In attesa di vedere cosa ci sarà davvero dietro l’angolo del Nazareno

Non foss’altro in omaggio del compianto Maurizio Costanzo c’è da chiedersi che cosa ci sia dietro l’angolo del Pd appena affidatosi con le primarie a Elly Schlein, anziché allo Stefano Bonaccini scelto dagli iscritti. E potremmo forse ripetere, come il compianto Giancarlo Pajetta allo stesso Costanzo, che c’è un altro angolo ancora. Ma il gioco non potrebbe durare a lungo. Fra un anno ci saranno le elezioni europee, alle quali ciascuna forza concorrerà da sola col proporzionale. E si capirà che cosa sarà rimasto del Pd, o che cosa lo stesso Pd avrà guadagnato dalla sorpresa della sua prima donna segretaria. 

Certo, impressiona che un’estimatrice della Schlein come Michela Murgia l’abbia appena definita sulla Stampa “la donna giusta per noi nel partito sbagliato per lei”, pur aggiungendo che “non si può avere tutto”, per cui “prendiamo il buono”. Ma il buono è un Pd semplicemente spaccato, dove Roberto Gressi sul Corriere della Sera si chiede giustamente se la Schlein sia una “veggente destinata a sfondare o velleitaria pronta a spegnersi”. 

Un ospite o migrante illustre, chiamiamolo così, come Pier Ferdinando Casini, che ha scelto di restare in Parlamento facendosi eleggere come indipendente nella sua Bologna fra i candidati del Pd, ha confessato alla Stampa che “un pò per tutti”, a cominciare naturalmente da lui, ”era meglio Bonaccini perché fa parte dell’orizzonte politico tradizionale. Schlein -ha aggiunto- è meno conosciuta, è più difficile capire che tipo di avversario sarà”. Avversaria, quindi, più che alleata. “La realtà è che tutti avrebbero preferito l’usato sicuro”, ha insistito Pierfurby. 

Infatti l’ex ministro Giuseppe Fioroni, proveniente come Casini dalla Dc ma accasatosi a suo tempo in pieno nel Pd, ha già annunciato la sua uscita. Ed altri “vecchi diccì” sono tentati dalla “fuga”, come ha annunciato Il Fatto Quotidiano. Spero, per loro, che non facciano la fine dei tonni in una tonnara, compreso -prima o poi- Dario Franceschini, ancora una volta schieratosi col vincitore di turno nella convinzione di avere stipulato l’ennesima polizza di assicurazione. 

Non mancherà certamente lo spettacolo nella nuova edizione del Pd partorita dalle primarie congressuali, e aperte, che dovevano essere di “rifondazione”. Sarà probabilmente lo spettacolo della “socialconfusione” annunciata dal Foglio, che pure nelle ultime elezioni politiche si schierò col Pd già destinato a perdere sotto la guida di Enrico Letta. Ed ora finito, si vedrà se nel bene o nel male, nelle mani di una segretaria che Giuliano Ferrara ha definito “modaiola e convenzionale”.

L’irriverente, indelicato e quant’altro Stefano Rolli nella vignetta del Secolo XIX  ha già forzato un po’ la natura della Schlein dandole della Contessa, intesa come moglie  di Giuseppe Conte. Che temo, per lei, preferisca la compagna attuale, pur provvista di un solo passaporto.

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Altro che Bonaccini, è la Schlein la scommessa di Renzi sul suo ex Pd

Luigi Zanda, che conosce il Pd come le sue tasche per esserne stato il capogruppo al Senato ed anche per un pò il tesoriere, aveva previsto con troppo ottimismo alla vigilia che pure questa volta con le primarie gli esterni, chiamiamoli così, non avrebbero osato contraddire il voto degli interni, cioè degli iscritti, per l’elezione del segretario del Partito Democratico. Ed aveva deciso di votare per Stefano Bonaccini, pur avendo disapprovato all’annuncio della sua candidatura il proposito -svanito con la vittoria della concorrente Elly Schlein- di guidare il partito senza rinunciare alla presidenza della sua regione, l’Emilia-Romagna. Zanda si era convinto insomma che la ripetizione dell’esperienza pur non fortunatissima di Nicola Zingaretti, per qualche tempo segretario del partito e presidente della regione Lazio,  potesse essere il male minore rispetto all’alternativa di una donna appena reiscrittasi al Pd, dopo essersene polemicamente allontanata, giusto per potersi candidare a guidarlo. E questo col  generoso permesso di tutti i concorrenti, che all’inizio erano tre, correndo per la segreteria anche Ganni Cuperlo e Paola De Micheli. 

“Finora non c’era il rischio di due maggioranze diverse, una nei circoli e una nei gazebo”, si era avventurato a dire Zanda a Repubblica. “Questo risultato -aveva spiegato   l’autorevole esponente del Pd- produrrebbe una spaccatura molto grave con aspetti serissimi sulla tenuta del Pd. Non solo negherebbe agli iscritti il diritto di scegliersi il segretario, ma li delegittimerebbe”. 

