Il sondaggio “pro-casta” in cui sono inciampati rovinosamente i grillini

            A scuola di giornalismo, che ai miei tempi si faceva solo con la pratica in redazione, si insegnava che fa notizia il morso non del cane all’uomo ma dell’uomo al cane. Ebbene, i grillini hanno voluto cambiare anche questo riuscendovi con successo, visto che i giornali -con due sole, lodevoli eccezioni, come vedremo, per quanto condite di una ironia forse eccessiva- hanno espulso dalle prime pagine il clamoroso incidente in cui sono incorsi i pentastellati nella loro offensiva volutamente e orgogliosamente “spietata” contro i vitalizi degli ex parlamentari. Alle cui proteste il vice presidente del Consiglio Luigi Di Maio ha reagito definendole una provocazione, di cui dovrebbero vergognarsi. Il presidente della Camera Roberto Fico, grillino pure lui, che guida l’operazione dei tagli con una delibera predisposta per il voto finale, ha invece sfidato i protestatari a prendersela direttamente e solamente con lui, chiedendogli in giudizio anche i danni senza il timore di scontrarsi con la sua immunità parlamentare. Alla quale egli ha promesso di rinunciare, al bisogno.

           Schermata 2018-06-30 alle 06.35.12.jpg Tanta sicurezza e spavalderia nascevano -al passato- dalla certezza di avere alle spalle la grande maggioranza dell’opinione pubblica: grandissima fra i grillini, non a caso invitati a partecipare al solito sondaggio annunciato sulla pagina Facebook del Movimento delle 5 stelle. E organizzato graficamente contrapponendo la foto di Roberto Fico –“bello come un cherubino”, ha scherzato Mattia Feltri sulla Stampa e sul Secolo XIX nella sua felice rubrica quotidiana del Buongiorno- alla combinazione di quelle di Fausto Bertinotti, Massimo D’Alema, Paolo Cirino Pomicino e Ciriaco De Mita, “brutti come il demonio”, ha scritto sempre il mio amico Mattia. Che ha poi scomodato le figure del processo più famoso nella storia umana, Gesù e Barabba, per sostenere che ancora una volta ha vinto Barabba, visto che -udite, udite- il demonio è prevalso sul cherubino anche fra i grillini col 62 per cento contro il 38.

            Il Foglio.jpgPur conforme all’epilogo di quell’altro processo, il risultato del sondaggio è apparso a Mattia Feltri – ed anche a Maurizio Crippa, che ne ha scritto sul Foglio, si spera senza rischio di licenziamento, visti gli umori del suo nuovo editore- talmente incredibile da poter essere spiegato solo come uno scherzo, un’esplosione di “goliardia” sotto le cinque stelle.

            I vertici grillini tuttavia non ci hanno riso sopra per niente. E vi hanno reagito alla loro solita, scontatissima maniera: Che è la censura, per cui il sondaggio è stato rimosso dal loro sito e sepolto in una bara digitale, con la complicità quasi generale dei giornali, dove la notizia è stata o ignorata o minimizzata, liquidata fra le curiosità amene.

            Brutti tempi per la libera informazione, oltre che per gli ex parlamentari naturalmente, almeno per coloro che hanno avuto la sfortuna di chiudere la loro esperienza alla Camera, visto che per quelli scesi dalla vettura del Senato, alla loro ultima corsa da onorevoli, qualche speranza di salvarsi o di ridurre il danno c’è grazie ai dubbi espressi in materia di tagli dalla presidente dell’assemblea Maria Elisabetta Alberti Casellati. “La Madonna dei privilegi”, la chiamano già i grillini pentendosi di avere contribuito alla sua elezione al vertice di Palazzo Madama all’inizio della legislatura per pagare pegno a Matteo Salvini, dopo avere esaurito tutte le loro munizioni politiche contro la candidatura, anch’essa berlusconiana, di Paolo Romani.

Il festoso ritorno di Beppe Grillo a Roma, tra i suoi amici e i loro guai

           Più guardo la foto di Beppe Grillo allegramente a pranzo col presidente della Camera Roberto Fico e con la sindaca di Roma Virginia Raggi, sul terrazzo dell’albergo romano che lo ospita con vista mozzafiato sui fori, più si allontanano gli occhi e la mente dalle notizie sul vertice europeo, sulle navi con i migranti messe in riga da Matteo Salvini, sul marasma nel Pd e in Forza Italia, su Silvio Berlusconi che torna a far battere il cuore all’amico Vittorio Feltri, smanioso su Lbero di vedere il Cavaliere risorgere dalla morte politica dopo averla più volte sconsolatamente annunciata, e più mi chiedo su cosa abbiano avuto e abbiano tanto da ridere i tre commensali a cinque stelle.

            Il comico fondatore e garante del movimento arrivato al vertice almeno formale del governo, al netto dello spazio che quotidianamente il vice presidente leghista del Consiglio toglie al presidente Giuseppe Conte e all’altro vice presidente, il grillino Luigi Di Maio, è talmente sul pallone di fronte a ciò che succede da scommettere adesso persino su un Senato da eleggere con i dadi, a sorte. E ciò forse solo perchè quello eletto il 4 marzo scorso e finito, fra le distrazioni dello stesso Grillo, sotto la presidenza di una berlusconiana di ferro come Maria Elisabetta Alberti Casellati, resiste al tipo di guerra ai vitalizi degli ex parlamentari condotta dal presidente della Camera. Che ride lo stesso e, giocando con i propri “privilegi” più disinvoltamente di quanto contesti quelli degli altri, dà un passaggio o addirittura, secondo altre versioni, distrae dal suo servizio di scorta un’auto per metterla a disposizione di Grillo. Che, forse in mancanza di taxi, vi salta sopra per farsi trasportare, con la fretta dovuta e col fresco dell’aria condizionata,  al  Ministero della Giustizia. Dove lo attende con l’ansia dovuta il guardasigilli a cinque stelle per riceverne non so se più scherzi o consigli. 

