Le assonanze curiose, ma non troppo, contro Draghi e il “suo” G20

Draghi ed Erdogan

Sono curiose ma non troppo le assonanze di giornali così diversi, anzi politicamente opposti, come il Giornale della famiglia Berlusconi e Libero da una parte e Il Fatto Quotidiano più o meno pentastellare dall’altra, contro il G20 di Roma aperto ieri da Mario Draghi. Che ha fatto da par suo gli onori di casa ai “grandi della terra” interloquendo con ciascuno di essi col vantaggio, fra l’altro, di non avere bisogno di interpreti. Né di doversi scusare con qualcuno di loro -ad esempio, il turco Erdogan- per avergli dato francamente e pubblicamente del dittatore.

Titolo del Giornale
Titolo di Libero

Il Giornale, ripeto, della famiglia Berlusconi ha titolato in prima pagina sul “brutto clima al G20”, giocando anche un po’ sul doppio senso, essendo proprio la questione climatica il tasto dolente del vertice per le resistenze opposte da grandi paesi come l’India e la Cina a ridurre l’inquinamento dell’atmosfera provocato dai loro sistemi industriali. Senza bisogno di ricorrere a doppi sensi un altro giornale affine al centrodestra, Libero, ha titolato addirittura sull’”autogol” che il G20 sarebbe per l’Italia che pure lo ospita e presiede con abilità ed efficacia riconosciute da tutti i partecipanti. Ai quali Draghi ha felicemente affiancato, nella foto emblematica dell’evento, i medici, gli infermieri e i ricercatori dell’ospedale romano Spallanzani, distintisi nella lotta alla pandemia. Che ha impedito a lungo anche incontri diretti fra i governanti.

Titolo del Fatto Quotidiano
Vignetta del Fatto Quotidiano

Il Fatto Quotidiano ha liquidato come un raduno di “banal grandi” quello presieduto da Draghi, avvolto  dal vignettista Riccardo Mannelli in una nuvola -senza la maiuscola di Massimiliano Fuksas- premonitrice di “piogge e grandinate di fuffa”.

Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano

Del resto, come il più sprovveduto o indifferente abitante della Capitale, ciò che ha colpito di più Travaglio  sono state “le 50 (cinquanta!) auto blindate sputazzanti del corteo di Biden che da giorni sfrecciano per Roma, senza calcolare quelle degli altri 19 presunti “grandi”, delle loro first lady, più tutte le vetture e gli elicotteri delle forze dell’ordine”: tutte cose che probabilmente il direttore del Fatto avrebbe sopportato meglio  con Conte ancora a Palazzo Chigi, anziché fatto fuori politicamente a febbraio da una mezza congiura.  “Conticidio”, ha chiamato quel cambio della guardia proprio Travaglio in un saggio, si fa per dire.

Contro Draghi, per quanto sostenuto al governo da Berlusconi e da più della metà del centrodestra, partecipe anzi della compagine ministeriale col Pd, i grillini e la sinistra dalemian-bersaniana, il Giornale e Libero si trovano oggi, minimizzando o criticando il G20 da lui presieduto, perché quanto meno infastiditi da una possibile ricaduta della sua performance internazionale sulla corsa al Quirinale, a danno di quella dalla quale Berlusconi ha detto di non volersi “tirare indietro”.

Augusto Minzolini sul Giornale

Improvvisamente sensibile alla salute, diciamo così, di questa legislatura indigesta per l’anomalia della maggioranza relativa conquistata dai grillini nelle elezioni del 2018, il direttore del giornale di Berlusconi ha oggi ricordato per franchezza, senza “ipocrisie”, ai parlamentari tentati da un’elezione di Draghi al Quirinale la sorte dei “tacchini a Natale”.  Con Draghi al Colle infatti -ha assicurato Augusto Minzolini- la sorte delle Camere sarebbe segnata, con un anno abbondante di anticipo sulla scadenza, e senza quota di pensione o vitalizio -poteva aggiungere- per i  parlamentari uscenti perché maturabile solo a settembre dell’anno prossimo.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Draghi si gode il G20 liquidato dagli avversari come un raduno di perditempo

Marco Travaglio e Lilli Gruber
Titolo del manifesto

Con finta ingenuità, vista la sua esperienza professionale, Lilli Gruber ha chiesto ieri sera addirittura a Marco Travaglio, collegato allo studio di Otto e mezzo de La 7 dalla sua stanza di direttore del Fatto Quotidiano, se il G20 a Roma potesse trasformarsi in una  buona occasione per sollevare nella nuvola di Massimiliano Fuksas, all’Eur, il presidente del Consiglio Mario Draghi dalle beghe nazionali, che tormentano anche il suo governo, per quanto larga sia la sua maggioranza parlamentare, e farne apprezzare ulteriormente il prestigio personale di cui gode a livello internazionale.

Titolo del Fatto Quotidiano
Titolo del Fatto Quotidiano

Pronto come un gufo, il giornalista che può ben essere considerato il più prevenuto nei riguardi di un presidente del Consiglio liquidato dal primo momento come un banchiere un po’ troppo furbo, “figlio di papà”, anche se orfano dall’età di 14 anni, incompetente di tutto fuorchè, appunto, di banche e dintorni, Travaglio ha liquidato il G20 come una passerella di perditempo e di spreconi, protagonisti e attori delle “solite girandole di vertici” destinati a non produrre “nulla di concreto”: concetti che aveva appena ordinato ai colleghi di mettere in prima pagina, in un frettoloso titolo di richiamo, senza uno straccio di foto, o fotomontaggio.

