Va bene che il diavolo si nasconde nei dettagli, come dice un vecchio proverbio, ma non bisognerebbe esagerare a vedere ovunque l’uno e gli altri. Così hanno fatto invece gli antipatizzanti di Giorgia Meloni sovrapponendo al suo viaggio in Ucraina quello di Joe Biden, come se i presidenti emericano e ucraino si fossero accordati per sminuire, umiliare e quant’altro l’arrivo della presidente del Consiglio italiano a Kiev. E magari fare così un piacere in Italia a Silvio Berlusconi, espostosi come più non poteva a rimproverare alla sua premier e alleata la smania di incontrare “il signor” Zelensky, responsabile della guerra nel suo paese più di Putin che l’ha invaso e insanguinato con l’obiettivo di impadronirsene, anche a costo di distruggerlo. Anzi, con l’obiettivo ormai di distruggerlo per impadronirsi delle sue macerie, non essendogli riuscito di annetterlo ancora in piedi.
“Biden a Kiev impalla Meloni”, ha annunciato quasi orgogliosamente il solito Fatto Quotidiano, perdonando così al capo della Casa Bianca la colpa rimproveratagli in altra parte della prima pagina, nella “Cattiveria” di giornata, di essere “atterrato a sorpresa a Kiev per visitare il cantiere”: quello non della guerra di Putin all’Ucraina ma dell’Ucraina a Putin commissionato dagli Stati Uniti a Zelensky rifornendolo di soldi e di armi insieme con gli alleati occidentali.
E la telefonata di Biden in arrivo da Kiev in Polonia alla Meloni in partenza dalla Polonia per Kiev dopo gli incontri politici avuti a Varsavia? Telefonata annunciata dall’Ansa e riferita negli articoli di tutti gli inviati dei giornali italiani al seguito della presidente del Consiglio italiana. Una iniziativa evidentemente presa dal presidente americano non per materializzare una staffetta con l’alleata nel sostegno all’Ucraina ma per partecipare da lontano al Carnevale italiano.
Sino a quando l’informazione, con la minuscola, in nome della quale si commettono più porcate che in nome della Patria, con la maiuscola, riferirà gli eventi politici in questo modo, privilegiando il retroscena alla notizia, non potremo né dovremo lamentarci delle edicole che chiudono per mancanza di clienti e delle urne disertate da elettori frastornati. Che magari stanno scambiando l’Ucraina saccheggiata da Putin per un presepe gestito da Zelenski, oltre che per il cantiere di Biden.
Da orgogliosamente concavo e convesso, secondo le convenienze del momento, quale si era sempre detto Silvio Berlusconi parlando dei rapporti sia con gli alleati sia con gli avversari, e guadagnandosi anche per questo a suo tempo da Francesco Cossiga il riconoscimento di avere impiegato pochissimo a diventare in politica da dilettante a professionista, l’ex presidente del Consiglio deve avere sorpreso non pochi dei suoi amici, e forse anche estimatori, a diventare un paracarro sul terreno addirittura della politica estera. Che sembrava la sua materia preferita, coltivata in prima persona a Palazzo Chigi anche quando disponeva alla Farnesina di fior di ministri come i compianti Antonio Martino e Franco Frattini
Dell’antica e solita malleabilità di Berlusconi si è appena avuta una conferma in politica interna a proposito della polemica esplosa nella maggioranza sul decreto legge non riuscito neppure a Mario Draghi, ma che Giorgia Meloni non ha esitato a varare per fronteggiare il disordine creato da Giuseppe Conte col cosiddetto superbonus edilizio, lasciando a ruota libera il mercato dei crediti d’imposta. Insorto direttamente o indirettamente anche lui contro il provvedimento immediatamente controfirmato invece dal capo dello Stato, consapevole della sua necessità e urgenza, Berlusconi si è praticamente sfilato in meno di 24 ore da una posizione quasi concorrenziale rispetto all’offesissimo Conte. Egli ha riconosciuto la ‘inevitabilità” dell’intervento del governo e ordinato ai suoi di smetterla di minacciare, anche solo a mezza voce, di non votarlo. Così nella trattativa aperta con le parti interessate alle modifiche da apportare nel percorso parlamentare di conversione del decreto la Meloni è riuscita non dico ad eliminare ma almeno ad attenuare la sponda berlusconiana che i protestatari più scatenati pensavano di avere trovato, insensibili al costo sproporzionato cui era arrivata per la finanza pubblica l’operazione escogitata dal secondo governo Conte. Che peraltro ancora si vanta di avere in quel modo miracolato l’economia nazionale.
