tenere la scena. E persino di apparire l’azionista non di minoranza della combinazione governativa gialloverde, in base ai risultati elettorali del 4 marzo scorso, ma di maggioranza in base ai sondaggi e, ripeto, all’attivismo del leader lombardo. Che, fra l’altro, a furia di andare in giro indossando felpe e altro della Polizia o di altri corpi sottoposti alla giurisdizione del Viminale finirà per avere la pretesa, ironicamente attribuitagli da Altan sulla prima pagina della Repubblica di carta, di presentarsi prima o poi al Quirinale come un corazziere, Tanto, il fisico ce l’ha.

            Difficoltà, contraddizioni, tensioni e quant’altro nel centrodestra, nella speranza o illusione che possano tradursi in un danno per Salvini, sono unguento sulle ferite procurate al corpaccione grillino dalle obiettive e crescenti difficoltà di tradurre in buona e concreta azione di governo uno stellare e perciò velleitario programma di “cambiamento” o addirittura di rivoluzione. “Rivolteremo questo Paese come un guanto”, ha appena promesso il presidente del Consiglio nella conferenza stampa di fine anno emulando il “calzino” evocato nel 1992 dai magistrati milanesi di “Mani pulite”, impegnati nella demolizione della cosiddetta prima Repubblica.

             Il programma grillino partendo dalla eliminazione o sconfitta della povertà, addirittura annunciata dal balcone di Palazzo Chigi dal vice presidente del Consiglio Luigi Di Maio in una notte di tre mesi fa come cosa ormai avvenuta, si è tradotto nella  liquidazione come avari -col richiamo del presidente del Consiglio a Moliere- dei  pensionati a soli 1500 euro e rotti al mese che protestano per la ridotta indicizzazione dei loro assegni decisa con la legge di bilancio. Avari, si deve presumere, come quelli che percepiscono pensioni sopra i 500 mila euro lordi annui e stanno lamentandosi, nelle loro case o negli alti uffici che ancora frequentano, per il prelievo quinquennale di “solidarietà” del 40 per cento sulla parte eccedente. E questo  40 per cento è stato sbandierato da Di Maio come un trofeo per far credere agli italiani di avere stramazzato non 23, quanto sono in Italia i pensionati sopra i 500 mila euro, ma centinaia, migliaia, centinaia di migliaia di odiosi “parassiti” o “profittatori”, come lui liquida di solito quelli di cui semplicemente non condivide pensioni,h stipendi, posti e qualifiche, secondo le circostanze e gli umori dei suoi elettori.

 

 

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I fuochi d’artificio di fine anno fra Montecitorio e Palazzo Chigi

             Se al Senato sono state le spalle rivolte al governo l’immagine emblematica della protesta contro aula senato di dietro.jpgle procedure, più ancora del contenuto, praticamente imposte dal governo per l’esame -si fa per dire- del bilancio del 2019, alla Camera sono stati i commessi e altri volenterosi ripresi dai teleobiettivi nel tentativo di contenere il deputato del Pd Emanuele Fiano, con la camicia sbottonata sul ventre ansimante di protesta.

           Fiano correva verso i banchi del governo per lanciare più da vicino possibile contro i sottosegretari di guardia, in assenza dei ministri, il faldone dei contestatissimi conti preventivi delloil manifesto.jpg Stato. Il cui peso da solo, e in ogni senso, dimostra la scandalosa sproporzione rispetto al tempo d’esame lasciato ad una Camera che il quotidiano il manifesto ha avuto facile, e drammatico, gioco a definire “ardente”: anche qui, in ogni senso.

           Il presidente grillino dell’assemblea Roberto Fico, abitualmente prodigo di sconfinamenti con parole ed opere in campi e materie di competenza governativa, tanto da essersi procurato più volte le proteste del vice presidente leghista del Consiglio e ministro dell’Interno Matteo Salvini, per non parlare degli imbarazzi trattenuti a stento dall’altro vice presidente e compagno di partito Luigi Di Maio, ha preferito deplorare dal suo scranno più le proteste delle opposizioni Legge di bilancio.jpgche la desistenza  della maggioranza. La quale infatti si è persino sottratta a quel poco di dibattito concesso col cosiddetto contingentamento per ridurne ulteriormente la durata e fare di quei faldoni stampati dalla tipografia di Montecitorio una specie di simbolo della crisi del Parlamento.

           Non meno sconcertante è stato lo spettacolo, a poche decine di metri di distanza, della  conferenza stampa di fine anno del presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Che ha paradossalmente usato proprio le paradossali procedure imposte al Parlamento, e alla fine subite dai presidenti delle due assemblee legislative, per respingere l’accusa -rivoltagli con particolare sarcasmo al Senato da Mario Monti- di essersi fatto scrivere il bilancio dalla Commissione Europea, dopo averla sfidata con quel deficit fissato nel mese di settembre  al 2,4 per cento del prodotto interno lordo e diventato alla fine 2,04.  