Biden al Quirinale
Draghi col premier indiano

Se poi Draghi, con la fortuna sfacciata che ha, e che al Fatto Quotidiano non gli perdonano, dovesse riuscire -che so?- a scalare il Quirinale, a farsi sostituire a Palazzo Chigi dall’attuale ministro di fiducia dell’Economia  Daniele Franco e a cogliere al volo la prima occasione utile per scogliere le Camere, dove ancora il Movimento 5 Stelle vanta un primato numerico perduto ampiamente nelle elezioni di ogni tipo svoltesi dopo quelle del 2018 miracolose per i grillini, non voglio neppure pensare che cosa potrebbe accadere nel giornale di Travaglio. E che titoli o fotomontaggi si inventerebbero per gridare al Parlamenticidio e al colpo di Stato.

Vignetta di Stefano Rolli sul Secolo XIX

Ma calma, non accadrà forse nulla di tutto questo. E neppure l’altro evento da cui Travaglio è ossessionato, vedendolo preparare con diabolici  incroci di congiure e di compravendite di parlamentari: l’elezione del “pregiudicato” Silvio Berlusconi al Quirinale. Al quale il vignettista Stefano Rolli, sul Secolo XIX, ha recentemente  affiancato un Matteo Salvini aspirante vestirsi da corazziere.

Il massimo delle cattive sorprese che aspetta Travaglio è forse la rielezione di un Mattarella finalmente convinto a un supplemento di mandato, come capitò a Giorgio Napolitano nel 2013, e la prosecuzione del governo Draghi per tutto il resto della legislatura, col ritorno dei grillini in un Parlamento finalmente liberato della loro cosiddetta “centralità”. 

Ripreso da http://www.policymakermag.it

Enrico Letta e Matteo Renzi prigionieri dei loro vecchi rancori

Titolo del Dubbio

Che Enrico Letta, tornato da Parigi dove si era ritirato a causa di Matteo Renzi, non avesse dimenticato per niente il torto subito sette anni prima col sostanziale licenziamento da presidente del Consiglio e avesse ben poca voglia di riannodare da segretario del Pd i rapporti con lui, si era capito subito. E se ne era avuta la prova dal calendario degli incontri obbligati del successore di Nicola Zingaretti al Nazareno con gli interlocutori della maggioranza di governo.

Renzi era finito all’ultimo posto: proprio l’ultimo, ben dopo Giuseppe Conte fresco di mezza designazione verbale, o intimistica, a presidente del MoVimento 5 Stelle, e ancora orgoglioso della qualifica di “punto di riferimento dei progressisti” conferitagli dal predecessore di Enrico Letta, cioè Nicola Zingaretti, quando il professore e avvocato pugliese sembrava ben saldo a Palazzo Chigi. Pareva addirittura in grado di sottrarsi alle minacce di crisi da parte di Renzi -sempre lui- tessendo la tela di un suo terzo governo in tre anni.

Per fortuna, d’altronde, lo stesso Renzi aveva dato ad Enrico Letta ragioni e occasioni di un rapporto a distanza lasciando il Pd, nella tarda estate del 2019, ben prima quindi che Nicola Zingaretti si stufasse della sua esperienza al Nazareno e addirittura ne fuggisse via denunciando il clima avvelenato che vi si respirava. Renzi si era messo in proprio con un partito piccolo ma numericamente decisivo in Senato per tenere in piedi, o appeso, il secondo governo Conte. Un partito piccolo, dicevo, ma quasi dichiaratamente corsaro, trattenuto a stento, o costretto a rallentare le sue incursioni, quando la sopraggiunta pandemia in qualche modo aveva avvolto l’allora presidente del Consiglio in un involucro di emergenza, straordinarietà e quant’altro. Ma figuriamoci se Renzi, con quel temperamento che ha, poteva trattenersi più di tanto. Proprio la pandemia, con l’obiettiva e crescente difficoltà di gestirla, gli avrebbe poi dato motivi e occasioni per disarcionare Conte e fare arrivare a Palazzo Chigi un fuoriclasse come Mario Draghi: tanto fuoriclasse che Enrico Letta lo vorrebbe a quel posto “almeno” fino alla conclusione ordinaria della legislatura, nel 2023. Ciò significa anche dopo, se le circostanze potranno permetterlo, visto che il piano della ripresa varato con i finanziamenti miliardari dell’Unione Europea, e condizionato ad un percorso di riforme, dovrà  arrivare alla scadenza del 2026.

Costretto dagli umori, a dir poco, dei gruppi parlamentari,  di cui è riuscito a cambiare i presidenti ma non certo la composizione, rimasta quella derivata dalle candidature volute nel 2018 dall’allora segretario del partito Renzi, sempre lui, Enrico Letta ha dichiaratamente lavorato sino all’altro ieri, diciamo così, per la costruzione di un centrosinistra “largo”, tradotto da qualcuno in una nuova edizione dell’Ulivo, esteso da Renzi a Bersani, un altro ex segretario del Pd andatosene dal Nazareno. E vi ha lavorato ignorando, o facendo finta di ignorare, la preclusione a Renzi, e anche a Carlo Calenda, dichiarata da Conte. Che non è più quello immaginato da Nicola Zingaretti alla testa di uno schieramento progressista, è formalmente alla guida di un movimento malmesso elettoralmente e in crisi ormai cronica di identità, ma rimane pur sempre la seconda forza della coalizione coltivata dal segretario del Pd.