Ebbene, è esattamente quello che è accaduto pur tra le feste generali in una giornata che peggio d’altronde non poteva cominciare: con la notizia della strage dei migranti sulle coste calabresi subito portata dalla Schlein nell’arena delle primarie, fra gli elettori in fila davanti ai gazebo, accollando i cento e più morti della tragedia alla “coscienza” del governo in carica. Non agli scafisti, e neppure all’Europa che finanzia  la Turchia per farle tenere sigillati i confini terrestri ed alimentare così l’emigrazione clandestina via mare di quanti fuggono da guerre, fame e terremoti. Un genio, questa Schlein, che tuttavia per solidarietà di genere, chiamiamola così, ha ottenuto lo stesso gli auguri e gli incoraggiamenti di Giorgia Meloni  con la coscienza così compromessa. A raccontarla sembra una storia assurda. E’ invece piena realtà. 

Non per infierire sul povero, e peraltro mio carissimo amico Zanda, che conosco dai tempi in cui era il portavoce di Francesco Cossiga al Ministero dell’Interno, all’epoca del sequestro di Aldo Moro fra il sangue della  scorta e del suo assassinio dopo 55 giorni di penosa prigionia, ma mi permetto di fargli osservare che la regola delle primarie conformi nel risultato all’esito delle votazioni nelle sezioni del partito è saltata nella peggiore e meno legittimante edizione di questo modo di eleggere il segretario. Sono state, in particolare, le primarie meno partecipate, anche se a votare nei gazebo, o ad usare il computer nei casi consentiti dalle regole stabilite all’ultimo momento, sono stati più di un milione di persone.

E’ francamente difficile prevedere che cosa potrà produrre in un partito già sfiancato da un percorso congressuale di ben cinque mesi, dopo avere perduto le elezioni politiche del 25 settembre scorso e quelle regionali di due settimane fa, la combinazione di queste due prime volte costituite da una donna segretaria e dalla platea più bassa di elettori. Che sarà conforme, per carità, al fenomeno più generale dell’astensionismo ma rimane ugualmente una fonte o ragione di preoccupazione, non di fiducia. 

“La tenuta del Pd”, per ripetere le parole usate da Zanda, sarà tutta da verificare dopo la sorpresa della vittoria della Schlein, distanziata di una ventina di punti da Bonaccini nelle sezioni di partito. Temo per la nuova e prima segretaria del Nazareno che i “sorci verdi” in arrivo saranno più per lei che per la Meloni alla quale li ha promessi, o minacciati. 

Visto che la campagna congressuale è stata dominata, secondo molti e acuti commentatori, più dai “fantasmi” che dai concorrenti alla segreteria, in particolare da Matteo Renzi, visto a torto o a ragione dietro la,  figura del suo ex coordinatore Bonaccini, e da Massimo D’Alema, visto dietro tutti i più navigati capicorrente schieratisi per la “novità” della Schlein; visto, dicevo, che la campagna congressuale è stata dominata dai fantasmi di Renzi e D’Alema, ad occhio e croce mi sentirei di scommettere sui benefici che potrà trarne più il pur malandato ex rottamatore toscano, a caccia di voti moderati,  che il rottamato ex deputato di Gallipoli. Essi in fondo, molto in fondo, si assomigliano più di quanto non lasci ritenere la loro storia antagonistica. 

Pubblicato sul Dubbio

La Schlein conquista la guida del Pd accollando alla Meloni la strage dei migranti in Calabria

Altro che il “fattore donna” evocato “anche a sinistra” dalla Stampa per spiegare “la sorpresa”, avvertita da un pò tutti i giornali, della vittoria di Elly Schlein su Stefano Bonaccini nelle primarie per la segreteria del Pd. Purtroppo pesa su questo successo indubitabile sul piano numerico,  per carità,  lo sciacallaggio compiuto dalla Schlein, volente o nolente, addebitando alla “coscienza del governo” la strage di migranti sulla costa calabrese di Cutro. Nelle cui acque o sulla cui spiaggia sono state raccolte una sessantina di salme di donne, bambini e uomini ma si teme che il bilancio delle vittime superi i cento morti. 

Il barcone che trasportava dalla Turchia  disperati provenienti da terre devastate dalle guerre e dal terremoto si è spezzato per le condizioni agitate del mare ed ha fornito alla Schlein, ad urne dei gazebo ancora aperte, l’occasione di prendersela appunto col governo in carica: non con gli scafisti che si fanno strapagare la corsa alla morte che offrono ai disperati, non con l’Europa che finanzia il rigore della Turchia nella sorveglianze dei confini terrestri, per precluderli a chi cerca altrimenti  la salvezza, non con la cattiva sorte. No, solo e sempre con il governo, come se qualche nave dei soccorsi volontari fosse sul percorso scelto dai mercanti di carne umana e fosse stata tenuta lontana dalle direttive di Gorgia Meloni a Palazzo Chigi, o del ministro Matteo Piantedosi al Viminale, o di un altro Matteo, Salvini, dal Ministero di Porta Pia.