            Non parlo poi di quel sorriso fuori ordinanza, sempre  a tavola, del sindaco francamente e politicamente più dissestato d’Italia, la Raggi. Che è allegra nonostante proprio in quelle ore il costruttore romano Luca Parnasi, arrestato a Milano per associazione a delinquere e tradotto a Rebibbia, sta sommergendo i pubblici ministeri di notizie dalle quali il Campidoglio esce ancora più malconcio di prima.

            Non è detto che proprio dopo e a causa delle quasi dodici ore di interrogatorio di Parnasi, in due riprese, i pubblici ministeri non avvertano il bisogno di convocare per la terza volta la sindaca di Roma in Procura e farsi spiegare meglio il tipo di rapporti svoltisi  fra l’amministrazione capitolina e l’avvocato genovese Luca Lanzalone. Che notoriamente è finito agli arresti domiciliari, e dimissionato da presidente dell’Acea, nell’ambito delle stesse indagini sul costruttore interessato, diciamo così, al progetto dello stadio romanista a Tor di Valle. E dichiaratamente abituato, per quello stadio e per tutti gli altri suoi affari, a “pagare tutti”.

            Ripeto: di che cosa avevano tanto da ridere quei tre a tavola sul terrazzo dell’albergo a due passi dal Campidoglio? A saperlo.

C’è un posto per Nino Di Matteo al Ministero della Giustizia, o dintorni

            Intervistato da Giovanni Bianconi, per il  Corriere della Sera, il ministro grillino della Giustizia Alfonso Bonafede ha rivelato di avere “progetti di collaborazione tra il Ministero e magistrati antimafia, tra i quali il dottor Di Matteo, se lui ovviamente sarà d’accordo”.

            Nei piani alti del Movimento delle 5 Stelle, dove risiede metaforicamente anche il guardasigilli, non si sono quindi dimenticati degli apprezzamenti più volti rivolti a Nino Di Matteo, il pubblico ministero subentrato ad Antonio Ingroia come simbolo dell’accusa nella lunghissima vicenda processuale della presunta trattativa fra lo Stato e la mafia nella stagione delle stragi. Una vicenda processuale tutt’altro che conclusa, perché di recente è stato tagliato solo il primo dei tre traguardi con la condanna di quasi tutti gli imputati, compreso qualcuno già assolto in altre sedi per gli stessi fatti, o quasi.

            Candidato sui giornali -prima delle elezioni del 4 marzo, e specie dopo un suo applauditissimo discorso ad un convegno grillino a Ivrea-  al posto di governo andato invece al deputato e avvocato Bonafede, suo dichiarato estimatore, Di Matteo potrà quindi collaborare in altra veste col Ministero della Giustizia, se lo vorrà. Vedremo in che modo. E non sarà certo né il primo, né l’ultimo magistrato chiamato a dare una mano ad un guardasigilli e, di fatto, al governo di cui questi fa parte.

            Il precedente più illustre, nel suo campo, è quello del compianto Giovanni Falcone. Che per avere accettato la nomina a direttore generale degli affari penali in via Arenula, patrocinata dall’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga, predisposta al Ministero della Giustizia da Giuliano Vassalli prima di traslocare alla Corte Costituzionale e infine offertagli dal successore Claudio Martelli, si procurò altri sospetti e invidie fra i colleghi. Ma ancor più rovinosamente, per i guai che avrebbe potuto procurarle anche nelle nuove funzioni, si procurò la condanna della mafia a morte, eseguita con l’attentato di Capaci del 23 maggio 1992.

            Di Matteo, che anche per questo precedente, e per la sorte riservata in quello stesso anno dalla mafia a Paolo Borsellino, è il magistrato più protetto in Italia, ha sinora investito involontariamente la sua notorietà in una collezione di cittadinanze onorarie. Ne ha raccolte 24 in tre anni, fra il 2014 e il 2017, a Palagonia, in provincia di Catania, a Modena, Messina, Gubbio, Rivoli, Rozzano, Torino, Pescara, Bologna, Spoltore, Chieti, Montesilvano, Caselle Torinese, Lacchiarella, Milano, Trapani, Livorno, Reggio Emilia, Corciano, Grosseto, Venaria Reale, Pinerolo, Locate di Triulzi e Roma. L’elenco è in ordine rigorosamente cronologico. E potrebbe essere incompleto se dopo la cerimonia capitolina del 25 luglio dell’anno scorso ne fossero seguite di nuove altrove.

            Nella stessa intervista al Corriere della Sera Bonafede ha confermato la decisione di assumere una iniziativa legislativa per chiudere finalmente quella porta girevole che ha consentito per troppi anni ai magistrati di prendere l’aspettativa per fare politica, candidandosi alla Camera e al Senato, ma anche -direi- alle amministrazioni locali di ogni tipo e livello, e poi tornare a fare i pubblici ministeri e i giudici. E magari inquisire o condannare ormai ex avversari politici, ma ex in senso solo temporale.

            C’è tuttavia da chiedersi se la tutela dell’imparzialità e credibilità di un magistrato, cui certamente si ispira il lodevole divieto progettato da Bonafede di tornare a svolgere funzioni requirenti o giudicanti dopo un’esperienza politica, non debba valere anche quando una toga viene dismessa per incarichi parapolitici. Quali sono quelli che consentono a un magistrato di affiancare un ministro e il suo governo. E’ ciò che il povero Falcone -ed era Falcone- si sentì dire, e non solo sussurrare, dai colleghi quando, anche per sottrarsi alle loro invidie, accettò di andare a lavorare al Ministero della Giustizia dell’ultimo governo di Giulio Andreotti. E temo che quelli gliel’avrebbero fatta pagare anche se fosse riuscito a sopravvivere a Capaci.

