Se al Senato sono state le spalle rivolte al governo l’immagine emblematica della protesta contro le procedure, più ancora del contenuto, praticamente imposte dal governo per l’esame -si fa per dire- del bilancio del 2019, alla Camera sono stati i commessi e altri volenterosi ripresi dai teleobiettivi nel tentativo di contenere il deputato del Pd Emanuele Fiano, con la camicia sbottonata sul ventre ansimante di protesta.
Fiano correva verso i banchi del governo per lanciare più da vicino possibile contro i sottosegretari di guardia, in assenza dei ministri, il faldone dei contestatissimi conti preventivi dello Stato. Il cui peso da solo, e in ogni senso, dimostra la scandalosa sproporzione rispetto al tempo d’esame lasciato ad una Camera che il quotidiano il manifesto ha avuto facile, e drammatico, gioco a definire “ardente”: anche qui, in ogni senso.
Il presidente grillino dell’assemblea Roberto Fico, abitualmente prodigo di sconfinamenti con parole ed opere in campi e materie di competenza governativa, tanto da essersi procurato più volte le proteste del vice presidente leghista del Consiglio e ministro dell’Interno Matteo Salvini, per non parlare degli imbarazzi trattenuti a stento dall’altro vice presidente e compagno di partito Luigi Di Maio, ha preferito deplorare dal suo scranno più le proteste delle opposizioni che la desistenza della maggioranza. La quale infatti si è persino sottratta a quel poco di dibattito concesso col cosiddetto contingentamento per ridurne ulteriormente la durata e fare di quei faldoni stampati dalla tipografia di Montecitorio una specie di simbolo della crisi del Parlamento.
Non meno sconcertante è stato lo spettacolo, a poche decine di metri di distanza, della conferenza stampa di fine anno del presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Che ha paradossalmente usato proprio le paradossali procedure imposte al Parlamento, e alla fine subite dai presidenti delle due assemblee legislative, per respingere l’accusa -rivoltagli con particolare sarcasmo al Senato da Mario Monti- di essersi fatto scrivere il bilancio dalla Commissione Europea, dopo averla sfidata con quel deficit fissato nel mese di settembre al 2,4 per cento del prodotto interno lordo e diventato alla fine 2,04.
Nossignori, il governo -ha praticamente raccontato Conte in una sede leggermente distaccata di Palazzo Chigi- avrebbe condotto una dura trattativa con i commissari europei, spingendola oltre i tempi necessari al Parlamento per un esame dei conti finali degno di questo nome, proprio per difendere e conservare la propria sovranità. Ma se così fosse o fosse stato, non si capirebbe francamente il rifiuto di un ricorso al cosiddetto esercizio provvisorio per i giorni o le settimane -non più di due, per esempio- utili ad un dibattito parlamentare serio e credibile sul bilancio vero. Che così avrebbe anche potuto essere modificato, piuttosto che rinviare ad un altro provvedimento il rimedio all’errore, per esempio, clamorosamente riconosciuto del raddoppio dell’Ires su enti e associazioni del volontariato.
Una cosa, obiettivamente, è il ricorso all’esercizio provvisorio, consentito per un massimo di quattro mesi, non disponendo il governo e la sua maggioranza di un accordo sul bilancio. Altra cosa, più spiegabile o meno equivocabile in ogni sede, anche quella dei cosiddetti mercati finanziari, sarebbe stato e tuttora sarebbe in teoria un esercizio provvisorio di una quindicina di giorni per onorare, e non deridere, le prerogative del Parlamento. Che è la principale espressione della sovranità di quel “popolo”, citato nel primo articolo della Costituzione, cui i grillini intestano tutte le loro iniziative in una concezione del “populismo” rivendicata proprio dal presidente del Consiglio nella sua conferenza stampa di fine anno : il primo dei cinque della legislatura nata con le elezioni del 4 marzo scorso, ma non so francamente se anche della durata del governo Conte.
Al di là o dietro l’ottimismo del presidente del Consiglio sulle prospettive dell’esecutivo gialloverde, un certo scetticismo o timore si è colto nella disponibilità avvertita un po’ da tutti a un rimpasto, per cambiare magari qualche ministro troppo facile alle gaffe e, più in generale, agli errori. E magari anche per calibrare meglio i rapporti di forza fra i due partiti della compagine governativa alla luce dei risultati delle elezioni europee di maggio. Non parliamo poi della opportunità ventilata da Salvini di aggiornare il famoso “contratto” stipulato a maggio. Ma Conte deve essersi spinto troppo in questa direzione se dopo la conferenza stampa è intervenuta una sostanziale ritrattazione voluta dai grillini.
Per il resto, della conferenza stampa del presidente del Consiglio è forse rimasto impressa a chi ha potuto seguirla in diretta da casa quella scarsa e poco convincente dimestichezza con le cifre, scambiando centinaia di migliaia di euro per milioni. Un avvocato civilista dell’esperienza e del rango di Giuseppe Conte, con le parcelle di studio praticate da una ventina d’anni, quanti sono quelli ormai trascorsi dall’adozione dell’euro, non può francamente né scherzare con l’avarizia, ricorrendo a Moliere per contestare le proteste dei pensionati per il “raffreddamento” della indicizzazione del loro trattamento né mostrarsi poco abituato a calcolare i redditi altrui nel momento di tagliarli considerandoli troppo alti.
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