Sul tema invece della guerra in Ucraina, e delle responsabilità addebitabili secondo lui non tanto a Putin quanto al presidente Zelensky – quel “signore” tanto sostenuto e ammirato dalla Meloni- l’ex presidente del Consiglio è rimasto sulle sue da quando fece la prima sortita sostanzialmente filorussa, l’anno scorso, a Napoli. Che è la città dove, guarda caso, il presidente e capogruppo del Partito Popolare Europeo nel Parlamento di Strasburgo, Manfred Weber, ha appena annunciato che non si terrà più un programmato summit di partito dove Berlusconi da padrone di casa avrebbe potuto distinguersi, nonostante la polemica continuata e aggravata con Zelensky. L’appoggio alla cui resistenza all’invasione russa -ha ammonito Weber- “non è facoltativo”.
Ma io sono un uomo di pace, ha reagito Berlusconi facendo salire ulteriormente la temperatura nei rapporti con un Partito Popolare evidentemente guidato da uomini di guerra come Weber. Che la capogruppo di fiducia di Berlusconi al Senato, Licia Ronzull, ha definito “inadatto” a rappresentare i popolari europei. Unfit, in inglese, come gridò a suo tempo proprio di Berlusconi alla guida del governo italiano il famoso settimanale britannico Economist, ora di proprietà degli eredi del compianto avvocato Gianni Agnelli.
Ai democristiani tedeschi, quali sono i popolari in Germania, col passato che ha il loro Paese sulle spalle, la peggiore offesa che si possa fare è proprio dar loro degli uomini di guerra, come se avessero ereditato dai nonni le svastiche e gli elmetti hitleriani. Possibile -mi chiedo- che non se renda conto non dico la giovane Ronzulli ma il vecchio, ultraottuagenario Berlusconi? Peraltro ricovando tutte le fatiche fatte, dopo la discesa in campo politico con la sua Forza Italia, per essere ammesso al Partito Popolare Europeo? E vantarsi poi di tanta appartenenza favorita a suo tempo da democristiani italiani doc come Pier Ferdinando Casini, che convinse un riluttante o dubbioso Helmut Khool a vedere nell’affiliazione di Berlusconi una occasione preziosissima per poterlo meglio indirizzare, controllare e quant’altro.
Più che con il Partito Popolare Europeo Berlusconi in questi mesi e giorni di scatenamento contro Zelensky ha voluto scontrarsi con la sua componente tedesca. Che Weber rappresenta peraltro non tanto come uomo della vecchia CDU ma della CSU, l’Unone Cristiana Sociale, cioè la Democrazia Cristiana bavarese. Che è sempre stata più a destra della CDU, come sanno i più anziani, o meno giovani, che ricorderanno quanto contasse anche nella Germania dello storico cancelliere Adenauer il bavarese, appunto, Franz Joseph Strauss, capo della CSU. La Baviera è sempre stata terra di convinzioni radicali: la terra non a caso del compianto Papa Ratzinger.
Personalmente ritengo che Berlusconi abbia aperto in Europa, con questo scontro con i popolari, una partita destinata a ritorcersi contro di lui anche nella politica interna, lasciando a Giorgia Meloni, la leader anche dei conservatori europei attesa a Kiev, spazi o praterie sino a qualche anno fa inimmaginabili.
Nelle interviste ai giornali italiani rilasciate alla vigilia del viaggio di Giorgia Meloni a Kiev via Polonia, il paese della Nato che gli americani hanno scelto come avamposto degli aiuti militari all’Ucraina aggredita da russi, il presidente Zelensky ha fatto una rapida incursione nella mostra politica interna per scommettere sulla “solidità” del governo di Roma. Solo Il Messaggero, a dire la verità, ha ritenuto opportuno farne il titolo in prima pagina. Tutti gli altri, pur riportando gli elogi a “Giorgia”, come Zelensky chiama confidenzialmente la presidente del Consiglio italiana, hanno preferito sorvolare su questo particolare, Che pure ritengo abbia la sua importanza per il contesto nazionale nel quale la visita della Meloni a Kiev è stata preparata e di cui Zelensky è sicuramente informato: tra le critiche di Silvio Berlusconi, all’interno della maggioranza, alla smania della premier di incontrare “quel signore” ucraino, e il putiferio scoppiato, sempre nella maggioranza, sul malaffare del mercato dei crediti d’imposta derivanti dal cosiddetto superbonus edilizio delle facciate e simili, lasciato per troppo tempo senza disciplina dal secondo governo di Giuseppe Conte,
Anche in questo affare, o malaffare, la maggioranza è stata terremotata dal sostegno di Berlusconi alla rivolta contro il decreto legge cui il governo ha dovuto ricorrere per evitare lo sfascio della finanza pubblica, ma anche il costo di duemila euro subìto da ciascun italiano. Va riconosciuto tuttavia che almeno su questo punto Berlusconi -con un casco da muratore in testa messogli dal Giornale di famigliarispolverando una vecchia foto d’archivio-ha cercato rapidamente di mettere una pezza abbassando i toni e non insistendo sulla minaccia di non votare il provvedimento riconosciuto “inevitabile”. Sulle cui modifiche il governo ha aperto una trattativa con le parti interessate.