Le praterie elettorali lasciate a Salvini da tutto il Pd, eccetto Minniti

Sembrava una battuta felice quella fatta da Paolo Gentiloni dopo il primo turno delle elezioni comunali di questo 2018, quando l’ex presidente del Consiglio commentò la vitalità espressa dal Pd parafrasando il famoso scrittore americano Mark Twain. Che nel 1897 con l’umore che lo distingueva liquidò come “esagerata” la notizia della sua morte, sopraggiunta in effetti nel 1910, dopo 13 anni, e all’età di 75: tanti a quell’epoca, mica come adesso.

I ballottaggi di domenica scorsa, particolarmente quelli che hanno assegnato al centrodestra città storicamente di sinistra come le toscane Massa, Pisa e Siena, in ordine alfabetico, e l’emiliana Imola, hanno ributtato il Pd nelle cateratte dei risultati delle elezioni politiche del 4 marzo scorso. Dalle quali Matteo Renzi cercò di tirarsi fuori da solo dimettendosi da segretario per fare, a parole, il semplice “senatore di Scandicci”. Un senatore abbastanza attento e influente, però, da far poi saltare con una semplice intervista televisiva, prima  ancora che cominciassero, le trattative di governo fra i grillini e il suo partito in qualche modo prenotate con l’esplorazione affidata, nel secondo passaggio della crisi, dal capo dello Stato Sergio Mattarella al giovane presidente pentastellato della Camera Riccardo Fico.

La perdurante influenza di Renzi nel Pd è stata naturalmente indicata dai suoi avversari come la principale, se non unica, ragione dei cattivi risultati di domenica scorsa, anche se l’ex segretario ha  prudentemente evitato di esporsi nella propria regione, dove le delusioni sono state maggiori, come in sua difesa ha osservato Fabio Martini navigando in internet. Infatti a scongiurare la vittoria del centrodestra a Pisa, per esempio, non è bastato neppure che a chiudere la campagna elettorale fossero accorsi da fuori Gentiloni e Walter Veltroni.

Si continua a perdere anche senza Renzi, ha gridato il renzianissimo Andrea Marcucci, capogruppo del Pd al Senato, come per tappare la bocca ai nemici dell’amico: sia a quelli giù usciti dal partito e che ora un po’ se la godono, consolandosi del fiasco del movimento improvvisato con la loro scissione, sia quelli che vi sono rimasti e ritengono di potere fare chissà cosa e quanto per rianimare, rifondare e altro ancora la formazione nata solo 11 anni fa unificando  soprattutto ciò che restava del Pci e della Dc.  “A vocazione maggioritaria”, assicurò il primo segretario Veltroni chiudendo la porta ai vecchi alleati a sinistra ma contraddicendosi l’anno dopo con la decisione di apparentarsi alle elezioni politiche anticipate con Antonio Di Pietro. Che  col suo giustizialismo si sarebbe rivelato, com’era facile immaginare, ancora più destabilizzante della sinistra radicale nei riguardi della linea del Pd, irrigiditasi con la manifestazione del Circo Massimo a tal punto da buttare alle ortiche ogni proposito di partecipare a nuovi processi riformatori sul piano costituzionale. Eppure quella strada era stata era stata ventilata in campagna elettorale dallo stesso Veltroni in caso di sconfitta sul terreno del governo. Dove tornò a vincere, sia pure per l’ultima volta, Silvio Berlusconi.

I tentativi in corso nel Pd di dare una paternità alle indubbie sconfitte del 4 marzo e del 25 giugno mi sembrano francamente patetici, da asilo Mariuccia.  Se vi è una cosa per la quale vale ancora il motto latino della mater  semper certa e pater incertus, pur con tutte le diavolerie scientifiche  che sembrano adesso smentirlo, essa è la sconfitta di una formazione politica. Le responsabilità in questo caso sono sempre collettive, specie quando si tratta di un partito, come il Pd, morto o morente che sia, secondo le rappresentazioni anche interne. Esso è tra i pochi ad essere stato retto e a reggersi ancora con quello che la Costituzione chiama “metodo democratico”. Grillini, leghisti, forzisti, fratelli e sorelle d’Italia, liberi e uguali o disuguali, e via scorrendo l’elenco delle forze in campo, se lo sognano francamente il dibattito o confronto possibile nel Pd. Chi lo nega è semplicemente un disonesto. E chiedo scusa a chiunque possa riconoscersi in questa definizione, per quanto meritata. Ma quando ci vuole, ci vuole.

Il terreno politico su cui più si è esposto e ha perduto il Pd, smarrendo la percezione degli umori dell’elettorato, e regalando le classiche praterie alla Lega di Matteo Salvini, ma anche ai grillini, è quello dell’immigrazione. Il “capitano” padano, che come vice presidente del  Consiglio e ministro dell’Interno sovrasta abbondantemente ogni giorno sul presidente del Consiglio di designazione grillina Giuseppe Conte,  vi starà pure facendo troppa cresta esagerando nei modi e nei tempi, ma è difficile, se non impossibile, negare che lo spazio in cui si sta muovendo gli sia stato dato dal Pd.

Nel partito ancora retto da Renzi, e nel governo guidato da Gentiloni, il più avvertito sullo spinoso tema dell’’immigrazione è stato Marco Minniti. Che l’anno scorso interruppe un viaggio intrapreso verso gli Stati Uniti come ministro dell’Interno per tornare al Viminale e fronteggiare personalmente l’emergenza degli sbarchi scoppiata sulle coste italiane, avvertendo e denunciando rischi per la tenuta della stessa democrazia in Italia. Ebbene, al ritorno al Viminale e nei giorni, settimane e mesi successivi i maggiori problemi politici a Minniti li crearono i compagni o amici di partito. Che prima storsero il muso per la sua decisione di andare a trattare in Libia con i capi delle tribù che davvero controllano quel paese devastato, e il traffico di carne umana che vi si svolge gestendo la fuga di tanti disperati dalle guerre e dalla fame dai paesi confinanti al sud. Poi, quando Minniti,  contenuto in qualche modo quel fenomeno, cercò di raddrizzare e regolare davvero i soccorsi marini per il traffico, sempre di carne umana, che ancora si svolgeva, dovette fare i conti con i suoi critici e fermarsi.