          Nossignori, il governo -ha praticamente raccontato Conte in una  sede leggermente distaccata di Palazzo Chigi- avrebbe condotto una dura trattativa con i commissari europei, spingendola oltre i tempi necessari al Parlamento per un esame dei conti finali degno di questo nome, proprio per difendere e conservare la propria sovranità. Ma se così fosse o fosse stato, non si capirebbe francamente il rifiuto di un ricorso al cosiddetto esercizio provvisorio per i giorni o le settimane -non più di due, per esempio- utili ad un dibattito parlamentare serio e credibile sul bilancio vero. Che così avrebbe anche potuto essere modificato, piuttosto che rinviare ad un altro provvedimento il rimedio all’errore, per esempio, clamorosamente riconosciuto del raddoppio dell’Ires su enti  e associazioni del volontariato.

          Una cosa, obiettivamente, è il ricorso all’esercizio provvisorio, consentito per un massimo di quattro mesi, non disponendo il governo e la sua maggioranza di un accordo sul bilancio. Altra cosa, più spiegabile o meno equivocabile in ogni sede, anche quella dei cosiddetti mercati finanziari, sarebbe stato e tuttora sarebbe in teoria un esercizio provvisorio di una quindicina di giorni per onorare, e non deridere, le prerogative del Parlamento. Che è la Conte e Casalino.jpgprincipale espressione della sovranità di quel “popolo”, citato nel primo articolo della Costituzione, cui i grillini intestano tutte le loro iniziative in una concezione del “populismo” rivendicata proprio dal presidente del Consiglio nella sua conferenza stampa di fine anno : il primo dei cinque della legislatura nata con le elezioni del 4 marzo scorso, ma non so francamente se anche della durata del governo Conte.

           Al di là o dietro l’ottimismo del presidente del Consiglio sulle prospettive dell’esecutivo gialloverde, un certo scetticismo o timore  si è colto nella disponibilità avvertita un po’ da tutti a un rimpasto, per cambiare magari qualche ministro troppo facile alle gaffe e, più in generale, agli errori. E magari anche per calibrare meglio i rapporti di forza fra i due partiti della compagine governativa alla luce dei risultati delle elezioni europee di maggio. Non parliamo poi della opportunità ventilata da Salvini di aggiornare il famoso “contratto” stipulato a maggio. Ma Conte deve essersi spinto troppo in questa direzione se dopo la conferenza stampa è intervenuta una sostanziale ritrattazione voluta dai grillini.

          Per il resto, della conferenza stampa del presidente del Consiglio è forse rimasto impressa a chi ha potuto seguirla in diretta da casa quella scarsa e poco convincente dimestichezza con le cifre, scambiando centinaia di migliaia di euro per milioni. Un avvocato civilista dell’esperienza e del rango di Giuseppe Conte, con le parcelle di studio praticate da una ventina d’anni, quanti sono quelli ormai trascorsi dall’adozione dell’euro, non può francamente né scherzare con l’avarizia, ricorrendo a Moliere per contestare le proteste dei pensionati  per il “raffreddamento” della indicizzazione del loro trattamento né mostrarsi poco abituato a calcolare i redditi altrui nel momento di tagliarli considerandoli troppo alti. 

 

 

 

 

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La ciliegina sulla torta del bilancio che verrà rimossa dopo l’approvazione

            E così anche il secondo e ultimo passaggio della legge di bilancio del 2019 alla Camera, come il primo dell’8 dicembre, sarà a giorni di pura o, se preferite, di sostanziale formalità. Alla sua sofferta ma ormai scontata promulgazione da parte del presidente della Repubblica seguirà una leggina per riportare al 12 per cento, o giù di lì, l’imposta raddoppiata appunto in bilancio sugli enti di volontariato. Lo hanno promesso più o meno all’unisono il presidente del Consiglio e i due vice presidenti di fronte alle proteste levatesi dal settore, dove sono state confuse lucciole per lanterne. In particolare, volendo colpire “i furbetti” del volontariato si è usata una potenza di fuoco da strage, per quanto metaforica.

          Di Maio a San Gennaro.jpgUn ruolo importante, anzi decisivo, nella protesta è stato svolto, con l’esplicito riconoscimento dello stesso governo, dai frati francescani di Assisi. Il cui Sacro Convento ha, fra i frequentatori, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, quando non corre al santuario di Padre Pio, nella sua Puglia, e il vice presidente Luigi Di Maio, quando Salvini col rosaio.jpgnon corre a Napoli per baciare la teca del sangue disciolto di San Gennaro. L’altro vice presidente del Consiglio, e ministro dell’Interno, Matteo Salvini se la cava marianamente in piazza col rosario, nutella permettendo.