I toni invece Berlusconi non ha ritenuto di abbassarli nella polemica contro Zelensky e i troppi riguardi che la Meloni avrebbe per lui, ignorandone la responsabilità che avrebbe nella guerra sferrata da Putin. Anzi, li ha in qualche modo accentuati respingendo come “uomo di pace” le dure reazioni polemiche del presidente del Partito Popolare Europeo e capogruppo a Strasburgo Manfred Weber: un uomo evidentemente di guerra.
Zelensky poteva ripetere nelle interviste ai giornali italiani l’accusa già rivolta a Berlusconi una volta di stringere “le mani insanguinate di Putin”. Ma questa volta ha preferito rimproverargli solo la “disinformazione” russa nella quale è caduto e sfotterlo un pò dicendo di essere pronto anche a lui, come Putin, a mandargli qualche cassa di vodka ucraina, per niente inferiore di qualità a quella russa. L’importante per il presidente ucraino era non compromettere le capacità riconosciute alla Meloni: “una donna forte -ha detto in un passaggio riportato dalla Stampa– che può tenere compatto il suo governo”, non solo sul sostegno militare e politico all’Ucraina.
In apparenza il problema principale del governo è la controversia esplosa anche al suo interno sul cosiddetto superbonus edilizio tagliato dal decreto legge che i forzisti hanno imposto alla Meloni, e al ministro leghista dell’Economia, di negoziare nel percorso parlamentare di conversione, minacciando di non votarlo. E’ un pò il mattone lanciato contro la presidente del Consiglio, rompendole il vetro della finestra, rappresentato da Stefano Rolli nella vignetta di prima pagina del Secolo XIX.
Qualche accordo si finirà per trovarlo considerando anche la rapidità con la quale Sergio Mattarella ha controfirmato il decreto legge condividendolo, a causa del rischio di sfondare il bilancio col debito pubblico spinto dal mercato dei crediti d’imposta alimentato dalla improvvida disciplina del superbonus adottata dal secondo governo Conte. Ma considerando anche la insostenibilità politica della concorrenza di Berlusconi al capo del Movimento 5 Stelle sul terreno dello spreco delle risorse. Pure le imprese, in subbuglio, dovranno prima o poi rassegnarsi a riconoscere gli abusi ai quali si è prestata la disciplina Conte, che già Mario Draghi aveva denunciato, e cui non aveva potuto rimediare per la partecipazione dei grillini al suo governo. Caduto forse nella scorsa estate anche o soprattutto per questo.
Ma ancora più ingombrante della concorrenza con Conte sul terreno economico e finanziario si è fatta per Berlusconi la vertenza apertasi col Partito Popolare Europeo per i suoi attacchi al presidente ucraino, come se fosse di Zelensky la responsabilità della guerra aperta da un Putin provocato. Attacchi che Berlusconi continua vantandosi di essere “uomo di pace”, anche dopo che per ritorsione i presunti uomini di guerra del Partito Popolare, a cominciare dal presidente e capogruppo a Strasburgo Manfred Weber, hanno annullato per protesta un summit organizzato a Napoli per il mese di giugno.
L’ancòra Giornale della famiglia Berlusconi dà oggi per “chiuso” l’incidente dopo un incontro di Antonio Tajani, ministro degli Esteri e vice del presidente di Forza Italia, che tuttavia non è riuscito a fare revocare la rinuncia al summit di Napoli. Del resto, l’insospettabile Verità di Maurizio Belpietro, di area orgogliosamente di centrodestra, oggi titola su un “Berlusconi umiliato”, passato “da vero statista ad appestato”, anzi “stritolato”, dal “dogma” dell’appoggio a Kiev.
Del caso per niente chiuso si occupa su Repubblica nel suo suo editoriale il direttore Maurizio Molinari in persona sottolineando i problemi di credibilità e quant’altro dell’Italia creati da Berlusconi alla Meloni in procinto della sua vita a Kiev. Dove Zelensky, come potrebbe accadere oltre Oceano quando la Meloni vi andrà, potrà chiederle chiarimenti e garanzie di tenuta dell’Italia sul fronte contrario alle mire espansionistiche di Putin. Un fronte che è diventato per Berlusconi il classico tallone d’Achille: lui, così a lungo fideisticamente europeista e atlantista.