Fu il collega di partito e di governo Graziano Delrio, ministro delle Infrastrutture, da cui dipende la Guardia Costiera, a bollare come un’eresia politica, oltre che cristiana, la sola ipotesi del blocco dei porti italiani ventilata da Minniti non certo per il gusto sadico di vedere i naufraghi affogare o morire di stenti sulle navi che li avevano raccolti già in acque libiche, abbandonati apposta dagli schiavisti, ma solo per non lasciare carta bianca a organizzazioni non governative che per il loro stesso modo di chiamarsi non possono averla. In quel momento il ministro dell’Interno perse potere contrattuale e dovette ripiegare su compromessi che sono adesso arrivati come i nodi al pettine. Ma al pettine di Salvini, che lo usa rispondendo con la solita spregiudicatezza alle paure della gente comune: “paure largamente maggioritarie nell’elettorato”, ha scritto sulla Stampa un editorialista non certo sospettabile di simpatie leghiste come Federico Geremicca.

Il Pd paga ora anche l’imprudenza del suo presidente Matteo Orfini, che commentò la sconfitta elettorale del 4 marzo lamentando, come unica o maggiore colpa della sua parte politica, “la lettura di destra” dei fenomeno migratorio permessa -ma si è visto con quali e quanti limiti- all’allora ministro uscente dell’Interno Minniti. E’ proprio vero che Dio acceca coloro che vuole perdere, anche se a ricordarlo fu polemicamente a Renzi  il vecchio Ciriaco De Mita nella campagna referendaria del 2016 sulla riforma costituzionale.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

In attesa del pranzo di Silvio Berlusconi col ritrovato Claudio Scajola

            Il governatore forzista della Liguria Giovanni Toti deve esserci rimasto maluccio a leggere sul Secolo XIX il contenuto della telefonata fatta da Silvio Berlusconi a Claudio Scajola per complimentarsi dell’elezione a sindaco di Imperia. Che è avvenuta nel ballottaggio del 24 giugno contro il candidato del centrodestra voluto da Toti e da Matteo Salvini: il geometra Luca Lanteri. Al quale naturalmente Berlusconi non ha fatto alcuna telefonata di consolazione, per quanto l’ex presidente del Consiglio nella preparazione delle liste avesse lasciato che Toti, suo ex consigliere politico, conferisse solo a lui il diritto di candidarsi col simbolo di Forza Italia, per cui Scajola dovette ripiegare su una combinazione di liste civiche.

             “Sono felicissimo”, ha detto Berlusconi all’ex ministro ed ex coordinatore nazionale del partito garantendogli di avere “seguito tutto”, e non condiviso evidentemente la gestione della vicenda d’Imperia, ma anche di altri Comuni vicini, da parte di Toti.

            “Sarei voluto venire io ad aiutarti ma te la sei cavata da solo benissimo”, ha aggiunto Berlusconi non condividendo evidentemente neppure l’altezzoso commento di Toti all’elezione di Scajola a sindaco, avvenuta “per soli 600 voti” di scarto sul concorrente. Che sembrano pochi solo se si omette di ricordare che l’ex ministro ha avuto 8.136 voti e l’altro 7.494, e che la percentuale dell’uno è stata il 52,1 e dell’altro il 47,9. Se fosse accaduto il contrario, Toti avrebbe considerato quei 600 voti un successone.

            Ma il bello della telefonata di Berlusconi è nel finale: “Ti vengo a trovare e pranziamo insieme”, lui e Scajola, non certo col governatore ancora forzista della regione. Che potrà magari informarsi del contenuto della conversazione a tavola leggendo un’altra intervista dell’inutilmente da lui osteggiato sindaco di Imperia, considerato impietosamente “una malattia” per il suo partito a causa di vicende processuali chiuse senza una condanna, a cominciare da quella sulla casa con vista sul Colosseo acquistata “a sua insaputa” col contributo di un imprenditore amico. Forse Toti sotto sotto condivide la convinzione del magistrato Piercamillo Davigo che l’assolto sia solo un imputato riuscito a farla franca.

            Prodigo di particolari sulla telefonata di Berlusconi, con la precisione di un resocontista ex parlamentare, Scajola nulla ha voluto rivelare delle chiamate di Antonio Tajani, Renato Brunetta, Mariastella Gelmini, Mara Carfagna, Licia Ronzulli e di chissà quanti altri, fra i quali presumo anche Fedele Confalonieri. Che lo aveva chiamato, felice come una Pasqua, già all’indomani del primo turno delle elezioni comunali, 15 giorni prima.

            Potrebbe avere conseguenze politiche scomode, a dir poco, per Toti e per la visione ch’egli ha dei rapporti con la Lega il ripristino a tutto tondo dei rapporti fra Berlusconi e il suo ex ministro, offertosi come “consulente” per la riorganizzazione e il rilancio di Forza Italia e, più in generale, del centrodestra. Che il sindaco di Imperia considera spazzato praticamente via dai risultati delle elezioni politiche del 4 marzo scorso, col sorpasso dei leghisti e con quel che ne è seguito a livello di governo, per cui “si vede la destra, ma non il centro” della vecchia coalizione.

            Si sprecano in questi giorni in Forza Italia gli appelli a Berlusconi per una ripresa d’iniziativa: per esempio, dall’ormai ex parlamentare Antonio Martino e dal giovane deputato Andrea Ruggieri, abbandonatosi a espressioni che forse hanno messo in imbarazzo il pur vanitoso Cavaliere. “Ti chiediamo -gli ha scritto in una lettera aperta sul Foglio- di essere quello che sei: il migliore di noi, il più rivoluzionario e innovativo, anche se in doppiopetto”, a volte indossato però su orrende magliette, troppo giovanilistiche per i suoi anni.