          Rispetto a tutti gli altri infortuni, politici e istituzionali, della legge di bilancio quello del raddoppio della tassazione sul volontariato può forse essere considerato minore sul piano quantitativo. Ed ha anche qualche precedente, neppure tanto lontano. E’ invece il più significativo sul piano della qualità o del clima politico, a conferma della miscela di improvvisazione e incompetenza cui si è ridotto il carburante dell’orgoglioso governo del cambiamento.

 

 

 

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L’inesauribile sfida di Matteo Salvini predicando addirittura la normalità

           Più della fetta di pane spalmata di nutella con cui Matteo Salvini ha voluto esibirsi al suo pubblico la mattina di Santo Stefano, colpisce la rivendicazione che ha voluto fare di questo gesto dopo le proteste levatesi per la sfortunata coincidenza fra la spensieratezza del ministro dell’Interno e l’inferno -che fa  pure rima- del suo ufficio in senso lato. Che è stato letteralmente investito da una emergenza sicuramente incolpevole come quella di Catania, scossa dal terremoto e dalle eruzioni dell’Etna, ma anche da un incidente a dir poco imbarazzante per il Viminale: l’uccisione a Pesaro, sotto casa, di un uomo sottoposto a protezione delle forze dell’ordine perché fratello di un pentito della mafia calabrese. C’è poco da discutere: di un infortunio del genere un ministro dell’Interno non può liberarsi come di una mosca fuori stagione posatasi sulla sue dita intrise di nutella.

          Invece Salvini, peraltro anche vice presidente del Consiglio per non essere, come capo leghista, da meno del capo del movimento delle 5 stelle Luigi Di Maio, ha buttato le proteste levatesi  sul piano mediatico e politico in quello che lui considera evidentemente il cestino o il cesso della “sinistra”, vantandosi quindi -debbo presumere- di essere di destra. Non a caso, del resto, dopo i suoi pur trascorsi giovanili di sinistra, egli ha strappato nelle urne del 4 marzo scorso la leadership del centrodestra a un Silvio Berlusconi evidentemente considerato anche da una parte dei suoi tradizionali elettori troppo moderato, cioè troppo poco di destra per il momento e le esigenze del Paese.

          Oltre a semplificare in questo modo condotte e schieramenti, collocandosi cioè a destra e sbattendo a sinistra tutto il resto, come si faceva col fascismo e l’antifascismo, o il comunismo e l’anticomunismo, Salvini ha voluto impartire una lezione, diciamo così, di stile e di cultura istituzionale dicendo, testualmente: “Un ministro mangia, beve, dorme, sorride. Fa quello che fanno milioni di italiani normali. Forse questo dà fastidio a tanti professoroni: avere un governo normale che fa cose normali. Se l’opposizione la fate così, non governeremo altri vent’anni ma trenta”. Chissà se il plurale del Matteo “sbagliato”, come lo chiama Renzi, è solo leghista, o comprende anche i grillini.

          A parte il fatto che il governo di cui Salvini è vice presidente del Consiglio e ministro- ripeto- dell’Interno è nato col proposito dichiarato, anzi gridato, di essere diverso, di rappresentare e promuovere il “cambiamento” come mai nessuno aveva voluto in precedenza, stupisce che il leader leghista rivendichi la “normalità” di un esecutivo come questo. Che non per caso ma per calcolo politico ha varato una legge di bilancio sfidando con un deficit del 2,4 per cento la Commissione Europea, poi ha deciso di trattarne la modifica per sottrarsi a una procedura d’infrazione e l’ha infine stravolta con un emendamento di 270 pagine. Con cui, ricorrendo alla fiducia, esso  ha sottratto ogni tempo ragionevole di esame al Senato. E si accinge a strappare con lo stesso metodo il secondo e definitivo voto della Camera, che l’8 dicembre aveva approvato tutt’altra legge.

         Se questo è o può definirsi un governo “normale”, lasciando da parte ogni altra considerazione di sostanza sul bilancio del 2019, visto anche che quasi sicuramente alcune sue disposizioni finiranno all’esame della Corte Costituzionale per la loro temerarietà, bisognerebbe riformare anche il dizionario della lingua italiana. E non solo la Costituzione, come sembra che voglia fare la maggioranza gialloverde.

       A questo punto, più che a Salvini bisognerebbe rivolgersi a chi veramente lo stima e gli vuole bene perché lo convinca a  una certa, vera normalità di ragionamento e di condotta.