E’ durato davvero poco il sollievo procurato a Silvio Berlusconi dall’assoluzione in primo grado a Milano dall’accusa di corruzione in atti giudiziari per gli aiuti alle olgettine delle sue feste private quando era presidente del Consiglio. Da quel momento, oltre a non potere escludere il ricorso della Procura in appello, i problemi politici del leader di Forza Italia sono aumentati senza lo zampino, questa volta, della magistratura. Nei cui riguardi, forse anche per questo, persino dagli alleati di governo è arrivato il sostanziale rifiuto di appoggiare una inchiesta parlamentare sull’uso politico della giustizia. Che d’altronde dura da ben prima che l’uomo di Arcore scendesse in politica.
Già coinvolto pure lui per le incaute promesse elettorali nella crisi dei superbonus dell’edilizia varati dal secondo governo di Giuseppe Conte e diventati supermalus, nel titolo del manifesto, per l’abuso della cessione dei crediti inutilmente segnalato dal governo di Mario Draghi; già coinvolto pure lui, dicevo, in questo pasticcio, che ha obbligato il governo in carica a intervenire per dolorosi obblighi di contabilità con un decreto legge d’incerto percorso parlamentare, Berlusconi è incorso in guai ancora maggiori sul piano europeo. Che pure gli sembrava più congeniale.
Sarà pure esagerato lo “schiaffo” del Partito Popolare Europeo, appunto, attribuito dall’Ansa al capogruppo di Strasburgo Manfred Weber per la decisione da questi annunciata -per ritorsione contro le critiche del Cavaliere a Zelensky sulla guerra in Ucraina- di annullare un incontro internazionale programmato a Napoli. Che peraltro è la città scelta tempo fa da Berlusconi per cominciare a scaricare di fatto sullo stesso Zelensky le responsabilità pur così evidenti di Putin nell’invasione del paese limitrofo. Sarà pure esagerato, dicevo, lo “schiaffo” gridato dall’Ansa, ma il botto di Weber è stato grosso in Italia e fuori, visto quanto Berlusconi ha sempre tenuto, anche nei rapporti con i suoi alleati in Italia, a vantare la partecipazione al Partito Popolare Europeo. Il cui capogruppo ora gli ha pubblicamente ricordato che l’appoggio all’Ucraina “non è facoltativo”.
Ora, paradossalmente ma non troppo, si trova più vicina al Ppe come leader dei conservatori europei la Meloni, che peraltro sta tessendo una tela anche con Weber in persona per cambiare gli equilibri politici nell’Unione a scapito dei socialdemocratici.
Ha un bel rifarsi il Giornale ancora di famiglia dell’ex presidente del Consiglio titolando su tutta la prima pagina più sulla risposta “sferzante” di Berlusconi al Partito Popolare Europeo -“Ora parliamo di pace”- che sullo “schiaffo” di Weber. Le cui foto col Cavaliere, e con Antonio Tajani, prima che il capogruppo di Strasburgo si facesse crescere la barba, sono diventate ancora di più d’archivio. Il Giornale si è trovato peraltro allineato, non credo comodamente, col Fatto Quotidiano che continua a scrivere di Berlusconi come del Caimano.
Va bene che siamo a Carnevale e, come dice un vecchio proverbio, ogni scherzo vale. Ma questa volta non si sa neppure di che cosa ridere di più leggendo le cronache politiche o, se vogliamo essere più completi, quelle di politica e di giudiziaria insieme: un fritto misto servito ormai da tanti anni ai lettori. Che ormai per sapere e capire quanto la giustizia si sia politicizzata, o la politica si sia lasciata espropriare dalla magistratura, non hanno francamente bisogno della commissione parlamentare d’inchiesta fatta riproporre da Berlusconi dopo l’ennesima assoluzione, e in pendenza ancora di altri processi o indagini, fra le resistenze, i dubbi e quant’altro anche dei suoi alleati. Fra i quali non mi sembra francamente che abbiano torto quanti considerano la solita commissione parlamentare d’indagine ormai pleonastica, dopo tutto quello che si è visto e compreso abbastanza bene.