            Impietosa invece è l’analisi di Forza Italia e dello stesso Berlusconi fatta dall’ex ministro Giuliano Urbani, che a suo tempo fu tra i più impegnati a convincere l’allora presidente della Fininvest, dopo avere inutilmente bussato alla porta di Gianni Agnelli, a creare il famoso “partito liberale di massa” per occupare il vuoto lasciato dai vecchi partiti di governo travolti dall’uragano giudiziario di Tangentopoli. “Nella politica di oggi -ha detto il disincantato Urbani- non c’è più posto per Forza Italia”, e neppure per il Cavaliere, che nel suo partito “cerca di far fuoco, ma la sua legna è bagnata”, non solo dall’acqua dei suoi quasi 82 anni.

            Berlusconi, secondo Urbani, “ha sempre concepito la sua realtà politica vocata al pieno supporto di se stesso”, ma “le persone sono pronte magari a morire per Danzica, non per lui”.

           Non credo che Urbani abbia telefonato al nuovo, anzi al ritrovato sindaco di Imperia, tornato al suo posto a distanza di più di trent’anni dalla prima volta, ai tempi della Dc.      

Processo ai responsabili della morte prematura del Partito Democratico

            Se non fosse ispirata a quell’ossessione antirenziana che distingue Il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, si potrebbe accettare per buona, e persino felice nella sua natura sarcastica, la vignetta di Mario Natangelo sulla fine del Pd. Che viene raffigurato come un contenitore rovesciato  e ormai vuoto di popcorn, l’ultimo dei quali fuoriuscito dopo il disastro dei ballottaggi comunali. Nei quali il partito fondato solo undici anni fa con l’ambiziosa vocazione maggioritaria proclamata dal suo primo segretario, Walter Veltroni, ha pianto anche in regioni rosse come la Toscana, l’Emilia-Romagna e l’Umbria.

            Non è certamente bello morire, o comunque agonizzare, a soli undici anni con i cromosomi ereditati dai due maggiori partiti della cosiddetta prima Repubblica:  la Dc e il Pci, sopravvissuti con nomi diversi al crollo giudiziario e poi elettorale del sistema politico nato con la Costituzione del 1947 e le elezioni del 18 aprile 1948.

            Dove inciampa la vignetta di Natangelo è proprio nell’immagine del popcorn ormai attribuita a Renzi per il proposito da sfida del segretario del Pd uscito sconfitto dalle urne del 4 marzo scorso di godersi lo spettacolo, da cinema o da stadio, del Paese guidato dai “vincitori” pentaleghisti. Al cui governo in carica, a trazione mediatica più leghista che pentastellata, Renzi ha sicuramente dato un contributo -come gli rinfacciano ogni giorno al Fatto Quotidiano– impedendo da ex segretario ancora influente la trattativa fra i grillini e il Pd. Che era stata messa in cantiere con l’esplorazione affidata durante la crisi dal capo dello Stato Sergio Mattarella al presidente della Camera Roberto Fico.

            Quell’ultimo popcorn disegnato da Natangelo sarebbe tuttavia disonesto attribuirlo a Renzi. E non perché il Pd ha continuato a perdere voti anche dopo Renzi, col reggente che ne ha preso il posto, come i renziani hanno detto cercando di consolarsi, ma perché già con l’ex presidente del Consiglio ancora segretario i suoi avversari interni, ed anche qualche amico sprovveduto, lo avevano aiutato a perdere il 4 marzo sul terreno troppo a lungo sottovalutato della politica sull’immigrazione. Che ha inciso più di ogni altro tema sulla campagna elettorale per il rinnovo delle Camere e su quelle successive: più ancora delle disuguaglianze sociali, delle pensioni, del lavoro.

            Avere confinato a destra, in termini politicamente e socialmente spregiativi, il problema delle “paure”, a cominciare da quella degli sbarchi degli immigrati dall’Africa praticamente esclusivi sulle coste italiane, è stata semplicemente una follia. E liquidare sempre a destra, come una deprecabile pratica “sovranista”, ogni rischio di cosiddetto isolamento nell’Unione Europea che si correrebbe incalzando sul tema della solidarietà governi e paesi che vi si sottraggono senza bisogno di alzare materialmente dei muri, come pure è avvenuto e avviene, è anch’essa una follia. Che sta facendo le fortune politiche ed elettorali di Matteo Salvini e della sua Lega, e di ciò che sarà il nuovo centrodestra a trazione leghista quando cesserà la transizione del governo gialloverde di Giuseppe Conte. Già, perché l’ alternativa a questa esperienza sarà solo il centrodestra salviniano, viste le condizioni nelle quali si è messa da sola la sinistra con le sue fobie.

            L’unico nel Pd guidato da Renzi, e nel governo presieduto nella scorsa legislatura da Paolo Gentiloni, ad avvertire la vera portata del problema dell’immigrazione, denunciando i rischi che poteva correre “la democrazia”, fu il ministro dell’Interno Marco Minniti, un piddino di provenienza comunista. Fu sua la svolta avviata ma non conclusa con la decisione di trattare anche con le tribù libiche per contenere il traffico di carne umana che si svolgeva da quelle parti indirizzando in Italia tutti i disperati in fuga da guerre e miseria, e caduti nelle trappole della peggiore delle malavite possibili.

            La svolta di Minniti, concretizzatasi in una fortissima riduzione degli sbarchi di cui ora il presidente francese si fa forte per negare la crisi denunciata da Salvini, rimase incompiuta perché l’allora ministro dell’Interno fu trattenuto dal suo stesso partito nel tentativo, funzionale invece al cambiamento di rotta, di chiarire bene i rapporti tra i trafficanti di carne umana sopravvissuti alla stretta e le organizzazioni non governative di soccorso. Che andavano e continuano ad andare a raccogliere, spesso su appuntamento, nelle acque libiche i disperati spintivi su mezzi da rottamazione dai loro aguzzini.