La sola idea che l’attacco al governo della Meloni, scomodatasi lo stesso a complimentarsi con la sua vittoria, possa avere aumentato le carte in mano alla Schlein per la sua scalata al Nazareno mi procura personalmente i brividi. E mi sorprende -a proposito di sorprese, appunto- che non ne abbia procurati anche ad altri leggendo o spulciando le tante cronache e i tanti commenti alla conclusione, finalmente, del lunghissimo percorso congressuale dell’ancora principale partito di opposizione. Attorno al quale la nuova segretaria si è impegnata ad organizzare una rete di rapporti e di iniziative da fare vedere finalmente i cosiddetti sorci verdi alla  presidente del Consiglio. 

Mi permetto e mi limito a ricordare agli smemorati ciò che ieri, quando ancora non si era verificata la tragedia sulle coste calabresi e tutto sembrava avviato verso  l’abitudinaria conferma nei gazebo del candidato designato dalla maggioranza degli iscritti, “il rischio” confidato a Repubblica dall’ex capogruppo al Senato ed ex tesoriere del Pd Luigi Zanda, convintosi a votare Bonaccini pur dopo averne contestato il proposito di fare contemporaneamente il segretario del partito e il presidente della sua regione: “il rischio  -ha spiegato Zanda- di due maggioranze diverse, una nei circoli e una nei gazebo. Questo risultato produrrebbe una spaccatura molto grave con aspetti serissimi sulla tenuta del Pd. Non solo negherebbe agli iscritti il diritto di scegliersi il segretario, ma li delegittimerebbe”.  

Il Pd finalmente al capolinea del suo lunghissimo congresso (ri)costituente

In un eccesso di retorico rifermento allo sbarco per la liberazione della Normandia e delle altre parti d’Europa occupate allora dalle truppe naziste, come l’Italia evidentemente oggi dal governo di Giorgia Meloni, la Repubblica fortunatamente solo di carta ha definito “il giorno più lungo” quello odierno del Pd. In cui si è più modestamente chiamati a scegliere nei gazebo -come ha ricordato il Corriere della Sera- fra Stefano Bonaccini ed Elly Schlein come segretario. 

Sulla stessa Repubblica, d’altronde, il vignettista Altan ride della retorica della testata osservando che “il bello delle primarie è che chi vince è uno dei nostri”, come “anche chi perde” per prendere il posto del povero Enrico Letta. Che Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano  ha iscritto alla sua anagrafe come “BaioLetta”, variante letterario-anagrafica della baionetta con la quale fino all’ultimo giorno del suo mandato si è schierato sulla guerra in Ucraina a favore dell’aggredito Zelensky e non dell’aggressore Putin. Cosa, quest’ultima, che confermerebbe di sicuro Bonaccini, al quale Travaglio non ha storpiato il nome limitandosi a inchiodarlo al suo passato di sostenitore dell’allora segretario del Pd Matteo Renzi. Che per lui basta e avanza per dirne e pensarne il peggio possibile.

Elly Schlein, invece, pur con qualche riserva che neppure Travaglio si risparmia,  e per sfortuna appena derubata dello zaino nel suo viaggio ferroviario e congressuale per tutta l’Italia, qualcosa di diverso da “BaioLetta” potrebbe dire e fare anche sul fronte ucraino. E pazienza se a  sostenerla paradossalmente nella sua corsa alla segreteria sono state le correnti  e gli uomini che più a lungo e più ostinatamente -prima, dopo e durante la stessa segreteria Renzi- hanno governato “la ditta”, come Pier Luigi Bersani chiamava il partito prima, durante e dopo -anche lui- la propria segreteria. 

Più modestamente, o meno retoricamente, della rappresentazione epica di Repubblica, e al prezzo di soli due euro l’uno, gli elettori chiamati nei gazebo, e quelli che potranno votare da casa digitalmente, col rito grillino, dovranno alla fine decidere se lasciare il Pd mezzo punto sopra il MoVimento 5 Stelle, come risulta dall’ultimo sondaggio effettuato da Demos, farlo risalire non so francamente di quanto, magari accorciando le distanze quasi lunari dal partito di Giorgia Meloni, o farlo davvero sorpassare da Giuseppe Conte. Che vi spera naturalmente, sfruttando ancora la promozione ottenuta dallo stesso Pd, guidando il suo secondo  governo, a “punto altissimo di riferimento dei progressisti”: parola dell’allora segretario del partito nazarenico, Nicola Zingaretti, ora ex anche come presidente della regione Lazio, e del mai abbastanza contemplativo filosofo della sinistra Goffredo Bettini. Dio li fa e poi li accoppia, dice un vecchio e felice proverbio. 