Di Carnevale ha scelto da tempo di riprendere i suoi spettacoli in teatro l’ineffabile Beppe Grillo. Che, già confessatosi di suo “il peggiore” nel titolo della nuova serie delle sue esibizioni professionali di comico, in un altro attimo di irrefrenabile sincerità autocritica ha chiesto al suo pubblico quanti danni egli abbia procurato all’Italia inventandosi il Movimento 5 Stelle, portandolo addirittura al posto che fu per tanto tempo della Dc e infine affidandone, più meno rassegnato, la gestione ad un avvocato e professore di diritto quasi sconosciuto sino a cinque anni. Che, arrivato per caso a Palazzo Chigi, vi è rimasto in due edizioni che solo un finalmente stanco e perplesso Sergio Mattarella, più ancora di Matteo Renzi che se ne attribuisce il merito, ha evitato che diventassero tre. E non credo proprio, pur con tutta la imprevedibilità della politica, che una terza edizione possa più maturare.
Ha un pò un sapore felliniano -sperando che Fellini dall’aldilà non si offenda- quella “solitudine del satiro” annunciata dal Foglio riferendo dello spettacolo di Grillo ad Orvieto, del pubblico che vi è accorso, della “corte in declino” del tuttora garante del MoVimento 5 Stelle e della cena da lui consumata poi con Conte e Travaglio. Che, generosi come era difficile immaginare sino a qualche tempo fa, hanno perdonato al loro amico di avere spinto a suo tempo il partito nelle braccia di quella sciagura che secondo loro sarebbe stato -altro che risorsa- l’ex presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi, rischiando addirittura di farlo arrivare anche al Quirinale non bastandogli Palazzo Chigi. Da allora, cioè dal “Conticidio” raccontato da Travaglio anche in un giallo, sarebbero derivati tutti i guai sopra e sotto le cinque stelle.
Ma non meno comico è lo spettacolo offerto in questi giorni dal Pd, e relative correnti e candidati alla segreteria, litigando su chi non parla abbastanza male di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, o ne parli addirittura non dico bene, ma benino. O non ne parli proprio.
A prescindere da quanto è durato “il fango” lamentato da Silvio Berlusconi per i rapporti con le “olgettine” ospiti delle sue feste private- 11 anni come lui ha calcolato, 13 come li ha contati l’amico Maurizio Belpietro sulla Verità, o solo i 6 del processo di primo grado a Milano conclusosi con l’assoluzione perché “non sussiste il fatto” contestatogli di corruzione in atti giudiziari; a prescindere, dicevo, da questo ed altro ancora, come l’assurdità logica di processi intentati da magistrati di varie Procure praticamente contro l’assoluzione definitiva di Berlusconi dalla originaria accusa di induzione alla prostituzione minorile, sarebbe bello se l’accusa ambrosiana rinunciasse all’appello. Dovrebbero bastare e avanzare i sei anni del processo di primo grado: un’enormità che da sola dovrebbe fare arrossire di vergogna uno Stato di diritto davvero, non a parole. Ma temo di stare immaginando uno scenario di terzo tipo, come si dice dei marziani.
Una rappresentante dell’accusa ha già reagito all’assoluzione confermando le proprie convinzioni e limitandosi -bontà sua- ad annunciare di volere leggere prima le motivazioni della sentenza, quando sarà depositata. Il solito Fatto Quotidiano, abitualmente schierato con le Procure spesso addirittura scavalcandole, ha già gridato contro i “criminali in festa” perché -ha titolato- “pagare per farla franca non è reato” grazie a un “cavillo”: quello usato per negare validità processuale a testimoni che avrebbero dovuto essere sentiti e trattati come imputati. Che hanno peraltro il diritto di mentire.
E’ un cavillo che ha indotto anche un giornale come quello dei vescovi, cioè Avvenire, a titolare un pò come Il Fatto Quotidiano, o quasi: “Berlusconi è assolto (sbagliata l’inchiesta)”. Che, dunque, se fosse stata condotta diversamente, senza errori reali o presunti, avrebbe potuto procurare a Berlusconi una condanna. Che questa volta avrebbe raddoppiato le difficoltà politiche in cui l’ex premier era appena incorso con le sue nuove dichiarazioni critiche verso il presidente ucraino Zelensky: “il signore” che Giorgia Meloni ha voluto incontrare a Bruxelles e intende andare a visitare a Kiev per ribadirgli la solidarietà e gli aiuti economici e militari dell’Italia nella difesa dall’aggressione russa.
Per una volta, a loro insaputa, come accadde a Cristoforo Colombo scoprendo l’America cercando le Indie, i magistrati si sono trovati un pò nei panni dei soccorritori politici di quel diavolo di Berlusconi, sopravvissuto bene o male a più di cento processi intentati contro di lui nei tribunali d’Italia: un numero che da solo, come i sei anni del processo di primo grado appena concluso a Milano con l’assoluzione, dovrebbe fare vergognare -ripeto- uno Stato di diritto davvero, non solo a parole.