            A capeggiare la rivolta o resistenza a Minniti, contestando l’ipotesi di una chiusura dei porti italiani almeno alle più sfacciate di quelle organizzazioni, fu il suo compagno di partito Graziano Delrio, allora ministro delle Infrastrutture, e quindi anche dei porti, e ora capogruppo del Pd alla Camera. Che da cattolico di sinistra volle e vorrebbe ancora essere più cattolico e “buonista” del Papa, il quale riconosce che l’accoglienza si coniuga con il realismo, cioè con la capienza.

            In quello scontro fra Minniti e Delrio, all’origine -ripeto- delle attuali fortune elettorali leghiste, e di risulta anche grilline, al netto dei mal di pancia esistenti in materia nel movimento delle 5 stelle, Gentiloni a Palazzo Chigi e Renzi al Nazareno scelsero Delrio. Lo vogliamo riconoscere o no ?

           Eppure qualche giorno fa il presidente ancora in carica del Pd, Matteo Orfini, ha detto che se un errore è ancora imputabile al suo partito, e di cui lui si sente responsabile per omissione di denuncia, o qualcosa di simile, è di avere accettato la lettura “di destra” del tema immigratorio data da Minniti l’anno scorso, quando l’allora ministro dell’Interno interruppe una missione negli Stati Uniti per tornare al Viminale e fronteggiare l’emergenza degli sbarchi di immigrati sulle coste italiane esplosa in quelle ore. Se sbagliare è umano, come dice un vecchio proverbio, perseverare è diabolico.

 

 

Ripreso da http://www.smartmag.it

Chi potrà più fermare Matteo Salvini dopo i ballottaggi comunali ?

            Prima di partire per la Libia in qualità non -o non ancora- di ministro degli Esteri ma di ministro dell’Interno per trattare le misure necessarie a contenere ulteriormente il traffico schiavista dei migranti su quelle coste, Matteo Salvini ha voluto tuittare la sua comprensibile e giustificata soddisfazione per i risultati dei 75 ballottaggi comunali, di cui una ventina di particolare rilievo politico, che hanno appena concluso la lunga stagione elettorale di questo 2018.

            “Storiche vittorie della Lega -ha digitato il leader del Carroccio- in Comuni amministrati dalla sinistra da decenni. Grazie. Più la sinistra insulta, più i cittadini ci premiano. Prima gli italiani, io non mi fermo”. Già, chi lo ferma Salvini? Non certamente Silvio Berlusconi, che pur stando all’opposizione del governo,  grazie a lui può partecipare alla festa politica del centrodestra per la conquista di storiche roccaforti rosse in Toscana e Umbria, come Pisa, dove erano corsi insieme a sostenere il loro Pd Walter Veltroni e Paolo Gentiloni, Massa, Siena e Terni.

            Né sembrano in grado di fermare Salvini i suoi temporanei alleati pentastellati di governo, per quanto in festa pure loro per le modeste “conquiste” di Avellino e di Imola, con cui si sono consolati della perdita, invece, di Ragusa, in Sicilia, e delle generali emorragie di voti.

            Pur con la paura, cresciuta dopo i ballottaggi, di dover pagare un prezzo elettorale sempre più alto alla loro alleanza con i leghisti, i grillini ben difficilmente potranno contenere l’espansione politica di un Salvini per niente tentato dalla prospettiva, accarezzata dal Movimento delle 5 Stelle all’inizio della loro avventura di governo, di staccarlo dal centrodestra. Che cresce addirittura impetuosamente a trazione leghista, a meno che in Forza Italia non scoppino risse come quella a Imperia. Dove il governatore appunto forzista della Liguria, Giovanni Toti, ha  fatto una guerra personale, o quasi, all’ex ministro Claudio Scajola perdendola per poco più di 600 voti, come lo stesso Toti ha cercato di consolarsi della sconfitta del candidato ufficiale del centrodestra  a sindaco Luca Lanteri.

           Per tornare alla politica di livello nazionale, sarà più facile, fra qualche mese, prima o dopo le elezioni europee della primavera dell’anno prossimo, una rottura dei leghisti con i grillini piuttosto che il contrario. Argomenti o pretesti non ne mancherebbero di certo, specie quando verranno davvero al pettine i nodi finanziari delle riforme pentastellate, che peraltro variano di dimensioni e di contenuti di settimana in settimana, se non di giorno in giorno.

           Lo ha dimostrato, fra l’altro, la disinvoltura con la quale, pur di cercare di fare quadrare i conti grillini, il vice presidente del Consiglio ha abbassato a 4000 il tetto dei 5000 euro netti al mese indicati nel discorso programmatico del presidente del Consiglio alle Camere per gli interventi sulle cosiddette pensioni d’oro. A proposito delle quali va ricordato che lo “scandalo” nacque anni fa per i 90 mila euro mensili percepiti da un signore esposto al pubblico ludibrio, nella presunzione che non avesse versato contributi sufficienti per giustificare quella somma, ma si è poi esteso a chi quei 90 mila euro, sempre di pensione, li percepisce non al mese ma all’anno, lasciandone peraltro quasi la metà al fisco.

            Su questo terreno, per esempio, sarà difficile che i leghisti seguiranno sino in fondo le disinvolture grilline. Ma ancora più difficile sarà per i grillini smarcarsi, come pure vorrebbe il loro presidente della Camera Roberto Fico, dalla linea dei leghisti sull’immigrazione.