La sofferenza del presidente della Repubblica in questa fine d’anno

In tanti hanno lamentato o denunciato le ferite procurate al Parlamento dal governo gialloverde e dalla sua maggioranza nella convulsa gestione della legge di bilancio al Senato. E tutto sta per ripetersi alla Camera, dove sarà ugualmente ristretto il tempo a disposizione dei deputati, fra commissione e aula, per l’esame del testo trasmesso da Palazzo Madama, costituito dalle 270 pagine e rotte del maxi-emendamento governativo al bilancio già votato a Montecitorio l’8 dicembre.

Di un “bivacco di esautorati” ha parlato nella ormai ex bomboniera di Palazzo Madama, come per tanto tempo è apparsa l’aula del Senato per la sua eleganza, l’ex presidente del Consiglio Mario Monti in un tagliente intervento prima del voto. E dopo un discorso non meno duro di Emma Bonino, interrotto dall’impaziente presidente della seduta, il leghista Roberto Calderoli, ma condiviso con un comunicato dal presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano.

Non meno clamorose tuttavia sono state le ferite procurate dalla gestione governativa della legge del bilancioRichiamo sul Dubbiopg.jpg alle prerogative e funzioni del capo dello Stato. Di cui in alcuni giornali sono stati raccolti in forma troppo riduttiva le “inquietudini” solo per il rischio del ricorso al cosiddetto “esercizio provvisorio”, in caso di mancata approvazione definitiva della legge  entro il 31 dicembre.

Eppure il costituzionalista Michele Ainis ha dichiarato di considerare quel rischio “forse” meno dannoso degli strappi compiuti dal governo al tessuto parlamentare prima facendo approvare alla Camera solo per finta un bilancio destinato in partenza ad essere radicalmente cambiato al Senato, e poi limitandone a Palazzo Madama l’esame nella nuova versione, sino a strozzarlo con un voto di fiducia, e senza il preventivo giudizio della commissione competente.

Carlo Cottarelli, l’economista al quale il capo dello Stato aveva conferito nella primavera scorsa l’incarico di formare il governo dopo il fallimento del primo tentativo di Giuseppe Conte, è stato ancora più esplicito e severo di Ainis. Egli ha detto in una intervista televisiva, papale papale, che sarebbe stato meglio ricorrere all’esercizio provvisorio per il tempo strettamente necessario a un esame completo e vero del bilancio piuttosto che obbligare praticamente i senatori ad approvare il maxi-emendamento senza averlo potuto materialmente  leggere.

Se fosse stato lui insomma il presidente del Consiglio, come per qualche giorno era apparso possibile dopo le elezioni del 4 marzo, Cottarelli avrebbe risparmiato al Senato e, più in generale, alle istituzioni lo spettacolo di questa singolarissima fine d’anno.

D’altronde, mai e poi mai Cottarelli a Palazzo Chigi avrebbe sfidato la Commissione Europea con un deficit del 2,4 per cento rispetto al prodotto interno lordo, e consentito a un suo vice di festeggiarlo sul balcone. E mai e poi mai, resistendo alle sollecitazioni del presidente della Repubblica, come invece è accaduto, avrebbe lasciato praticamente passare quasi due dei tre mesi a sua disposizione per rinunciare alla sfida, aprire una trattativa con Bruxelles e chiuderla al 2,04 per cento di deficit. E per giunta in modo così concitato da fare del maxi-emendamento, per tempi e contenuto, un’avventura acrobatica tra palle e palline degli alberi di Natale degli uffici ministeriali. Dove -per inciso- è saltato anche un capo di Gabinetto fra l’indifferenza quasi generale, come se si fosse trattato di un fatto minore e scontato.

A cose fatte e gestite in questo modo, con i presidenti delle Camere e lo stesso presidente del Consiglio costretti a cercare precedenti che potessero fornire scappatoie improbabili, se non impossibili, ben difficilmente, anche se lo volesse, o ne fosse semplicemente tentato, il presidente della Repubblica dopo il voto definitivo della Camera potrebbe avvalersi del diritto molto importante riconosciutogli dall’articolo 74 della Costituzione. Che è quello di sospendere la promulgazione della legge e chiedere “con un messaggio motivato alle Camere una nuova deliberazione”.

