Il processo più scomodo al Berlusconi politico, difeso da avvocati imbarazzanti

Paola De Caro, che segue abitualmente Silvio Berlusconi per il Corriere della Sera, ne scrive oggi come Ludovico Ariosto dell’Orlando furioso. Lo descrive “arrabbiato, fortemente deluso” e “offeso” col presidente ucraino Zelensky. Che notoriamente lo ricambia dell’antipatia e della disistima che l’ex premier italiano certamente non ha mai nascosto nei suoi riguardi, considerandolo responsabile della guerra nel suo Paese più dello stesso Putin che lo ha invaso un anno fa e lo  bombarda ogni giorno non essendo riuscito a impadronirsene del tutto. 

Con Zelensky, ma un pò Berlusconi ce l’ha pure con Giorgia Meloni, la sua alleata, con la quale non ha caso “è finora mancato” un contatto diretto. Da lei non solo Berlusconi ma anche alcuni suoi accaniti avversari si aspettavano una difesa esplicita dagli attacchi derisori rivoltigli da Zelensky, rispondendo ai giornalisti, nella conferenza stampa congiunta e conclusiva della visita della presidente del Consiglio italiana a Kiev. 

Leggete che cosa ha scritto sul Fatto Quotidiano Marco Travaglio cercando di trascinare nella polemica il Quirinale: “In un Paese serio, a rimettere in riga l’ucraino sarebbe già intervenuto il presidente della Repubblica, con le stesse parole con cui tappò la bocca alla ministra francese Boone che ci insegnava come votare il 25 settembre e minacciava di “vigilare” su di noi: “L’Italia sa badare a se stessa”. Invece purtroppo Mattarella tace. E tace anche la Meloni, mostrando vieppiù com’è il suo “sovranismo”: a sovranità limitata”. 

Ma Travaglio se da una parte ha invitato o sfidato Sergio Mattarella a intervenire in difesa di Berlusconi, dall’altra si è messo in concorrenza col presidente ucraino per strapazzarlo nella “cattiveria” di giornata in prima pagina. Dove è scritto: “Zelensky contro Berlusconi: “Non ha mai avuto le bombe in casa”. Preferiva le bimbe”. 

La disgrazia di Berlusconi, nelle paradossali contingenze interne e internazionali. è di essere sostenuto da avvocati per lui più imbarazzanti e dannosi che utili. “Mosca difende Berlusconi” grida proprio oggi in prima pagina Repubblica valorizzando al massimo la reazione della portavoce del ministro degli Esteri russo alle parole del presidente ucraino asserragliato nel suo bunker come Hitler a Berlino nei suoi ultimi giorni di vita paranoica.

Affidato in prima pagina alla difesa di Mosca, il giornale fondato dalla buonanima di Eugenio Scalfari ha dedicato all’interno all’ex presidente del Consiglio un’analisi di Stefano Folli a dir poco liquidatoria delle ragioni per le quali egli ha assunto sulla guerra in Ucraina una posizione così imbarazzante per un governo in cui pure il suo partito è rappresentato addirittura dal ministro degli Esteri Antonio Tajani in veste anche di vice presidente del Consiglio. In particolare, Folli se l’è presa con “l’egocentrismo, l’orgoglio, soprattutto il cinismo di un uomo che per una paio di decenni ha dominato la scena politica e non si rassegna al declino ormai totale”.

L’abitudine di vedere la politica estera con gli occhiali della politica interna

Forse è inevitabile, essendosi il fenomeno verificato anche nella cosiddetta e lontana prima Repubblica, e proseguito nelle edizioni successive di cui ho personalmente perso il conto, tante  ne sono state avvertite e persino analizzate da esperti veri o presunti della materia, ma è sicuramente rischioso vedere la politica estera con gli occhiali della politica interna. Ed anche viceversa, naturalmente. Ne esce fuori una visione deformata, a discapito della chiarezza e dell’obiettività. 

Ne ha appena toccato gli effetti -credo- la giovane presidente del Consiglio Giorgia Meloni di ritorno dalla tanto desiderata missione a Kiev nel primo anniversario della guerra indubitabilmente condotta contro l’Ucraina dalla Russia di Putin nella convinzione, clamorosamente smentita dai fatti, di chiuderla in pochi giorni o settimane come una “operazione speciale”. Così ancora i russi sono obbligati a chiamarla per non finire in galera dandole il nome che le spetta, e si è sinistramente meritato. 