Lo scenario di terzo tipo -temo- dal quale sono tentato non è comunque soltanto quello dell’accusa ambrosiana che rinuncia all’appello bastando e avanzando i sei anni del primo grado, ed essendo irrealistico pensare che a questo punto possano essere corretti gli errori scoperti nelle indagini. E’ anche lo scenario degli amici e colleghi senatori o deputati di Forza Italia – non Forse Italia, come ha sfottuto sul Corriere della Sera il vignettista Emilio Giannelli dopo l’ennesima uscita del Cavaliere sulla guerra in Ucraina- che rinunciano alla commissione parlamentare d’inchiesta appena reclamata sull’uso politico della giustizia. E ciò non perché questo abuso non ci sia stato, con e prima ancora di Berlusconi, considerando la falsa epopea di Mani pulite tradottasi nel ghigliottinamento della cosiddetta prima Repubblica, ma semplicemente perché continuano a non esistere nelle Camere le condizioni realistiche per ottenerla. E forse neppure per condurla, come ha avvertito uno che una commissione parlamentare d’indagine su altro tema l’ha condotta qualche anno fa da presidente: Pier Ferdinando Casini.
Non parliamo poi delle varie commissioni parlamentari d’inchiesta, diretta o indiretta, sull’affare Moro di 45 anni fa. Che è rimasto un malaffare sia per le vittime rimaste sul campo della tragedia, dalla scorta allo stesso Moro, sia per i troppi punti o aspetti di quella vicenda rimasti oscuri. Che non sarà certo Mario Moretti, il capo brigatista rosso di quell’operazione, a chiarire nelle condizioni di semilibertà in cui vive già dal 1997, dopo sedici anni soltanto di carcere pieno, e con sei ergastoli sulle spalle.
Accontentatevi, amici comuni di Berlusconi, del fango che la magistratura si è buttata addosso da sola con quel numero sproporzionato di processi condotti contro di lui: processi a volte. come quelli ancora in corso, sostanzialmente contro altri processi o, più genericamente, procedimenti chiusi con l’assoluzione o l’archiviazione. Cercate piuttosto di far cambiare a Berlusconi idea su Zelensky e dintorni.
Per una volta i tempi e le decisioni della magistratura, ma soprattutto i tempi, pur così lunghi e perciò odiosi, hanno giocato a favore di Silvio Berlusconi. Che è stato assolto con altri imputati a Milano dall’accusa di corruzione in atti giudiziari perché “il fatto non sussiste” -come il Giornale di famiglia si è giustamente divertito a titolare in prima pagina giocando in rosso con l’omonima testata solidale con l’accusa- nello stesso giorno in cui parecchi giornali lo davano praticamente per morto, o rimorto. E ciò a causa della posizione da lui ribadita domenica scorsa contro il presidente ucraino Zelensky mettendo quanto meno a disagio la presidente del Consiglio e alleata Giorgia Meloni.
Sul Corriere della Sera, sempre di ieri, Berlusconi era finito in una mega-vignetta di Emilio Giannelli dandosi per “leader di Forse Italia”. Su Repubblica Tommaso Ciriaco informava i lettori della tentazione o decisione di Giorgia Meloni di mettere definitivamente nell’angolo l’ex presidente del Consiglio profittando anche delle critiche piovutegli addosso, sempre per le antipatie verso Zelensky, dal Partito Popolare Europeo. Di cui egli vanta da tempo di essere il maggiore socio italiano, da quando l’allora alleato Pier Ferdinando Casini sudò le sette proverbiali camicie per farlo accogliere convincendo la buonanima di Helmut Kool. Al quale “Pierfurby” fece capire, essendovi resistenze fra i tedeschi, che così sarebbe stato loro più facile influenzarlo, o indirizzarlo. L’uomo già allora era imprevedibile, e troppo nuovo alla politica per convincere e tranquillizzare vecchi marpioni al di là e al di qua delle Alpi, o dell’Atlantico. Lo stesso Casini, del resto, avrebbe poi rotto con lui, che pure gli aveva procurato la presidenza della Camera, preferendo continuare la sua attività parlamentare facendosi eleggere come indipendente al Senato più volte nelle liste del Pd.
Oggi, 24 ore dopo l’annuncio e la descrizione del programma della Meloni di ridimensionare definitivamente un alleato scomodo che peraltro- secondo un retroscena di Francesco Verderami sul Corriere della Sera- aveva ordinato ai suoi ministri di mettersi da parte e lasciarlo solo a trattare direttamente con la presente del Consiglio le tante nomine in programma nelle aziende pubbliche; oggi, dicevo, sulla stessa Repubblica il medesimo Tommaso Ciriaco è tornato sull’argomento con un articolo richiamato in prima pagina con questo titolo che parla da solo: “La premier argina l’alleato risorto”. Come e più di Lazzaro, che Gesù riportò in vita una sola volta, stando al Vangelo secondo Giovanni.