Oltre al significato politicamente clamoroso di una sostanziale e non a caso inedita bocciatura quirinalizia del bilancio e del governo che lo ha proposto, con relative implicazioni comunitarie, Mattarella innescherebbe con un rinvio il meccanismo proprio del tanto temuto, a torto o a ragione, esercizio provvisorio. Che per quello stesso aggettivo che lo accompagna sarebbe sinonimo di crisi e instabilità. Il presidente della Repubblica insomma si trova -diciamolo del tutto francamente- con le mani legate, pur in presenza di non poche norme del bilancio destinate a finire davanti alla Corte Costituzionale. Cui peraltro c’è chi vorrebbe ricorrere persino per contestare le modalità di approvazione del bilancio, aggiungendo un inedito all’altro nella storia settantennale della nostra Repubblica parlamentare.

Ma, ponendosi in un’ottica quirinalizia esasperata, diciamo così, oltre all’articolo 74 è apparso ferito l’articolo 87 della Costituzione. Che nel quarto comma conferisce al capo dello Stato il diritto di “autorizzare la presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa del Governo”, compreso quindi quello del bilancio. E’ proprio l’articolo che non a caso, per la prima volta dopo gli anni lontani di Luigi Einaudi, evocandone la figura in una cerimonia pubblica, Mattarella evocò dopo le elezioni del 4 marzo, quando nacque la prospettiva di un governo non paragonabile ad alcun altro nella storia repubblicana. E apparve perciò ancora più decisivo il ruolo di garanzia del capo dello Stato configurato nella Costituzione.

Una volta autorizzata la presentazione alle Camere, magari dopo averne più o meno pazientemente atteso per settimane il testo vero -non quello genericamente annunciato dal Consiglio dei Ministri “salvo verifiche”, secondo una formula di cui il meno che si possa dire è che è stata ormai abusata- il capo dello Stato deve limitarsi a seguire a distanza il percorso parlamentare del disegno di legge.

“Fino a quando parla il Parlamento,  il presidente della Repubblica tace”, ha detto una volta lo stesso Mattarella, che peraltro è stato professore di diritto parlamentare prima di arrivare al governo come vice presidente del Consiglio o ministro, alla Corte Costituzionale come giudice  e infine al Quirinale come capo dello Stato.

Al massimo, il presidente della Repubblica può limitarsi, nella sua attività di cosiddetta “persuasione morale”, a far conoscere con sapiente discrezione le sue perplessità al governo e alle stesse Camere per qualcosa che di una legge potrebbe metterlo in difficoltà nell’atto della promulgazione, ma oltre non può certamente andare. E ciò specie in tempi e con partiti e uomini di governo come questi, che non hanno e non praticano riguardi a nessuno. Basterà ricordare, a questo proposito,  l’impeachment minacciato proprio contro Mattarella dal non  ancora vice presidente grillino del Consiglio Luigi Di Maio in occasione della mancata nomina di Paolo Savona a Ministro dell’Economia. Cui poi è seguita una sceneggiata televisiva dello stesso Di Maio per un decreto che sarebbe stato manomesso nel percorso fra Palazzo Chigi e il Quirinale: un decreto invece che era ancora in qualche cassetto ministeriale, dove avrebbe dovuto cercarlo la Procura di Roma cui lo stesso Di Maio aveva minacciato di rivolgersi.

Una volta approdata in Parlamento, la legge di bilancio del 2019 non è stata modificata in qualche sua parte, nel percorso  fra la Camera e il Senato, per effetto di un naturale confronto fra maggioranza e opposizioni, o all’interno della stessa maggioranza. Essa è stata letteralmente riscritta dal governo col già ricordato maxi-emendamento, in esecuzione degli accordi raggiunti con la Commissione Europea, ma anche per effetto dei ripensamenti e dei negoziati fra i due partiti della maggioranza sviluppatisi sino all’ultimo istante, anche dopo la cosiddetta bollinatura della Ragioneria Generale dello Stato.

A rigor di logica, e forse anche di galateo istituzionale, quella legge di bilancio  riscritta daccapo avrebbe dovuto paradossalmente ripassare dal Quirinale per l’autorizzazione prevista dall’articolo 87. Ma solo a pensarlo, non dico a reclamarlo, il capo dello Stato si sarebbe ritrovato come in quella notte di maggio del minacciato impeachment, rimosso dal percorso della crisi -ricordiamolo- solo per un intervento telefonico di Grillo, mai smentito, su Di Maio.

Le peripezie della legge di bilancio del 2019 moltiplicano le mie personali curiosità sul messaggio televisivo di Capodanno del capo dello Stato. Cui basterebbe una citazione letteraria, come quella manzoniana e felicissima del buon senso appannato dal senso comune, per lasciare intuire il disagio, diciamo pure la sofferenza che egli ha dovuto provare in questi giorni pur di festa.

 

 

 

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Meglio Beppe Grillo di Donald Trump con la favola di Babbo Natale….