Forse già rassegnato in cuor suo a sorbirsi Renzi, oltre a Calenda, perché consapevole di avere in fondo un potere contrattuale inferiore a quello sbandierato in pubblico, e cui in fondo  non credono molto neppure molti grillini, Conte si è visto quasi sorpassare nell’antirenzismo da Enrico Letta dopo l’infortunio del segretario del Pd al Senato nello scontro col centrodestra sul disegno di legge del piddino Alessandro Zan contro l’omotransfobia, già approvato dalla Camera. Con Renzi mai più, ha praticamente gridato e giurato Enrico Letta attribuendogli, dietro la cortina di una corsa in Arabia Saudita solitamente ben retribuita, la regia dello stop imposto al provvedimento a scrutinio segreto. E di chissà quali altri giochi, a cominciare dalla sempre più vicina e ingarbugliata partita del Quirinale.

Il generale Michele Adinolfi

Renzi, dal canto suo, non si è lasciato scappare l’occasione per fare a Letta, stavolta in pubblico, un mezzo processo politico come quello del 2013 parlando al telefono col generale della Guardia di Finanza Michele Adinolfi, che non sapeva di essere intercettato per un’indagine. In quell’occasione Renzi disse di Letta presidente del Consiglio che non era adatto a stare al suo posto, dove infatti lui lo avrebbe di lì a poco sostituito: magari, sarebbe stato più indicato per il Quirinale, aggiunse sapendo bene che vi sedeva allora del tutto tranquillo Giorgio Napolitano, confermato da alcuni mesi soltanto, e che Letta non aveva neppure l’età per aspirarvi a breve, avendo ancora 47 anni, contro i 50 richiesti dalla Costituzione.

Luigi Zanda
Zanda al Foglio di ieri

Alto e forte, tuttavia, si è levato dal Pd il monito di un uomo non sospettabile di collusione con Renzi: l’ex capogruppo al Senato  Luigi Zanda. Secondo il quale “non è dall’esito di uno scrutinio segreto certamente grave sul ddl Zan che il Pd deve elaborare la sua politica delle alleanze”. Non è così che deve essere definito “il perimetro del centrosinistra”, anche perché ci si “dovrebbe rassegnare a restare in minoranza nell’aula del Senato da qui fino alla fine della legislatura”. A meno che Enrico Letta non stia maturando sotto sotto un progetto di elezioni anticipate. Ma questo Zanda non lo ha sospettato, O, almeno, non lo ha detto.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it l’8 novembre 2021

Mario Draghi vola alto col “suo” G20 in una Roma blindata e ottobrina

In una Roma blindata per il G20, a protezione dell’evento e dei suoi protagonisti; reduce dall’approvazione del bilancio con cui ha chiuso anche un altro, forse il più difficile passaggio del suo governo in carica da febbraio; dubbioso che i sindacati davvero arrivino allo sciopero minacciato ma pronto a prenderne eventualmente atto perché convinto che essi non abbiano le sponde politiche alle quali erano una volta abituati, Mario Draghi può gestire con soddisfazione, e si spera anche con tranquillità, l’appuntamento internazionale attorno al quale ha intensamente lavorato. E che confermerà il prestigio personale di cui credo che nessun altro presidente del Consiglio italiano abbia goduto da alcuni decenni a questa parte.

Il presdente Biden in partenza ieri dagli Stati Uniti

E’ un prestigio, quello di Draghi, che probabilmente ne rafforzerà a conclusione del G20 e degli incontri bilaterali programmati, a cominciare da quello di oggi col presidente degli Stati Uniti Joe Biden atterrato di notte in Italia, la candidatura al Quirinale. E ciò nonostante il distacco, e a tratti anche il fastidio, con cui egli l’ha seguita attraverso i giornali, o i partiti, o singole personalità del governo e della maggioranza, ma anche dell’opposizione, che l’hanno lanciata e l’alimentano tuttora. Non credo, francamente, che lui ne abbia tanta voglia, a dispetto di molti che scalciano pubblicamente o tessono tele più o meno di nascosto per loro stessi o per altri che ritengono di potere controllare, o di cui ottenere poi contropartite politiche.

Proiettato ormai più in una dimensione internazionale, più in particolare europea, non si sbaglia forse ad immaginare il presidente del Consiglio interessato soprattutto portare avanti da Palazzo Chigi, nel tempo che gli consentiranno le circostanze politiche, il lavoro di governo impostato con paziente fermezza ed esplicita soddisfazione. “Tagliamo le tasse e stimoliamo gli investimenti”, ha detto Draghi  illustrando il bilancio appena approvato fra gli applausi dai ministri.

Titolo del Fatto Quotidiano
Fotomontaggio del Fatto Quotidiano

Eppure di questo bilancio quello che ha colpito di più un giornale come Il Fatto Quotidiano, che cito così di frequente riferendo sulla politica italiana per la capacità che gli va riconosciuta di esprimere una parte importante degli umori, diciamo così, serpeggianti in un movimento non secondario della maggioranza com’è quello delle 5 Stelle ora presieduto da Giuseppe Conte; eppure, dicevo, di questo bilancio ciò che ha colpito di più, e negativamente, il giornale diretto da Marco Travaglio sono i presunti favori fatti alla Confindustria e “gli stipendi più alti, fino al 40%, per i sindaci e gli assessori”. Che sarebbero una specie di sotto-casta, peraltro ormai sempre meno a portata di mano dei grillini, più in uscita che in entrata nei Comuni da aprire come scatolette di tonno, alla maniera delle Camere, e scoprirne l’appetibilità.