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Le doppie firme di Sergio Mattarella per fronteggiare il disordine politico della Repubblica

Tutti celebrano giustamente il salotto portato in televisione dal compianto Maurizio Costanzo rivoluzionando la comunicazione e altro ancora in quello scatolone elettronico davanti al quale si sono formate ormai generazioni di spettatori. Ma non è inferiore, questa volta sul piano istituzionale, l’evoluzione che già nel primo ma ancor più nel secondo mandato di presidente della Repubblica Sergio Mattarella sta imponendo alla politica e al potere. 

Anche il Quirinale è diventato per governi e partiti un salotto che si sbaglia forse a celebrare con parole e immagini non proprio salottiere come “gli schiaffi” evocati oggi da qualche giornale riferendo delle osservazioni critiche formulate dal capo dello Stato alle Camere e al governo in carica per le “mille proroghe” disposte e approvate anche quest’anno. Alle quali Sergio Mattarella non ha negato la firma solo per non aggiungere altri danni a quelli che già contiene la conversione del decreto legge. Ma che gli hanno procurato più delusioni e preoccupazioni del solito. 

Più che schiaffeggiare, mettersi di traverso, intimare ed altre espressioni o immagini usate dai giornali, Mattarella ha cercato di ottenere dall’ospite di turno, e di pietra, del suo salotto -ripeto- quello che ha appena ricevuto con la promessa del governo di una maggiore “attenzione”: parola magica, avrebbe detto la buonanima di Amintore Fanfani, che diventò con Aldo Moro addirittura una “strategia” politica. Passata con tutte le altre frattaglie di quella enorme salsiccia che più governi hanno preso l’abitudine di confezionare ogni fine anno per prolungare il provvisorio, la proroga delle concessioni balneari disposta in deroga agli impegni europei, e passibile di costosi procedimenti d’infrazione da parte degli organismi comunitari, è diventata con le osservazioni di Mattarella un errore cui poter rimediare al più presto. E non l’apertura di un nuovo conflitto all’interno di una maggioranza di governo forse già troppo affollata di problemi, paradossalmente tenuta in piedi dalla incapacità delle opposizioni di produrre un’alternativa, neppure se rimesse alla prova di altre elezioni anticipate.

In questo quadro, destinato a non cambiare neppure con la scelta che sarà compiuta domani con le cosiddette primarie per la successione ad Enrico Letta alla segreteria del Partito Democratico,     votando Stefano Bonaccini o Elly Schlein, valgono per la sopravvivenza del Paese più le doppie firme del presidente della Repubblica -una per la promulgazione di una legge e l’altra per farla correggere al più presto- che le procedure fissate dai padri costituenti, come il rinvio di quella legge al Parlamento per un nuovo voto. Essi immaginarono una Repubblica ordinaria come non è quella ridotta da un pò tutti i partiti negli ultimi trent’anni.

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La vecchia abitudine dei magistrati di sottrarre al governo il giudizio sui documenti riservati

La polemica più o meno diretta o a distanza fra il Guardasigilli Carlo Nordio e la magistratura, con velata minaccia di ricorso alla Corte Costituzionale, sulla titolarità del diritto di valutare la riservatezza di certi documenti – nel nostro caso, quello rivelato dal sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro al deputato e collega di partito  Giovanni Donzelli sul caso del detenuto anarchico Alfredo Cospito- mi ricorda una telefonata che nel 1985 l’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi mi fece a casa da Bruxelles. Dove aveva appena appreso con stupore dalle agenzie stampa che mi trovavo da qualche giorno agli arresti domiciliari per avere pubblicato due anni prima sulla Nazione in versione integrale un documento sulle connessioni internazionali del terrorismo. Esso era stato confezionato dai servizi segreti e trasmesso dalla Presidenza del Consiglio dell’epoca, cioè da Amintore Fanfani, alla commissione parlamentare d’inchiesta sul delitto Moro. Che era composta naturalmente da senatori e deputati di ogni gruppo, di maggioranza e di opposizione. 

Sottoposto subito ad indagine giudiziaria, con perquisizioni domiciliari e redazionali, consegna spontanea del documento prevenutomi da fonte che naturalmente mi rifiutai di rivelare e interrogatori condotti con l’iniziale domanda se avessi subìto “altre condanne”, quindi preannunciandomene una sicura, ero stato arrestato su richiesta di un sostituto della Procura di Roma convinto che io non fossi responsabile solo di violazione del segreto di Stato. Mi sospettava anche di depistaggio come promotore di interrogazioni parlamentari sulla vera natura di quel documento. Che io avevo pubblicato nella convinzione che non potesse essere più coperto da alcun segreto nel momento in cui era pervenuto ad una commissione di tanti parlamentari di ogni colore politico. 