La notizia della resurrezione politica, diciamo così, di Berlusconi ha giustamente entusiasmato elettori rimastigli fedeli o solo amici, fra i quali sono singolari tuttavia quelli del Foglio. Che gli hanno dedicato una vignetta da Fatto Quotidiano: col Cavaliere mascherato da maiale che invita le “ragazze” a salire a bordo del suo pullman perché gli “hanno ridato la patente”.
Nella “psicanalisi del vuoto”, come il manifesto ha definito col solito, felice sarcasmo la riflessione apertasi a sinistra e dintorni sulla sconfitta anche nelle elezioni regionali in Lombardia e Lazio, dopo quella del 25 settembre in tutta l’Italia, il candidato alla segreteria del Pd Stefano Bonaccini ha tenuto per poco il primato della stravaganza, diciamo così, cercando di dimezzare la vittoria della Meloni per essere state le urne disertate dal 60 per cento, più o meno, degli elettori.
A quei pochi che sono andati a votare, sufficienti comunque a produrre risultati con i quali tutti sono chiamati a fare i conti, l’ineffabile Carlo Calenda ha dato praticamente dei coglioni -scusate la parolaccia di cui mi assumo la responsabilità, non essendosi spintosi a tanto l’interessato- perché non lo hanno premiato, e neppure incoraggiato a proseguire sulla strada del cosiddetto terzo polo con Matteo Renzi.
L’ex ministro ha fatto un pò come un negoziante che apre bottega e accusa i clienti di non capire nulla della merce che lui vende, e quindi li caccia o li fa scappare via. Ma le mie sono osservazioni troppo terra terra rispetto ad altre più sofisticate e colte che mi permetto di proporvi riportando il più sinteticamente possibile ciò che hanno scritto due grandi firme come Massimo Gramellini e Mattia Feltri, rispettivamente sul Corriere della Sera e sulla Stampa.
Sotto il titolo “Cambiare popolo” Gramellini ha ricordato “la famosa battuta di Bertold Brecht sui comunisti della Ddr: il comitato centrale ha deciso, poiché il popolo non è d’accordo, che bisogna nominare un nuovo popolo”. Ma “spiace per Calenda” -ha continuato Gramellini ricordando peraltro la crisi demografica in atto- non esiste un popolo di riserva cui rivolgerci: dobbiamo accontentarci di quello che abbiamo”. E che i partiti -aggiungo io- non riescono più di tanto a interessare alle loro gesta, proposte, promesse, proteste e altro.
Sotto il titolo “Lui no”, sempre in prima pagina ma sulla Stampa, il mio amico Mattia Feltri ha finto di voler fornire sponde di un certo peso a Calenda ricordando Margaret Tatcher e Winston Churchill: la prima per avere detto che “una maggioranza non può trasformare ciò che è sbagliato in giusto” e il secondo per avere detto che “il migliore argomento contro la democrazia è una conversazione di cinque minuti con un elettore medio”. “Pertanto -ha insistito Mattia- il nostro Calenda in così illustre compagnia appare un pò meno ciondolone di come l’hanno dipinto”. “Però rimare un dettaglio a giocare a suo sfavore, e sarebbe un delitto trascurarlo”, ha aggiunto il mio amico intingendo il pennino nel veleno. E qual è il dettaglio? “Margaret Thacher era Margaret Thacher, e Winston Churchill era Winston Churchill. Calenda no”, ha spiegato Mattia.
Calenda in questa sua per niente spiritosa partecipazione, ripeto col manifesto, alla “psicoanalisi del vuoto” è un pò diventato una pietruzza della Cartagine dei romani: delenda est.
Come nella favola di Esopo in cui la volpe che non riesce a raggiungere l’uva vi rinuncia perché acerba, giornali politicamente schierati a sinistra hanno collegato la vittoria non certo imprevista del centrodestra nelle elezioni regionali di Lombardia e Lazio alle urne svuotate da un astensionismo del 60% e più di cittadini aventi diritto al voto. Ai quali non sono stati sufficienti neppure il giorno e mezzo messo loro a disposizione questa volta per recarsi ai seggi.