I malumori pentastellati per un governo che avrebbe fra i vari torti soprattutto quello di avere sloggiato Conte da Palazzo Chigi sono emersi anche all’ultimo momento, quando Draghi ha resistito ai tentativi dei grillini di mettere il loro amato, adorato “reddito di cittadinanza” al riparo dalla stretta dei controlli, dopo tutti gli abusi compiuti e permessi, Che hanno indotto il presidente del Consiglio a dire che la misura sarà pur apprezzabile  ma “non ha funzionato”: né per “sconfiggere la povertà”, come annunciò trionfalisticamente Luigi Di Maio nel 2018 dal balcone di Palazzo Chigi per poi pentirsene, né per preparare i beneficiari a nuovi lavori, rifiutabili sino a tre volte, ora due.

Ripreso da http://www.policymakermag.it

Infortunio di Enrico Letta, e di Conte, al Senato sull’omotransfobia

Con l’enfasi cui spesso cede nonostante l’aspetto di uomo misurato e riflessivo -l’enfasi, per esempio, del “trionfo” annunciato dopo i ballottaggi comunali del 17 e 18 ottobre- il segretario del Pd Enrico Letta ha definito addirittura “uno stop al futuro” la battuta d’arresto subita al Senato, con una votazione a scrutinio segreto, dal disegno di legge contro l’omotransfobia  già approvato alla Camera, noto col nome del deputato piddino proponente Alessandro Zan.

 Analoga è stata la reazione di Giuseppe Conte, consolatosi con la convinzione che il Paese sia più avanti del Senato: cosa peraltro che contrasta con le resistenze tanto a lungo opposte dall’ex presidente del Consiglio ad uno scioglimento anticipato delle Camere evidentemente così indietro. Per evitare le urne egli rimase a Palazzo Chigi nel 2019 cambiando maggioranza, cioè sostituendo la Lega di Matteo Salvini col Pd di Nicola Zingaretti, e cercò di restarvi ancora a cavallo fra il 2020 e il 2021 arruolando “volontari”, “responsabili”, “costruttori” e quant’altri.

Più che il “futuro” retoricamente inteso come generale e assoluto, attribuendo all’antichità, che peraltro non è mai da buttare via così all’ingrosso, la visione della legge Zan da parte del centrodestra, che l’ha stoppata con l’aiuto sotterraneo di almeno 16 senatori dello schieramento opposto, ho la sensazione che il voto del Senato abbia compromesso solo il futuro della combinazione di maggioranza coltivata da Letta e Conte, basata su un asse privilegiato fra Pd e ciò che resta del Movimento 5 Stelle.

Titolo del Fatto Quotidiano
Vignetta di Stefano Rolli sul Secolo XIX

Di questa combinazione Conte pensava di poter essere addirittura il capo per il credito concessogli da Zingaretti di “punto di riferimento dei progressisti”. Ora il successore Enrico Letta, imbaldanzito non so se più per la salute del Pd da lui rinfocillato o per la febbre dei grillini misurata nelle elezioni amministrative di ottobre, pensa di poterne assumere direttamente e forse anche personalmente la guida. E forse per sperimentarne la praticabilità ha imprudentemente cercato, dopo qualche esitazione, prima aprendo e poi chiudendo il disegno di legge Zan a modifiche che potessero garantirgli maggiori consensi, o minori resistenze, lo scontro al Senato, Che si è chiuso a vantaggio invece del centrodestra, cui a conti fatti, tra osservatori e vignettisti, avrebbe fornito l’aiuto necessario un Renzi pur personalmente rimasto lontano dall’aula di Palazzo Madama, addirittura in terra araba, dove le sue consulenze sono molto apprezzate e ben retribuite. Di questo aiuto sono stati così sicuri al Fatto Quotidiano da averci titolato in prima pagina  annunciando “la fondazione” di questa nuova maggioranza dalle ambizioni ben più grandi del semplice blocco di un disegno di legge.

Titolo di Libero

Altri, da destra e da sinistra, esultando o strappandosi le vesti, hanno visto e indicato nella votazione al Senato ”le prove” della corsa al Quirinale o, più in particolare, della candidatura di Silvio Berlusconi. Che conta di poter centrare l’obiettivo del Colle dal quarto scrutinio in poi, quando occorrerà la maggioranza assoluta dei “grandi elettori”, non più quella dei due terzi. A dire la verità, tuttavia, pur superiori ai 131 voti dell’area giallorossa, chiamiamola così, i 154 voti segreti che hanno bloccato la legge Zan sono stati la maggioranza dei votanti, non del pieno dell’assemblea.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Il rischio di sfidare con una crisi più Mattarella che Draghi

Titolo del Dubbio

Ogni tanto qualcuno teme o auspica, secondo le preferenze o gli interessi politici, che Mario Draghi perda la pazienza di fronte a partiti, sindacati e quant’altri e corra al Quirinale a dimettersi. Naturalmente non accadrà, specie in questi giorni, anzi ore di vigilia del G20 a Roma, da lui costì meticolosamente organizzato nel mezzo di un bel po’ di crisi sparse nel mondo. E’ già tanto che il presidente del Consiglio si sia allontanato dall’incontro con i sindacati prima che terminasse senza intesa sulle pensioni e sul resto, per nulla trattenuto dalla minaccia di sciopero.