Non a caso, del resto, qualche mese dopo la diffusione sulla Nazione quel documento fu pubblicato in uno dei volumi conclusivi, e acquistabili come la Gazzetta Ufficiale, dell’inchiesta parlamentare come allegato ad una relazione di minoranza. Cosa, questa, che il mio avvocato fece presente alla Procura di Roma senza riuscire evidentemente a farle cambiare idea sull’inchiesta che continuava contro di me e, naturalmente, il direttore responsabile della testata fiorentina. 

Craxi, che quel documento del resto conosceva bene avendolo letto dalla prima all’ultima parola prima di difenderlo in un comizio a Firenze durante la campagna elettorale del 1983 dall’annuncio delle perquisizioni e indagini condotte dalla Procura di Rona, mi chiese che “cazzo”- testualmente- fosse accaduto di nuovo da avermi procurato l’arresto, sia pure domiciliare. E mi preannunciò, sapendo bene che il mio telefono potesse essere intercettato, un intervento personale. 

Titolare, per legge, del diritto di valutazione del segreto di Stato, Craxi di ritorno a Palazzo Chigi scrisse alla Procura Generale della Corte d’Appello di Roma chiarendo l’ovvio, cioè che il documento aveva perduto il suo carattere di segretezza nel momento in cui era arrivato alla commissione parlamentare per la quale era stato confezionato allo scopo di una valutazione dei collegamenti internazionali del terrorismo italiano, di sinistra e di destra. 

Tornato a mia volta in libertà, per quanto allora definita “provvisoria”, attesi per un pò di conoscere la mia sorte giudiziaria. Ci volle un anno abbondante per ottenere il proscioglimento pieno, senza neppure il dibattimento pubblico, con una sentenza però velenosissima verso il presidente del Consiglio e i criteri adottati per desecretare praticamente il documento con effetto retroattivo, cioè dal momento in cui era pervenuto alla commissione parlamentare d’inchiesta. Dove evidentemente qualcuno aveva voluto farlo uscire disapprovando la decisione di non discuterlo, ed evitare imbarazzi a qualche parte politica, per il sopraggiunto scioglimento anticipato delle Camere. Che era stato provocato nel 1983 dalla Dc guidata da Ciriaco De Mita per interrompere la prima esperienza di un laico -il repubblicano Giovanni Spadolini- a Palazzo Chigi. 

Craxi lesse con crescente stupore e malumore le critiche ricevute dalla magistratura obbligandola di fatto -si sosteneva- a prosciogliermi. E dovetti sudare le proverbiali sette camicie per indurlo a non fare ricorso, che avrebbe riaperto la mia vicenda giudiziaria in sede d’appello. Cosa di cui diffidavo temendo che un successivo presidente del Consiglio -già sentivo puzza di bruciato nei dintorni di Palazzo Chigi per la smania di De Mita di interrompere con elezioni anticipate anche la seconda esperienza non democristiana alla guida del governo- potesse reagire diversamente a richieste o sollecitazioni della magistratura. Gli subentrò in effetti Fanfani, che già la volta precedente aveva risposto alla magistratura sulla natura di quel documento in modo così evasivo da indurla a credere che fosse davvero segreto, anzi segretissimo. Ed era invece pubblicabile, e soprattutto discutibile in un dibattito parlamentare di fatto invece impedito. 

Non so se questa mia esperienza può rivelarsi utile a Carlo Nordio nella contingenza attuale. L’ho voluta raccontare come testimone, a questo punto, pur sapendo che le circostanze e la stessa natura dei documenti in questione, per carità, sono diverse. I metodi tuttavia mi sembrano gli stessi.

Pubblicato sul Dubbio

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L’Onu continua a votare inutilmente contro la guerra di Putin all’Ucraina

Non dico un marziano tornato a Villa Borghese come ai tempi di Ennio Flaiano, col traduttore questa volta incorporato negli occhi, ma anche un italiano ingenuo o di media cultura, che prenda alla lettera la denominazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, con tanto di sede a New York, cui partecipano 193 Paesi di cui solo due -il Venezuela e il Libano- esclusi dal voto per morosità, potrebbe oggi tirare un sospiro di sollievo leggendo sulle prime pagine dei maggiori giornali italiani della condanna della Russia, la terza in un anno, per la guerra in Ucraina. 

Hanno votato in 141 contro Putin, invitato in una risoluzione proposta da 75 Paesi, fra i quali l’Italia, a sgomberare i territori occupati e a smetterla di bombardare, distruggere e uccidere, in soli 7 a favore, a cominciare naturalmente dalla Russia per proseguire con il Mali, la Siria, Bielorussia, Eritrea, Nicaragua e Corea del Nord, e 32 astenuti, fra i quali l’India e la Cina.  Col cui ambasciatore a Roma Beppe Grillo deve essersi complimentato in anticipo andandolo a trovare festosamente con un pallone bianco in mano, evocativo di quello-spia di Pechino abbattuto dai soliti, permalosi americani. 