              Beh, c’è sempre qualcuno che sta peggio di noi. Verrebbe voglia di dirlo di fronte all’ultima di Donald Trump, il potente e imprevedibile presidente degli Stati Uniti che al telefono con un bambino di sette anni, Coleman, ha smontato la favola di Babbo Natale. Lui, poi, che avrebbe anche il fisico e i soldi per indossare l’abito della figura più popolare e sognata in questi giorni di festa e fare davvero regali, distraendosi magari dalla truce storia delle frontiere murate, da far pagare per giunta a quelli che debbono rimanere dall’altra parte. E’ un po’ come fece nell’estate del 1961 a Berlino est Walter Ulbricht, col sostegno del dittatore di turno a Mosca, a spese dei suoi connazionali per impedire che  andassero a  stare meglio a Berlino ovest.

           Noi invece, in Italia, abbiamo al governo, o quasi, un comico ancora sensibile alla fantasia dei bambini e alle debolezze dei loro genitori: Beppe Grillo. Che ha riproposto sul suo blog personale un articolo del New York Sun del 21 settembre 1897 per ridurre a formiche i cervelli degli uomini come Trump, che di Babbo Natale se ne strabattono.

          Peccato solo che il nostro Grillo abbia voluto caricare sulla sua slitta come regali gli ingredienti, anche quelli più tossici,  della legge di bilancio del 2019 appena fatta approvare al Senato imbavagliandolo. E che nei prossimi giorni verrà ratificata dalla Camera. Dove la maggioranza sarà ancora più blindata che a Palazzo Madama.  

 

 

 

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Babbo Natale Beppe Grillo carica la manovra sulla slitta e parte

            Costretto dalle feste a sospendere il giro dei teatri italiani, Beppe Grillo ha recitato in casa, sul blog personale, la sua “Insomnia” per mandare una volta tanto al pubblico un messaggio di ottimismo. Egli ha impacchettato come regalo al popolo,  caricato  su una slitta suntuosa il bilancio approvato di notte al Senato ed ha assicurato che “Babbo Natale esiste”.

           Il comico fondatore del movimento delle cinque stelle si è anche travestito da giornalista, dimenticando tutti quelli che ha metaforicamente divorato negli ultimi tempi per il solo gusto di poterli Grillo 2.jpgpoi vomitare, ed ha riproposto la risposta che l’americano Francis Pharcellus Church sul New York Sun del 21 settembre 1897 diede ad una lettera ansiosamente scettica scritta dalla bambina di otto anni Virginia O’Hanlon. “Sì, Virginia, Babbo Natale esiste”, assicurò  Church. E ha ripetuto Grillo dopo 121 anni pensando magari anche alla quasi omonima sindaca pentastellata di Roma, Virginia Raggi, che solo viaggiando su una slitta da fiaba a un metro sopra le strade della Capitale, cioè volando, potrebbe scampare alle buche spesso mortifere.

            Dubitare dell’esistenza di Babbo Natale, e della bontà, generosità e quant’altro delle misure imposte dal governo gialloverde agli italiani è possibile solo a noi, o ai peggiori di noi poveri terrestri, costretti a vivere non sopra ma sotto le stelle, forniti quindi -come scriveva Church- dell’intelletto “di un semplice insetto, di una formica, se lo paragoniamo al mondo senza confini che lo circonda”.

            Così probabilmente Grillo e i suoi portavoce, come amano chiamarsi  i parlamentari del movimento da lui fondato, liquideranno anche “l’intelletto” di tutti quelli che hanno già annunciato o stanno programmando manifestazioni di piazza, scioperi e altro ancora contro i bidoni e bidoncini natalizi che, già approvati dal Senato, passeranno entro Capodanno pure alla Camera  con le stesse modalità, cioè forzature, a cominciare dal ricorso al voto di fiducia demonizzato in altri momenti, quando all’opposizione c’erano i grillini. Le piazze si riempiranno di formiche: niente di più e niente di meno, come quelle che già invadono i letti di certi ospedali italiani facendo compagnia a chi vi è ricoverato.

            Il vice presidente leghista del Consiglio e ministro dell’Interno Matteo Salvini, pure lui calatosi addosso una specieSalvini.jpg di divisa da Babbo Natale a Milano, magari sopra l’ennesima felpa della Polizia, non dovrà mettersi alla guida di nessuna ruspa per sgomberare strade e piazze quando si riempiranno di formiche. Gli basterà percorrerle a piedi con gli scarponi di ordinanza.