Né si può pensare che egli possa o voglia replicare quell’allucinante spettacolo di un pur professionista della politica qual era Mariano Rumor. Che una cinquantina d’anni fa colse al volo l’occasione offertagli dall’annuncio di uno sciopero generale per aprire la crisi di governo e chiedere lo scioglimento anticipato delle Camere, rifiutatogli però dal capo dello Stato Giuseppe Saragat.

Draghi è di altra stoffa, e anche di tutt’altro prestigio personale, che non metterebbe certamente a rischio con un’alzata di testa. Al massimo, come gli rimprovera ogni giorno Il Fatto Quotidiano, egli tira dritto, fa approvare dal Consiglio dei Ministri le misure contestate fra partiti e sindacati, le manda alle Camere e le sfida praticamente a bocciargliele, a costo di una crisi.

Ma in questo caso più che sui nervi di Draghi bisognerebbe interrogarsi su quelli di Sergio Mattarella, di cui attori politici e ora anche sindacali mostrano francamente di non avere riguardo alcuno in questa congiuntura istituzionale, quando egli è, diciamo così, vulnerabile per le limitazioni costituzionali impostegli dal cosiddetto semestre bianco, quando il presidente della Repubblica chiamato a gestire una crisi di governo non può usare il diritto di sciogliere le Camere e passare la parola agli elettori. E’ una prerogativa che da sola durante tutto il resto del mandato gli conferisce più autorità nell’esercizio delle funzioni di garanzia, e di moderazione delle manovre politiche più spericolate. Come furono quelle tentate nell’ultima crisi da Conte barricato a Palazzo Chigi a cercare supporti improvvisati ad una maggioranza venuta meno col ritiro di Matteo Renzi.

Allora, come si ricorderà, Mattarella non volendo sciogliere le Camere per i rischi di contagio  con la pandemia non controllata come adesso si assunse responsabilmente l’onere di esporre pubblicamente le sue preoccupazioni e di mettere in pista Draghi col suo governo di emergenza, estraneo alle consuete formule politiche.

Adesso a crisi eventualmente aperta da o per colpa di qualche disperato, non potendo mandare alle urne per impedimento costituzionale i cittadini che vi sono appena tornati per elezioni amministrative e suppletive, siamo proprio sicuri che Mattarella faccia finta di niente? E pazientemente si metta a gestire la crisi come se fosse una delle tante, magari rinviando Draghi alle Camere o, per sottrarre il Paese alla eventualità pur prevista dalla Costituzione del cosiddetto esercizio provvisorio, improvvisi un governo tecnico per l’approvazione del bilancio, contando nel frattempo sull’esaurimento del suo mandato e sulla priorità dell’elezione del suo successore, in Parlamento, imposta dalla Costituzione? E facendo nel frattempo gli scongiuri col pensiero rivolto ai mercati finanziari e al piano della ripresa bloccato per la sospensione dei fondi disposti dall’Unione Europea?

Mattarella, come Draghi, ha mostrato di avere un sistema nervoso eccellente ma esagerarne oltre un certo limite potrebbe diventare un suicidio per chi vi dovesse tentare.

Proviamo ad immaginare, solo ad immaginare, uno scenario che pure mi è stato adombrato da un comune amico che ha una certa pratica politica e ricorda, peraltro, per averle vissute più che da testimone, le dimissioni di Francesco Cossiga nel 1992 al Quirinale o la vicenda che nel 2013 portò alla conferma di Giorgio Napolitano alla Presidenza della Repubblica.

Cossiga, piuttosto che gestire una crisi senza avere più la possibilità di sciogliere le Camere peraltro appena elette, ma anche allo scopo di mettere il Quirinale nel paniere delle trattative fra i partiti per la formazione del nuovo governo, lasciò il suo posto con qualche settimana di anticipo. E capitò di tutto: la ricerca inutile del successore, la strage di Capaci, la forzata interruzione della ricerca di un’intesa generale sugli equilibri politici del Paese, l’elezione improvvisata del nuovo capo dello Stato scegliendolo fra presidenti delle due Camere. Mi vengono personalmente i brividi a ricordare quei giorni, e anche quelli che seguirono.

Pier Luigi Bersani

Nel 1993 Napolitano fu supplicato di lasciarsi confermare, praticamente a termine, nel mezzo di una crisi di governo bloccata dall’ostinazione con la quale Pier Luigi Bersani cercava di formare un governo “di minoranza e combattimento” appeso agli umori dei grillini. E confermato, con la possibilità riconquistata di sciogliere le Camere  pur appena elette, “Re Giorgio” impose il governo delle larghe intese di Enrico Letta.