Il marziano, giustificato in quanto tale, e l’italiano di cultura e informazione -temo- corrente non sanno che la costosa, anzi costosissima assemblea generale delle Nazioni Unite può tornare a votare all’infinito e inutilmente contro la Russia. Che nel Consiglio di Sicurezza dispone del famoso diritto di veto per impedire che una risoluzione di condanna si traduca in un intervento dei cosiddetti caschi blu spediti, con tutti gli armamenti necessari, in soccorso di Zelensky: “il signore”, come lo chiama Silvio Berlusconi in Italia, che ha provocato Putin tanto da fargli perdere la testa, o il Signore con la maiuscola che il solito Fatto Quotidiano, una volta tanto d’accordo col pregiudicato, puttaniere e altri insulti vari riservati all’ex premier, ha sfottuto oggi in una vignetta come un emulo di Gesù -Gesunsky appunto- che “cammina sulle democrazie” come quello vero faceva sulle acque. E già è tanto che il vignettista  Riccardo Mannelli non lo abbia immaginato impegnato anche a fare la pipì o la cacca sulle democrazie fra le quali si è arbitrariamente iscritto, essendo in realtà quello che Putin e soci indicano come erede e imitatore, da comico, di Hitler.

Resta da capire, volendo essere franco sino in fondo, e refrattario al conformismo e alla retorica cui non è riuscito a sottrarsi nessuno dei tanti governi succedutisi nella storia della Repubblica italiana, di conduzione ora anche e finalmente femminile, per quale dannato motivo dobbiamo spendere tanti soldi per mantenere questa organizzazione internazionale utile a fare sparare ogni tanto inutili titoli come quelli di oggi sul Corriere della Sera e sulla Stampa: rispettivamente “l’Onu vota il ritiro di  Mosca” e “L’Onu chiede il ritiro dei russi”, fra un bombardamento e l’altro. 

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Il processo più scomodo al Berlusconi politico, difeso da avvocati imbarazzanti

Paola De Caro, che segue abitualmente Silvio Berlusconi per il Corriere della Sera, ne scrive oggi come Ludovico Ariosto dell’Orlando furioso. Lo descrive “arrabbiato, fortemente deluso” e “offeso” col presidente ucraino Zelensky. Che notoriamente lo ricambia dell’antipatia e della disistima che l’ex premier italiano certamente non ha mai nascosto nei suoi riguardi, considerandolo responsabile della guerra nel suo Paese più dello stesso Putin che lo ha invaso un anno fa e lo  bombarda ogni giorno non essendo riuscito a impadronirsene del tutto. 

Con Zelensky, ma un pò Berlusconi ce l’ha pure con Giorgia Meloni, la sua alleata, con la quale non ha caso “è finora mancato” un contatto diretto. Da lei non solo Berlusconi ma anche alcuni suoi accaniti avversari si aspettavano una difesa esplicita dagli attacchi derisori rivoltigli da Zelensky, rispondendo ai giornalisti, nella conferenza stampa congiunta e conclusiva della visita della presidente del Consiglio italiana a Kiev. 

Leggete che cosa ha scritto sul Fatto Quotidiano Marco Travaglio cercando di trascinare nella polemica il Quirinale: “In un Paese serio, a rimettere in riga l’ucraino sarebbe già intervenuto il presidente della Repubblica, con le stesse parole con cui tappò la bocca alla ministra francese Boone che ci insegnava come votare il 25 settembre e minacciava di “vigilare” su di noi: “L’Italia sa badare a se stessa”. Invece purtroppo Mattarella tace. E tace anche la Meloni, mostrando vieppiù com’è il suo “sovranismo”: a sovranità limitata”. 

Ma Travaglio se da una parte ha invitato o sfidato Sergio Mattarella a intervenire in difesa di Berlusconi, dall’altra si è messo in concorrenza col presidente ucraino per strapazzarlo nella “cattiveria” di giornata in prima pagina. Dove è scritto: “Zelensky contro Berlusconi: “Non ha mai avuto le bombe in casa”. Preferiva le bimbe”. 

La disgrazia di Berlusconi, nelle paradossali contingenze interne e internazionali. è di essere sostenuto da avvocati per lui più imbarazzanti e dannosi che utili. “Mosca difende Berlusconi” grida proprio oggi in prima pagina Repubblica valorizzando al massimo la reazione della portavoce del ministro degli Esteri russo alle parole del presidente ucraino asserragliato nel suo bunker come Hitler a Berlino nei suoi ultimi giorni di vita paranoica.