            Minacciando -o non so come altro dire- di “parlare” alla sua maniera dopo avere sentito quello che vorrà dire agli italiani il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel messaggio televisivo di Capodanno, nella presunzione -temo- che il capo dello Stato vorrà unire ai soliti auguri qualche riserva o preoccupazione per l’epilogo parlamentare del 2018, Salvini si è speso a favore della manovra finanziaria dandole 7, credo in una scala di voti da 0 a 10. Verrebbe voglia di ringraziarlo per quei tre voti che ha voluto risparmiare al massimo. Della lode neppure a parlarne, naturalmente.

 

 

 

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L’orgogliosa e curiosa appendice polemica di Conte con Bruxelles

            Reduce da un rapido viaggio nella dirimpettaia Libia, non compromesso per fortuna dai ritardi sulla strada del bilancio italiano del 2019 accumulati in un’aula a dir poco infuocata del Senato, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte in una intervista alla Stampa ha dismesso i panni dello statista Conte dixit.jpga ragione o a torto attribuitigli durante il negoziato con la Commissione Europea per sottrarre la manovra finanziaria alla costosa procedura comunitaria d’infrazione. E si è rituffato, addirittura con “orgoglio”, nella realtà di un’orchestra di governo dove la bacchetta del direttore è sua, ma la musica è quella che gli passano di giorno in giorno, di ora in ora, con le interpretazioni, le correzioni, gli aggiornamenti e quant’altro i suoi due vice presidenti del Consiglio. Che sono naturalmente il grillino Luigi Di Maio e il leghista Matteo Salvini, accumunati da Conte -si vedrà se con realismo o troppo ottimismo- nella volontà di accettarne “la resistenza”, non si sa se più a loro stessi o agli imprevisti, per durare a Palazzo Chigi sino al 2023. Siamo in un “orizzonte di cinque anni”, quanto dura una legislatura, superiore anche a quel che resta del mandato di Sergio Mattarella al Quirinale. Dove i più ottimisti, almeno fra i grillini, potrebbero addirittura coltivare la speranza di mandare proprio Conte. Ma probabilmente qui sconfiniamo nella fantapolitica.

             Il ridimensionamento del ruolo di statista attribuito -ripeto- a ragione o a torto al presidente del Consiglio nel passaggio dalla “guerra” alla trattativa con la Commissione Europea sui conti italiani sta nel suo tentativo, di fronte ai ritardi e al caos del maxi-emendamento alla legge di bilancio presentato e approvato col ricorso notturno alla fiducia nell’aula di Palazzo Madama, di attribuirne la colpa ai commissari europei . E ciò per i tempi troppo lunghi del negoziato in cui è stato  ridotto via via, sino al 2,04 per cento, il 2,4 di deficit sul prodotto interno lordo festeggiato a fine settembre sul balcone di Palazzo Chigi come bandiera della cosiddetta “manovra del popolo”.

            Invece, come potrebbe testimoniare il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel caso improbabile in cui volesse intervenire a gamba tesa in una operazione di verità, anche a costo di sacrificare Conte impesierito.jpgun po’ del suo tradizionale galateo istituzionale, il problema del negoziato con Bruxelles non è stato quello della durata, ma quello dell’inizio. Vi si è ricorsi  troppo tardi -dopo le sfide iniziali e le promesse di entrambi i vice presidenti di “non arretrare neppure di un millimetro”- rispetto alle scadenze istituzionali di fine anno per l’approvazione del bilancio. Cui anche la Camera, come il Senato nei giorni scorsi, dovrà pertanto provvedere con l’acqua alla gola, facendo finta di discuterne ma in realtà rinunciandovi.

             Di un simile spettacolo non vi è precedente nella ormai settantennale storia della Repubblica, per quanto i consiglieri di Conte gliene abbiano suggeriti due -del 2014 e del 2016- che egli ha compiuto l’imprudenza, a mio avviso, di indicare nell’intervista alla Stampa: l’imprudenza, perché improponibili, tanto diverse sono state le circostanze, a dir poco.

             Nel 2016 a gestire l’approvazione del bilancio fu il governo di Paolo Gentiloni, subentrato non più di sei mesi -come Conte rispetto allo stesso Gentiloni- ma qualche giorno prima a quello precedente di Matteo Renzi. Nel 2014 proprio il governo Renzi dovette ricorrere “di notte alla fiducia”, è vero, ma una sola volta, e non nella serie imposta al Parlamento in questo scorcio del 2018. E quella volta i grillini protestarono in un modo tale che avrebbe dovuto loro impedire solo di tentare una imitazione o replica.

           No, signor presidente. Uno statista in simili circostanze si scusa e basta, riservando l’orgoglio ad altro. E magari preparandosi a difendere il suo governo dalle proteste già levatesi e destinate forse a crescere dal popolo cui la manovra era stata dedicata, e che via via potrebbe invece scoprirne gli inconvenienti sulla propria pelle.  