Tornando a Mattarella, se dovesse reagire ad una crisi accelerando con le dimissioni la sua successione, i partiti semplicemente impreparati, nel marasma in cui si trovano sia quelli di maggioranza sia quelli di opposizione, dovrebbero solo supplicarlo di restare e consegnarsi al governo Draghi più ancora di quanto già non siano adesso. Bel suicidio, per loro. Ma forse non per il Paese.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 30 ottobre

Uno sciopero anche generale, come un sigaro o una onorificenza, non si nega a nessuno…

La storia politica e sindacale dell’Italia consente di scrivere che lo sciopero, come il sigaro o un’onorificenza delle tante di cui dispone il capo dello Stato, non si nega a nessuno. Può darsi, quindi, che la rottura consumatasi ieri a Palazzo Chigi con i sindacati sul consumato tema pensionistico della discordia e qualcosa d’altro, sfoci davvero nel minacciato sciopero generale.

Vignetta du Stefano Rolli sul Secolo XIX

Ma Draghi -diversamente da qualche suo predecessore tutto politico come Mariano Rumor, che una cinquantina d’anni fa profittò di uno sciopero generale per dimettersi e tentare di ottenere dall’allora presidente della Repubblica Giuseppe Saragat uno scioglimento anticipato delle Camere negatogli invece con forza- non si lascerà né intimidire né farsi prendere dalla tentazione di una rinuncia clamorosa, magari funzionale a chissà quale progetto politico. Oltre il gesto di lasciare l’incontro con i sindacati prima della sua conclusione formale egli non andrà, per quanto il manifesto si sia azzardato col  titolo di copertina “Indietro tutta”.

Non foss’altro per il dovere di non compromettere, a questo punto, anche il suo prestigio personale mentre sta per aprirsi a Roma il G20 a presidenza italiana, da lui faticosamente organizzato in mezzo alle tante crisi sparse nel mondo, Draghi andrà “dritto per la sua strada”, come gli contesta ogni giorno il solito Fatto Quotidiano.  E manderà le decisioni del governo su manovra finanziaria, bilancio e quant’altro alle Camere, Dove i partiti, se vorranno o potranno, nel marasma politico in cui si trovano tutti, in maggioranza e all’opposizione, potranno pure farlo cadere. Ma per provocare cosa se non un’autorete verso la conclusione del cosiddetto semestre bianco?  Che è il periodo in cui il capo dello Stato in scadenza, privo della possibilità di sciogliere le Camere, difficilmente potrà trovare una soluzione ordinaria, diciamo così, della crisi col respingimento delle dimissioni di Draghi e il rinvio del governo alle Camere, o il tentativo di formare un altro esecutivo. Più facilmente -temo- Mattarella potrà essere preso dalla tentazione di dimettersi pure lui, anticipare la scadenza del suo mandato, sospendere la crisi di governo e obbligare le Camere a dare la precedenza all’elezione del successore, provvisto a quel punto di tutte le prerogative costituzionali. Ma a questo passaggio i partiti, che stentano a controllare i propri gruppi parlamentari,  sono ancora più impreparati che alla formazione di un nuovo governo.

Poi, magari, si ripeterà al Quirinale la sfilata dei partiti del 1993, quando andarono tutti a supplicare il capo dello Stato in scadenza Giorgio Napolitano -in pendenza di una crisi, con Pier Luigi Bersani che non riusciva a fare il suo velleitario governo di “minoranza e combattimento” appeso agli umori dei grillini- di accettare una conferma implicitamente a termine, di un paio d’anni. Alla quale però, almeno sino ad ora, Mattarella ha già detto o fatto capire di non essere disponibile.

Enrico Letta alla direzione del Pd

In una situazione così complicata, a dir poco, è già un affare che il segretario Enrico Letta abbia deciso di presentarsi ieri alla direzione del Pd parlando sì di “vittoria completa, totale” e quant’altro nelle elezioni amministrative, ma non più di “trionfo”, come fece a caldo dopo i ballottaggi comunali. Egli sa evidentemente che lo attendono, non meno degli altri leader e partiti, giorni assai difficili, in cui di trionfalismo si può anche finire assai male.

Ripreso da http://www.startmag.it

Quegli annunci alquanto prematuri di ultimatum a Draghi e di una sua stanchezza

C’è qualcosa di francamente esagerato nella rappresentazione fatta a sinistra e a destra dei problemi di governo con i quali è alle prese in questi giorni il presidente del Consiglio, peraltro già impegnato a fine settimana e mese sul piano internazionale col G20 a Roma.

Titolo di Repubblica

Esagerato, in particolare, è quell’”ultimatum a Draghi” gridato su tutta la prima pagina da Repubblica riferendosi alle resistenze della Lega, sul piano politico, e dei sindacati quasi convergenti sulla questione dell’uscita dalla cosiddetta quota 100 per le pensioni. Come se davvero nell’attuale situazione politica, in pieno semestre cosiddetto bianco e con i partiti in condizioni di salute non proprio brillanti, neppure quelli che si sono attribuiti, a torto o a ragione, la vittoria o addirittura il “trionfo” in un turno di elezioni amministrative contraddistinto dal record delle astensioni, ci fosse qualcuno in grado di porre ultimatum al governo. Il cui credito internazionale deriva solo dal prestigio personale del presidente del Consiglio. Una sua semplice o involontaria smorfia di stanchezza provocherebbe nei mercati una tragedia per i nostri conti.

Titolo di Libero

A proposito di stanchezza, è altrettanto esagerato solo immaginarla da parte di un uomo dal sistema nervoso e dal senso di responsabilità di Mario Draghi, col curriculum che ha alle spalle e con quello che potrebbe ancora ottener solo se lo volesse, mostrandosi disponibile, per esempio, ad un trasferimento al Quirinale non per defilarsi ma per garantire da un’altra postazione la realizzazione del piano della ripresa, finanziato dall’Unione Europea a condizione di una serie di riforme. Il titolo di Libero su Draghi “stufato” o la foto d’archivio riesumata dal Tempo per rappresentare il presidente del Consiglio sul punto di abbandonare il posto sono soltanto infortuni di fantasia.  