Affidato in prima pagina alla difesa di Mosca, il giornale fondato dalla buonanima di Eugenio Scalfari ha dedicato all’interno all’ex presidente del Consiglio un’analisi di Stefano Folli a dir poco liquidatoria delle ragioni per le quali egli ha assunto sulla guerra in Ucraina una posizione così imbarazzante per un governo in cui pure il suo partito è rappresentato addirittura dal ministro degli Esteri Antonio Tajani in veste anche di vice presidente del Consiglio. In particolare, Folli se l’è presa con “l’egocentrismo, l’orgoglio, soprattutto il cinismo di un uomo che per una paio di decenni ha dominato la scena politica e non si rassegna al declino ormai totale”.

L’abitudine di vedere la politica estera con gli occhiali della politica interna

Forse è inevitabile, essendosi il fenomeno verificato anche nella cosiddetta e lontana prima Repubblica, e proseguito nelle edizioni successive di cui ho personalmente perso il conto, tante  ne sono state avvertite e persino analizzate da esperti veri o presunti della materia, ma è sicuramente rischioso vedere la politica estera con gli occhiali della politica interna. Ed anche viceversa, naturalmente. Ne esce fuori una visione deformata, a discapito della chiarezza e dell’obiettività. 

Ne ha appena toccato gli effetti -credo- la giovane presidente del Consiglio Giorgia Meloni di ritorno dalla tanto desiderata missione a Kiev nel primo anniversario della guerra indubitabilmente condotta contro l’Ucraina dalla Russia di Putin nella convinzione, clamorosamente smentita dai fatti, di chiuderla in pochi giorni o settimane come una “operazione speciale”. Così ancora i russi sono obbligati a chiamarla per non finire in galera dandole il nome che le spetta, e si è sinistramente meritato. 

Nelle intenzioni della premier italiana doveva essere una missione di ulteriore o definitivo accreditamento internazionale sul versante atlantista ed europeista del suo governo di destra-centro, o di centrodestra come preferisce ancora chiamarlo Silvio Berlusconi per rivendicare una specie di denominazione controllata e garantita dalla sua partecipazione, pur a ranghi ridotti rispetto alle precedenti edizioni, in una serie cominciata nel 1994.  Doveva essere, ripeto. Ma ha cominciato proprio Berlusconi a comprometterne la credibilità rilanciando una sua ormai vecchia polemica contro “il signor Zelensky”, immeritevole, secondo lui, di corteggiamento, amicizia, solidarietà e quant’altro per avere provocato la guerra più e prima di Putin. 

Costretta a casa da un’influenza stagionale che le ha lasciato l’inconveniente di colpi insistenti di tosse, la premier ha dovuto seguire con comprensibile disappunto questa specie di antipasto, immeritato dopo che aveva dato generosamente, per le ambizioni e la vanità dell’interessato, del “nostro migliore ministro degli Esteri” al Cavaliere, a rischio di declassare quello in carica che è Antonio Tajani, vice dello stesso Berlusconi nel partito. Dove da un pò di tempo crescono gli aspiranti a prenderne il posto, potendogli  e dovendogli bastare il ruolo che divide fra la Farnesina e Palazzo Chigi come ministro degli Esteri, appunto, e capo della delegazione forzista al governo con i gradi vice presidente del Consiglio.

Poi, rimessasi finalmente dall’influenza e fatti i bagagli per il viaggio, la premier italiana si è vista sorpassare nel traffico internazionale dal presidente americano Joe Biden, presentato in Italia dalle opposizioni come un furbacchione mossosi in tempi e modi tali da offuscare deliberatamente la Meloni, sino a negarle o comunque ad evitare un incontro fra il suo arrivo in Polonia da Kiev e la partenza  della stessa Meloni dalla Polonia all’Ucraina. Una telefonata di Biden non è bastata a risparmiare alla premier italiana sui giornali antipatizzanti di casa una mezza degradazione, utile ai fini della politica interna. 

Poi a Kiev nella conferenza stampa comune con Zelenski, dopo la visita alle località più vicine devastate dalla guerra e l’incontro conclusivo della missione, sulla premier è caduta come una tegola sulla testa  la sferzante risposta del presidente ucraino ai giornalisti ancora curiosi, dopo quello che aveva già detto nei giorni precedenti, di conoscere le sue opinioni sui rapporti fra Putin e Berlusconi. Cui l’amico russo ha risparmiato -ha detto Zelensky- le bombe e il sangue riservato agli ucraini. Gli ha risposto da Roma  dell’ex presidente del Consiglio, interrompendo “il silenzio” annunciato dal Giornale, rivendicando il ricordo degli anni adolescenziali in cui capitò alla sua famiglia, nella seconda guerra mondiale, l’esperienza degli sfollati.