Nelle intenzioni della premier italiana doveva essere una missione di ulteriore o definitivo accreditamento internazionale sul versante atlantista ed europeista del suo governo di destra-centro, o di centrodestra come preferisce ancora chiamarlo Silvio Berlusconi per rivendicare una specie di denominazione controllata e garantita dalla sua partecipazione, pur a ranghi ridotti rispetto alle precedenti edizioni, in una serie cominciata nel 1994.  Doveva essere, ripeto. Ma ha cominciato proprio Berlusconi a comprometterne la credibilità rilanciando una sua ormai vecchia polemica contro “il signor Zelensky”, immeritevole, secondo lui, di corteggiamento, amicizia, solidarietà e quant’altro per avere provocato la guerra più e prima di Putin. 

Costretta a casa da un’influenza stagionale che le ha lasciato l’inconveniente di colpi insistenti di tosse, la premier ha dovuto seguire con comprensibile disappunto questa specie di antipasto, immeritato dopo che aveva dato generosamente, per le ambizioni e la vanità dell’interessato, del “nostro migliore ministro degli Esteri” al Cavaliere, a rischio di declassare quello in carica che è Antonio Tajani, vice dello stesso Berlusconi nel partito. Dove da un pò di tempo crescono gli aspiranti a prenderne il posto, potendogli  e dovendogli bastare il ruolo che divide fra la Farnesina e Palazzo Chigi come ministro degli Esteri, appunto, e capo della delegazione forzista al governo con i gradi vice presidente del Consiglio.

Poi, rimessasi finalmente dall’influenza e fatti i bagagli per il viaggio, la premier italiana si è vista sorpassare nel traffico internazionale dal presidente americano Joe Biden, presentato in Italia dalle opposizioni come un furbacchione mossosi in tempi e modi tali da offuscare deliberatamente la Meloni, sino a negarle o comunque ad evitare un incontro fra il suo arrivo in Polonia da Kiev e la partenza  della stessa Meloni dalla Polonia all’Ucraina. Una telefonata di Biden non è bastata a risparmiare alla premier italiana sui giornali antipatizzanti di casa una mezza degradazione, utile ai fini della politica interna. 

Poi a Kiev nella conferenza stampa comune con Zelenski, dopo la visita alle località più vicine devastate dalla guerra e l’incontro conclusivo della missione, sulla premier è caduta come una tegola sulla testa  la sferzante risposta del presidente ucraino ai giornalisti ancora curiosi, dopo quello che aveva già detto nei giorni precedenti, di conoscere le sue opinioni sui rapporti fra Putin e Berlusconi. Cui l’amico russo ha risparmiato -ha detto Zelensky- le bombe e il sangue riservato agli ucraini. Gli ha risposto da Roma  dell’ex presidente del Consiglio, interrompendo “il silenzio” annunciato dal Giornale, rivendicando il ricordo degli anni adolescenziali in cui capitò alla sua famiglia, nella seconda guerra mondiale, l’esperienza degli sfollati.

Abbiamo assistito, sempre grazie agli occhiali della politica interna con cui in Italia siamo abituati o condannati, come preferite, a vedere la politica estera, allo spettacolo alquanto insolito di giornali ferocemente antiberlusconiani insorti contro la Meloni per non avere difeso “l’alleato” dagli attacchi e dalle derisioni di Zelensky. Che avrebbe umiliato, col suo modo di fare, la stessa ospite corsa a confermargli l’appoggio alla difesa dell’Ucraina  “sino alla fine”. 

Da qui a sostenere, come si è gridato dai palchi o dalle curve delle opposizioni, il fallimento, il flop e simili della missione della Meloni a Kiev il passo è stato naturalmente breve, anzi brevissimo. Ma, anche a costo di sembravi quello che non sono, cioè un elettore del partito della premier italiana, e cercando di pulire ben bene le lenti dei miei occhiali, mi riesce francamente difficile vedere la Meloni indebolita dal suo viaggio in Ucraina. E dare ragione a Berlusconi, che glielo aveva praticamente sconsigliato. 

Chi esce indebolito, o più indebolito di tutti, da questa vicenda internazionale, anche ai fini della politica interna, mi sembra piuttosto l’ex presidente del Consiglio. Il quale si trova ora, volente o nolente, con le sue posizioni vantate di “uomo di pace” opposto a tutti gli altri uomini di guerra, più allineato neppure al Pd, con tutti i suoi guai interni destinati a non finire con le primarie di domenica prossima, ma a Giuseppe Conte. Non proprio il massimo, direi: né per lui personalmente né per il suo partito. E neppure per il suo, e nostro, ministro degli Esteri.

Pubblicato sul Dubbio

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