Ripreso da http://www.startmag.it

Letta e Conte cercano di bloccare lo “shopping” quirinalizio di Berlusconi

Titolo del Corriere della Sera
Cronaca di Repubblica

Giuseppe Conte ed Enrico Letta, in ordine rigorosamente alfabetico, debbono avere una ben scarsa considerazione dei giornalisti e dei lettori se hanno avuto la disinvoltura di far passare per “riservato” un loro incontro conviviale di due ore improvvisato a due passi da Montecitorio, in uno dei ristoranti più notoriamente frequentati dai politici. E per giunta sedendosi, non in fondo alla sala ma accanto ad una finestra per essere ripresi, sia pure in modo non molto brillante per qualità d’immagine, da una telecamera del Tg3. E facendo poi scrivere a tutti i cronisti, proprio tutti, di avere parlato, oltre che dei temi con i quali è alle prese in questi giorni il governo e dei risultati delle elezioni amministrative, anche della corsa al Quirinale. O soprattutto di questa, mi permetto di sospettare, peraltro a dispetto della “moratoria” proposta, o comunque impostasi da Letta nelle scorse settimane, in attesa che le Camere fossero convocate congiuntamente, in gennaio, per l’elezione del successore di Sergio Mattarella.  

Via, onorevole Letta, ora che ha riacquistato con l’elezione a Siena questo titolo, peraltro non più disprezzato dai grillini, almeno da quelli di tendenza contiana: cerchi, per cortesia, di non prendersi più gioco dell’informazione di quanto non sia umanamente accettabile, con la pretesa di affidare un problema così importante sul piano istituzionale e politico ad un confronto, un negoziato e quant’altro tutto nascosto. Che è, peraltro, il modo peggiore per difendere l’elezione indiretta, e non diretta invece, del capo dello Stato, come preferirebbe invece la stragrande maggioranza degli italiani.

Matteo Salvini qualche giorno fa sul Quirinale

La verità è -con o senza il consenso di Conte e di Letta a cercare di raccontarla e spiegarla ai lettori- che i due commensali hanno voluto interrompere, incontrandosi in modo così poco riservato e appunto parlando anche o soprattutto del Quirinale, la rappresentazione giornalistica di un Silvio Berlusconi protagonista della partita. Che non solo non ha alcuna intenzione di “tirarsi indietro”, come ha pubblicamente annunciato, dalla corsa al Quirinale, pur alla sua età e con tutti i problemi di salute e ancora di tribunale che ha, ma si è premurato di vincolare a sostenerlo i pur abitualmente divergenti alleati di destra, impegnatisi a votarlo. O almeno, come ha poi precisato in pubblico Matteo Salvini, a rendere “determinante” il centrodestra nell’elezione del successore di Mattarella: cosa chiaramente diversa da un Berlusconi o niente.

Titolo del Fatto Quotidiano
Titolo del Corriere della Sera

Se vogliamo proprio dirla tutta, sempre con o senza il consenso degli interessati, in quelle due ore di incontro conviviale dietro a una finestra Conte e Salvini hanno alla loro maniera cercato di bloccare quello che Il Fatto Quotidiano ha definito nel titolo di prima pagina di oggi “lo shopping” di Berlusconi. Al quale addirittura mancherebbero ormai soli 35 voti alla maggioranza assoluta dei cosiddetti “grandi elettori”, fra deputati, senatori e delegati regionali, contro i 54 che invece risultano ancora al Corriere della Sera: tutti e tutto, naturalmente, al lordo dei pur scontati “franchi tiratori”. I quali hanno vanificato nelle edizioni precedenti della corsa al Quirinale concorrenti come Romano Prodi, Arnaldo Forlani, Amintore Fanfani in ordine cronologico a ritroso, fra seconda e prima Repubblica, e senza includere nell’elenco il Giovanni Leone, bloccato prima della elezione nel 1971, e l’Aldo Moro neppure fatto arrivare alle votazioni nell’aula di Montecitorio, sempre nel 1971, come candidato della Dc

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E’ troppo affollata di aspiranti leader l’area sognata di centro

Titolo del Dubbio

Pietro Metastasio è tornato fra noi dopo trecento anni, se mai se n’è davvero andato, con la sua araba fenice, l’uccello sacro e favoloso degli antichi egiziani: “che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa”. Alludo naturalmente al Centro, con la maiuscola, che -rappresentato allora dal Ppi-ex Dc di Mino Martinazzoli- il bipolarismo improvvisato da Silvio Berlusconi nel 1994 sconfisse ancor più della “carovana” di sinistra guidata dal segretario del Pds-ex Pci di Achille Occhetto.

Il Centro tuttavia fu sconfitto per modo di dire perché a rimpiangerlo e a tentare di rianimarlo cercarono subito in tanti muovendosi sia all’interno del centrodestra sia all’interno del centrosinistra riesumato con lo sfaldamento del Ppi, l’invenzione dell’Ulivo, la sua trasformazione nell’Unione, la fusione nel Pd tra gli avanzi comunisti, quelli della sinistra democristiana e cespugli liberali e verdi. La voglia di centro è cresciuta via via che il bipartitismo è andato affievolendosi, sino a sembrare sepolto dal tripolarismo sognato dai grillini in una breve stagione.