Abbiamo assistito, sempre grazie agli occhiali della politica interna con cui in Italia siamo abituati o condannati, come preferite, a vedere la politica estera, allo spettacolo alquanto insolito di giornali ferocemente antiberlusconiani insorti contro la Meloni per non avere difeso “l’alleato” dagli attacchi e dalle derisioni di Zelensky. Che avrebbe umiliato, col suo modo di fare, la stessa ospite corsa a confermargli l’appoggio alla difesa dell’Ucraina  “sino alla fine”. 

Da qui a sostenere, come si è gridato dai palchi o dalle curve delle opposizioni, il fallimento, il flop e simili della missione della Meloni a Kiev il passo è stato naturalmente breve, anzi brevissimo. Ma, anche a costo di sembravi quello che non sono, cioè un elettore del partito della premier italiana, e cercando di pulire ben bene le lenti dei miei occhiali, mi riesce francamente difficile vedere la Meloni indebolita dal suo viaggio in Ucraina. E dare ragione a Berlusconi, che glielo aveva praticamente sconsigliato. 

Chi esce indebolito, o più indebolito di tutti, da questa vicenda internazionale, anche ai fini della politica interna, mi sembra piuttosto l’ex presidente del Consiglio. Il quale si trova ora, volente o nolente, con le sue posizioni vantate di “uomo di pace” opposto a tutti gli altri uomini di guerra, più allineato neppure al Pd, con tutti i suoi guai interni destinati a non finire con le primarie di domenica prossima, ma a Giuseppe Conte. Non proprio il massimo, direi: né per lui personalmente né per il suo partito. E neppure per il suo, e nostro, ministro degli Esteri.

Pubblicato sul Dubbio

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Il dramma ucraino nel solito fango della politica interna italiana

Se il problema non fosse drammaticamente serio, trattandosi della guerra in Ucraina, ci sarebbe da divertirsi a vedere, sentire e leggere le rappresentazioni politiche e mediatiche in Italia del grande traffico, chiamiamolo così, svoltosi nelle ultime 48 ore tra Kiev e Varsavia. Cui hanno partecipato il presidente americano Joe Biden e la presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni per ribadire e rappresentare fisicamente il sostegno dei rispettivi paesi, e più in generale dell’alleanza atlantica e dell’Unione Europea, alla causa dell’indipendenza e della sopravvivenza dell’Ucraina aggredita dai russi. 

Ciò che di questo traffico, e dello scontro a distanza verificatosi fra Biden e Putin -“a testate”, ha titolato il manifesto pensando forse anche a quelle nucleari di cui dispongono l’uno e l’altro- è diventato centrale nei racconti italiani “lo schiaffo” -come ha titolato La Stampa- che  il presidente ucraino Zelensky, nella conferenza stampa congiunta con la Meloni dopo il loro incontro, ha voluto dare a Silvio Berlusconi rispondendo ai giornalisti sulla posizione critica assunta verso di lui in Italia dall’ex presidente del Consiglio. Che notoriamente lo considera “il signore” maggiormente o unicamente responsabile della guerra in corso.

Mentre Berlusconi dall’Italia ha scelto sul Giornale di famiglia “il silenzio” gridato nel titolo di prima pagina, rompendolo solo per opporre la sua esperienza adolescenziale di “sfollato”, nella seconda guerra mondiale, alla situazione rinfacciatagli da Zelensky di non avere subito attacchi alle sue case e cose dall’amico Putin; mentre Berlusconi, dicevo, ha scelto “il silenzio” altri insospettabili suoi avversari come Il Fatto Quotidiano ne hanno preso le difese. E accusato la Meloni di aver lasciato offendere il suo alleato di governo. “Zelensky -ha titolato il giornale di Marco Travaglio- umilia Meloni insultando Berlusconi”. 

Anche il mio amico Piero Sansonetti, che con Travaglio si prende di solito a testate, per  dirla come ilmanifesto, ha tradotto e liquidato così sul suo Riformista la conferenza stampa congiunta del presidente ucraino e della premier italiana: “Zelensky insulta Berlusconi. Fallisce la visita di Meloni a Kiev”. Che ora dovrà vedersela con l’alleato, forse come l’ha rappresentata Stefano Rolli nella vignetta di prima pagina del Secolo XIX, dove la premier respinge con un cazzotto un Berlusconi smanioso di sapere come fosse andata la missione a Kiev da lui sconsigliata pubblicamente.

Non so se la Meloni sia davvero rimasta spiazzata e umiliata dal presidente ucraino rappresentato su Repubblica come “l’elefante nella stanza”. Ma so che nella conferenza stampa congiunta, come ho letto sul Sole 24 Ore con la firma dell’inviata Barbara Fiammeri, non ha avuto alcun imbarazzo a confermare l’appoggio del suo governo all’Ucraina “sino alla fine”, a prescindere dalle opinioni del Cavaliere. “E’ così che si parla”, ha titolato e commentato Il Foglio. 

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