Questa fuga, questo “addio alle urne” evocato dal manifesto come quello alle armi scritto nel 1929 da Ernest Hemingway ha indotto anche il probabile nuovo segretario del Pd Stefano Bonaccini, se non verrà superato da Elly Schlein nel percorso residuale del congresso, a seguire nella disinvoltura i suoi predecessori definendo “dimezzata” la vittoria elettorale degli avversari di centrodestra. E considerando esagerata quindi la soddisfazione espressa a Palazzo Chigi da Giorgia Meloni, che si sente rafforzata, specie dopo il colpo inopinatamente assestato al suo governo sul piano internazionale da Silvio Berlusconi criticandone la smania d’incontrare “il signor” Zelensky, dopo tutto quello ch’egli avrebbe fatto per provocare Putin e quello che sta facendo, anche col nostro aiuto economico e militare, per resistere all’aggressione russa.
Il prezzo che ha pagato Berlusconi per questa sortita contro il presidente ucraino, che non è stata la prima e probabilmente non sarà neppure l’ultima, conoscendo ormai l’ostinazione e le amicizie dell’anziano fondatore ma non più leader assoluto del centrodestra, ora destra-centro, è stato di carattere solo personale. La sua “Forza Italia”, progressivamente abbandonata nei vertici e nelle urne da “traditori”, “ingrati” e simili, è ormai scesa in Lombardia, la culla dove è nata, al 7,2% e nel Lazio al 7,8%, contro il 25,2 e quasi il 34 del partito della Meloni, o il 16,5 e l’8,4 della Lega di Matteo Salvini. Non è un bel bilancio, francamente, anche se può essere di consolazione per l’ex presidente del Consiglio il flop registrato dal cosiddetto terzo polo tra Lazio e Lombardia, dove pure Carlo Calenda e Matteo Renzi avevano sponsorizzato una ex forzista di fama come Letizia Moratti nella corsa al Pirellone.
Certo, Berlusconi ha ancora in Parlamento i numeri per fa cadere la Meloni, se e quando gli pare, ma sarebbe come segare il ramo dell’albero su cui è seduto pure lui. E passare dalla padella alla brace.
Per tornare alla volpe di Bonaccini e dei giornaloni che hanno dimezzato d’ufficio la vittoria della Meloni per l’aumento ulteriore dell’astensionismo, come se la sinistra l’avesse fatto salire apposta, l’astuzia da quelle parti è ormai così scarsa e autolesionista da dimezzare così anche i pochissimi aspetti positivi, anzi l’unico riservato dalle urne al Pd. Che, dopo una lunga serie di sondaggi nazionali che avevano fatto perdere letteralmente la testa a ciò che rimane dei grillini, ha evitato il sorpasso di Giuseppe Conte, precipitato al 3,9 in Lombardia, rimanendo alleato col Nazareno, e sotto il 9 per cento nel Lazio, dove ha voluto misurarsi praticamente da solo, forse ricordando gli opinabili fasti capitolini, chiamiamoli così, di Virginia Raggi.
Qualcuno ha scherzato a destra sull’assonanza fra la percentuale altissima dell’astensionismo elettorale e gli ascolti vantati dall’edizione più politicizzata del festival di San Remo, gratificato nella edizione appena conclusa della presenza iniziale del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Che si è scomodato dal Quirinale con la figlia per divertirsi, fra l’altro, alla declamazione della Costituzione affidata a Roberto Benigni. L’assonanza è servita ad attribuire con schermo alla sinistra la maggiore manifestazione canora nazionale, facendole secondo me un torto, e facendone anche alla stessa destra, come se avesse riconosciuto e riconoscesse l’atavica impossibilità di marcare una presenza anche in quel campo.
Nossignori, questo è un errore, uguale a quello di chi ha diviso fra destra e sinistra, facendone una questione politica che tale non doveva e non poteva essere, la polemica sulla recitazione della Cosituzione fatta da Roberto Benigni al festival di Sanremo davanti al presidente della Repubblica nel 75.mo anniversario della sua applicazione. Con tanto di retroscena che non meritava davvero il capo dello Stato, cultore dichiarato del grande Alessandro Manzoni, che egli volle una volta felicemente citare, in una sortita istituzionale, perché i populisti di un tanto al chilo non continuassero a confondere di tanto in tanto il buon senso col senso comune. Cosa che si sta peraltro ripetendo con le polemiche sulla portata e sul significato attribuibile, ai fini della lettura dei risultati elettorali, al fenomeno crescente dell’astensionismo. Come ogni volta si fa, specie di lunedì, con l’aula parlamentare di turno vuota, alla Camera o al Senato, magari convocata solo per la comunicazione dovuta dei decreti legge entro cinque giorni dalla loro emanazione. Polemiche che so infastidiscono non poco, e giustamente, un parlamentarista convinto, anche di cattedra, come Mattarella