E’ un sogno quello di un Centro autonomo, a dispetto di una legge elettorale ancora in vigore con una sua parte maggioritaria che molti sono tentati di abolire, magari momentaneamente, solo per il prossimo passaggio, ma nessuno ha la forza per ora di rimuovere. E’ un sogno che i sismografi elettorali, come potrebbero essere definiti i sondaggi, stentano a registrare con una certa evidenza reale ma che almeno i giornali avvertono per i tanti che aspirano a raccoglierlo e a rappresentarlo. E ciò a partire da Silvio Berlusconi rimanendo però a custodire il centrodestra, almeno sino alla partita del Quirinale dalla quale egli ha appena dichiarato di “non tirarsi indietro”, così come Enrico Letta rimanendo a custodire il centrosinistra “largo” e continuando a pensare a Matteo Renzi e Carlo Calenda.

Non dimentichiamoci infine di Clemente Mastella, appena esaltatosi con la conferma “contro tutti” a sindaco di Benevento, e per niente trattenuto dallo scherno di Calenda. Che, attestatosi sul 4,5 per cento accreditatogli dal recentissimo sondaggio di Alessandra Ghisleri, più del doppio del partito di Renzi, ritiene di essere ormai il vero protagonista di quest’area pur ancora gassosa, per presidiare la quale egli, già eurodeputato, ha rinunciato al seggio troppo riduttivo e fastidioso di consigliere comunale di Roma.

Clemente Mastella

Se vi è uno specialista del Centro, quasi la sua rappresentanza fisica, per averne per primo tentato la riesumazione dall’interno del centrodestra, infastidendo nei giorni pari Berlusconi, costretto a tenerselo per un po’ a Palazzo Chigi come vice presidente del Consiglio, e nei giorni dispari il  suo amico e collega di partito Pierferdinando Casini, questi è Marco Follini. Che dalla postazione che ha ormai scelto di politologo, deluso da entrambi i poli del bipartitismo da lui vissuto del resto con scetticismo, sa descrivere come pochi gli spettacoli della politica. dividendosi fra giornali e libri.

Marco Follini sull’Espresso
Fotomontaggio del Fatto Quotidiano

E’ ancora in edicola il numero dell’Espresso in cui Follini, includendo nel paesaggio del centro anche l’amico Totò Cuffaro, tornato a fare politica in Sicilia, dove peraltro è metaforicamente risbarcato anche Marcello Dell’Ultri -tutti sbeffeggiati in un fotomontaggio di qualche giorno fa dal Fatto Quotidiano- incoraggiando il fedele Gianfranco Miccichè a sperimentare un’alleanza con Renzi l’anno prossimo nelle elezioni comunali a Palermo, ha condizionato la nascita o rinascita del Centro a questa possibilità: che diventi “un luogo nel quale la passione politica si accompagna alla prudenza, il protagonismo delle prime file si coniuga con la militanza delle file assai più indietro e il carattere forte, ma non troppo del leader di turno si stempera nella pluralità delle opinioni e delle ambizioni di quanti gli tengono compagnia”.

Enrico Letta

Quello di Follini è un ritratto, diciamo così, del Centro coerente con la sua formazione e militanza nella irripetibile Dc, di cui non a caso è stato lo storico più acuto scrivendone; coerente col punto di riferimento da lui scelto durante quell’esperienza in Aldo Moro, ripiegando dopo la sua morte su Tony Bisaglia, che lo preferiva per intelligenza a Casini il bello; coerente infine con le dure prove vissute nella cosiddetta seconda Repubblica, ma sinceramente lontano da ciò che l’araba fenice centrista offre oggi. Ve lo immaginate un Renzi o un Calenda, o gli stessi Berlusconi ed Enrico Letta ora custodi del centrodestra e del centrosinistra, capaci di considerarsi soltanto “leader di turno”, come ha scritto Follini?  Sì, anche Enrico Letta ormai mi è parso un po’ troppo sopra le righe scambiando addirittura per “trionfo” la vittoria conseguita nelle elezioni amministrative di questo ottobre.

Gioca in fondo contro il Centro giustamente inteso come lo ha descritto Follini quel “codice della nostra modernità politica”, come lui stesso lo ha chiamato avendolo provato sulla propria pelle, che “reclama un capo e si aspetta incisività, temperamento, leadership, fin quasi alle soglie del culto della personalità”. E invece “il valore di una forza intermedia”, come il Centro deve essere, “sta nella pazienza con la quale la si intesse, nell’ospitalità che riserva a chi vi affluisce, nel riguardo che porta a chi canta nel coro in un modo tutto suo”, o aspettando il segnale del “direttore d’orchestra” per suonare al momento opportuno lo “squillo di tromba”.

Giuseppe Conte al Corriere della Sera di ieri

Temo che da questo Centro siamo ancora lontani. Lo temo anche a costo di rischiare la condivisione del giudizio di Conte quando, non riconoscendosi nelle critiche rivolte anche a lui non sempre a torto, denuncia il rischio, come ha detto ieri al Corriere della Sera,  di  finire “ostaggio”, con il Centro, “di chi vive la politica come dimensione personalistica in base a slanci narcisistici”. 

Pubblicato sul Dubbio

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