 

 

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Dalla mirabolante manovra del popolo alla manovra del tartufo

                Annunciata a fine settembre -sopra e sotto il balcone di Palazzo Chigi-  come “la manovra del popolo”, quella uscita nella notte scorsa dall’aula del Senato con 167 voti favorevoli di fiducia, 78 contrari e 3 astensioni su un emendamento di 270 pagine arrivato in maxi-ritardo si può definire “la manovra del tartufo”. I cui raccoglitori -non so quanti esattamente in Italia- non sono stati risparmiati dalla spremuta fiscale in extremis, al pari dei disperati che giocano al lotto e di tanti altri chiamati a contribuire alla copertura delle troppe spese sopravvissute anche ai tagli concordati con la Commissione Europea.

              A quei tagli si è proceduto con una trattativa seguita alle sfide di settembre e ottobre: quando i due vice presidenti del Consiglio, il grillino Luigi Di Maio e il leghista Matteo Salvini, fungevano da paracarri IlFatto.jpglungo un percorso in cui il governo non si sarebbe mai fermato, e tanto meno sarebbe arretrato “di un millimetro”. Dal canto suo, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, professore di diritto, avvocato civilista “del popolo” pure lui, parlava seraficamente di una procedura europea d’infrazione come di qualcosa con cui il suo esecutivo gialloverde avrebbe potuto tranquillamente  “convivere”.

            Che cosa abbia poi indotto Conte e i suoi due vice a cambiare idea e a passare dalla sfida ad un mezzo accattonaggio politico, come alla fine è apparsa a torto o a ragione la trattativa con Bruxelles, per non parlare dell’appendice costituita dalla lunga elaborazione del maxi-emendamento al bilancio condotta negli uffici romani del Ministero dell’Economia, si saprà solo se e quando il presidente della Repubblica vorrà rivelare l’opera di “persuasione morale” svolta dietro le quinte sul governo. Cui poi egli ha voluto generosamente riconoscere, nella cerimonia degli auguri di fine anno sotto le volte affrescate del Quirinale, il merito o il coraggio, come preferite, di essere passato dalla sfida al negoziato nei rapporti con l’Unione Europea.

            In attesa di vedere gli effetti economici e sociali del bilancio che il Senato ha appena trasmesso alla Camera perché lo approvi in via definitiva entro il 31 dicembre, anche a costo di fermare l’orologio nell’aula di Montecitorio;  ma forse anche in attesa di vederne gli effetti giuridici, visto cheRolli.jpg alcune misure e persino modalità di approvazione saranno contestate davanti alla Corte Costituzionale, qualche giudizio politico si può ben esprimere già adesso. E non può che essere desolante, come dimostra d’altronde il disagio mostrato dagli stessi presidenti delle Camere. I quali hanno chiesto al governo, pur con giri di parole e tonalità di voce a dir poco prudenti, maggiore rispetto per il Parlamento, sempre che questo esecutivo dovesse avere naturalmente un’altra occasione di proporre una legge di bilancio.

            Ciò sembra improbabile, a dispetto dell’ottimismo ostentato in pubblico sia da Conte, sia da Di Maio, sia da Salvini. Il quale ultimo, peraltro, rivelatosi così refrattario a certi appuntamenti istituzionali, Salvini.jpgsino a disertare sedute parlamentari e cerimonie al Quirinale, ha voluto  -chissà perché-  assistere stoicamente nell’aula del Senato il ministro grillino  dei rapporti col Parlamento che poneva la fiducia sul maxi-emendamento presentato, ripeto, con un maxi-ritardo. E a cui poi , fra comprensibili proteste e zuffe, sono state apportate ulteriori modifiche a voce, tra commissione e aula, non essendovi più il tempo per proporle per iscritto.

            Mentre si accingeva proprio nella ormai ex “bomboniera” di Palazzo Madama ad esprimere un’astensione equivalente a voto contrario allaMonti.jpg fiducia al governo, il senatore a vita ed ex presidente del Consiglio Mario Monti ha scritto per il Corriere della Sera un editoriale dal titolo più che significativo: Bivacco in aula. Un bivacco -ha cercato di frenare Monti per non confondere il suo commento con la celebre liquidazione del Parlamento fatta da Benito Mussolini nel suo esordio come presidente del Consiglio nel 1922- “finora né sordo né grigio, ma di senatori esautorati”. Così aveva già denunciato nella stessa aula del Senato il giorno prima la senatrice Emma Bonino senza lasciarsi intimidire né dalle proteste dei parlamentari più esagitati della maggioranza né da un richiamo a dir poco infelice, almeno per i tempi e le circostanze, del presidente di turno della seduta: il leghista Roberto Calderoli.

 

 

 

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