            Non a caso nel vertice europeo appena svoltosi a Bruxelles il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, accettato dai leghisti ma scelto dai grillini, ha avuto uno scontro col presidente francese Emmanuel Macron proprio su Salvini. Che, attaccato appunto da Macron nella presunzione francese, evidentemente, di dividere gli interlocutori italiani sul fronte ora più caldo dell’Unione Europea, che è quello dell’immigrazione, è stato difeso da Conte con la precisazione di condividerne l’intransigente richiesta di cambiare registro nella gestione dei soccorsi e degli sbarchi dei migranti. E ciò senza lasciarsi paralizzare e tanto meno minacciare dalle organizzazioni volontarie che con le loro navi, battenti peraltro bandiere contestate dagli Stati di riferimento, reclamano il diritto-dovere, per scopi umanitari, di andare a raccogliere in acque libiche i disperati imbarcati dai trafficanti di carne umana su mezzi in grado di navigare per qualche frazione di ora.

 

 

 

    

Ripreso da www.startmag.it            

Il Conte di Palazzo Chigi sconosciuto a un italiano su tre, e con le mani un pò così

             Il Conte, al maiuscolo, subentrato al conte, al minuscolo, nello storico Palazzo Chigi, dove la Presidenza del Consiglio dei Ministri si trasferì nel 1961 dal Viminale, sarebbe conosciuto solo da un italiano su tre. Lo ha rivelato un sondaggio nazionale della milanese Eumetra mr commentato sul Giornale da Renato Mannheimer. Che non ne è rimasto peraltro molto colpito considerando che il 63 per cento degli intervistati ha dichiarato di non essere interessato alla politica, o di occuparsene poco. In queste condizioni non dovrebbe pertanto sorprendere se “solo” il 67 per cento ha risposto correttamente alla domanda su come si chiama l’attuale capo del governo, dividendosi il rimanente 33 per cento fra il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il vice presidente leghista del Consiglio Matteo Salvini, il vice presidente grillino Luigi Di Maio ed altri, fra i quali gli ex presidenti Matteo Renzi e, distanziato, il conte Paolo Gentiloni. Che pure sembrava essersi guadagnato una certa popolarità subentrando a Renzi dopo la sconfitta referendaria del 4 dicembre 2016 sulla riforma costituzionale.

            Dei due vice presidenti del Consiglio in carica, le cui teste il vignettista del Corriere della Sera Emilio Giannelli ha disegnato sugli indici, rispettivamente, di destra e di sinistra delle “mani libere” che Giuseppe Conte ostenta imprudentemente ai lettori, Salvini fa la parte del leone col pur modesto 8 per cento e Di Maio quella di un coniglio col 3 per cento. I due insieme sono tuttavia sorpassati da Mattarella col 15 per cento.

            I grillini sono consapevoli della visibilità perduta a vantaggio dei leghisti e nascondono con crescenti difficoltà e paura il loro disagio, un po’ cercando, rispettivamente, di vincere le resistenze del ministro dell’Economia ai loro progetti troppo costosi, come il cosiddetto reddito di cittadinanza, e un po’ chiedendosi se Salvini non abbia in testa di rompere il “contratto” di governo già prima delle elezioni europee della primavera dell’anno prossimo per capitalizzare, diciamo così, i guadagni politici già acquisiti. Ma essi non riescono bene a immaginare, in questo caso, se Salvini  vorrà farlo per accelerare le elezioni anticipate o per ristabilire a tutti gli effetti l’alleanza di centrodestra con un Silvio Berlusconi ulteriormente ridimensionato e con maggiori aspiranti, nell’attuale Parlamento, al ruolo dei cosiddetti “responsabili”. Che spostandosi dagli stessi grillini, dal centro e dalla sinistra al centrodestra a trazione leghista consentirebbero la prosecuzione della legislatura.

            In ogni caso, sembra di capire che a rompere loro la transitoria e sempre più sofferta alleanza di governo con Salvini i grillini non ci pensino proprio, specie con tutti i guai che hanno anche in sede locale, specie a Roma col processo per falso alla sindaca Virginia Raggi e con la vicenda giudiziaria apertissima esplosa sull’affare dello stadio romanista a Tor di Valle.

           Meli su Renzi.jpg A quei pochi grillini, magari supportati dal presidente della Camera Roberto Fico, già impegnato da Mattarella durante la crisi di governo in una esplorazione delle possibilità di un’intesa col Pd, che fossero tentati dall’idea di ribussare al “forno” del Nazareno, è appena arrivato un monito, a dir poco, da Renzi in un articolo del Corriere della Sera firmato da Maria Teresa Meli. La quale, riferendo dei contatti continui di Fico con interlocutori autorevoli del Pd, che ne hanno ottenuto un soccorso nella scalata ancora in corso alla presidenza del comitato parlamentare di vigilanza sui servizi segreti, ha  scritto che ancora qualche giorno fa Renzi ha ripetuto ad un amico che i compagni di partito dovranno passare “sul suo cadavere” per accordarsi con i grillini.  Lo aveva detto, del resto, l’ex segretario già durante la crisi precedendo una riunione della direzione del Pd, convocata apposta per discuterne, con una intervista televisiva calata sul tema come una ghigliottina.

           

Matteo Salvini in overdose politica con la sortita su vaccinazioni e scuole

Nico Pillinini, il vignettista della Gazzetta del Mezzogiorno, coprendosi dietro le proteste della ministra della Sanità Giulia Grillo, naturalmente del Movimento delle 5 Stelle, dove con quel nome la signora avrebbe potuto forse ottenere ancora di più, ha giocato sul termine “internista” per commentare la sortita del vice presidente leghista del Consiglio sui dieci vaccini inutili o persino dannosi che non dovrebbero più essere obbligatori.

            Medico internista sicuramente Matteo Salvini non è, come nella vignetta gli ricorda la ministra grillina, risentita dell’invasione di campo compiuta dal collega di governo. Ma internista inteso come ministro dell’Interno il segretario della Lega lo è di sicuro. E in questa veste gli si potrebbe ironicamente attribuire la colpa di avere giocato o di essere incorso in un equivoco involontario.

            Ma qui, sia per la funzione governativa di Salvini sia per la serietà del problema delle vaccinazioni obbligatorie per l’ammissione alle scuole, cui il leader leghista si è richiamato esplicitamente con la sua sortita, non sarebbe il caso di scherzare più di tanto.

            Salvini è ormai in overdose politica. Gli ultimi scampoli di campagna elettorale per la ventina di importanti ballottaggi comunali alle porte non possono bastare a spiegare le esondazioni del ministro dell’Interno. Che, volente o nolente, consapevole o a sua insaputa, mostra di scambiare per problema di ordine pubblico qualsiasi questione di cui gli capiti di occuparsi.

Le vaccinazioni costituiscono un problema di natura sanitaria, a meno che il ministro dell’Interno non ritenga possibili con l’abuso dei vaccini l’esplosione di epidemie contro cui anche il suo dicastero potrebbe rivendicare qualche competenza d’intervento. Ma saremmo in tal caso di nuovo al di là, ma molto al di là, dell’ironia.

            Con l’immigrazione, e i problemi internazionali   connessi, che lo fanno spesso partecipe addirittura della politica estera affidata ad un altro Ministero e ministro, Salvini ha già un lavoro enorme. Che gli basterebbe e avanzerebbe per occupare la scena politica ben più dei grillini, provvisti di una rappresentanza parlamentare ben superiore a quella della Lega. Essi mostrano ogni giorno di più di soffrire di questo scompenso, sicuramente non estraneo all’inversione delle loro tendenze elettorali, stando ai sondaggi e ai voti amministrativi seguiti al rinnovo delle Camere.

Eppure Salvini non si ferma davanti a niente e a nessuno. E’, ripeto, in overdose politica. Che non è meno dannosa, alla lunga, delle altre cui si pensa quando parliamo di sovradosaggio.  

Quando Di Pietro strapazzò Prodi in Procura e ne divenne poi ministro

Mi ha ricordato una ormai lontana vicenda giudiziaria  di Romano Prodi riferitami nel 1996 da Filippo Mancuso l’interrogatorio del 21 dicembre 2016 nella Procura di Napoli raccontato nei giorni scorsi da Filippo Vannoni, commercialista ed ex consigliere economico di Matteo Renzi, alla sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura. Dove pende un procedimento, per le indagini sulla Consip, a carico del pubblico ministero Henry John Voodcock e della collega Celestina Carcaro: “l’ultima battaglia” attorno al famoso magistrato partenopeo, l’ha definita in un titolo di prima pagina Il Fatto Quotidiano definendo “inedita” la procedura adottata dagli inquirenti del Palazzo dei Marescialli per mettere a confronto Vannoni col maggiore dei Carabinieri Gianpaolo Scafarto. Che fu presente a quel controverso interrogatorio, e forse anche estensore del relativo verbale, secondo i ricordi di Vannoni non confermati o decisamente negati dall’ufficiale, al pari di altre circostanze. Fra le quali il più grave è sicuramente il clima intimidatorio cui Vannoni ha attribuito la sua attribuzione della fuga di notizie sull’indagine Consip a Luca Lotti, all’epoca dei fatti sottosegretario e braccio destro di Renzi a Palazzo Chigi.

Ma veniamo a Prodi, un cui interrogatorio alla Procura di Milano nel 1993, quando era presidente dell’Iri, mi è tornato alla mente leggendo dell’affare Vannoni per quel che mi riferì tre anni dopo-ripeto- l’ex ministro della Giustizia Mancuso, sfiduciato al Senato nel 1995 con una inedita procedura, poi avallata dalla Corte Costituzionale, per avere osato mandare gli ispettori di via Arenula nel tribunale ambrosiano. Che era allora considerato un avamposto sacro della lotta alla corruzione per le indagini chiamate Mani pulite, così come la Procura di Palermo per la lotta alla mafia.

Ancora fresco di elezione a deputato nelle liste di Forza Italia, che lo aveva adottato come un eroe dopo la destituzione ministeriale per la quale si era speso personalmente persino l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, l’ex guardasigilli volle spiegarmi in un lungo colloquio le ragioni per le quali si sentiva “non so -mi disse- se più sorpreso o divertito” dalla nomina di Antonio Di Pietro a ministro dei Lavori Pubblici nel primo governo Prodi. Una nomina peraltro avvenuta su suggerimento -fu scritto allora- di una giovane nipote del presidente del Consiglio. Che trovò evidentemente formidabile l’idea della congiunta, nonostante egli avesse avuto con Di Pietro un’esperienza difficile, quando l’allora sostituto procuratore aveva voluto sentirlo nella caccia che conduceva a imprenditori e aziende che avevano finanziato illegalmente partiti, leader, leaderini e quant’altri.

Da quell’interrogatorio, di cui avevano in verità riferito anche alcuni cronisti giudiziari per avere sentito dietro la porta le urla inconfondibili del magistrato molisano, Prodi era uscito talmente impressionato da sfogarsene a Roma con Scalfaro, che lo consolò incoraggiandolo con la decisione di comunicare ufficialmente l’udienza appena accordatagli, e proprio con Mancuso. Di cui francamente non ricordo se allora fosse ancora procuratore generale della Corte d’Appello di Roma, o fosse appena andato in pensione.

Mancuso mi raccontò di avere trovato Prodi colpito, se non addirittura spaventato, dall’”irruenza inquisitoria, oltre che grammaticale e sintattica” di Di Pietro, che aveva scambiato le pause di riflessione del professore e il suo modo pacato di rispondere alle domande e di ragionarvi sopra come reticenza o qualcosa del genere. E che, “stremato dall’impazienza”, aveva concluso l’interrogatorio chiedendo sbrigativamente a Prodi di fargli avere una memoria scritta, o qualcosa del genere, sulle cose che gli aveva chiesto a proposito dell’Iri e delle sue aziende.

Alla stesura di quella memoria scritta Prodi provvide con una certa, comprensibile apprensione che Mancuso contribuì a fargli superare consigliandolo al meglio. Prodi ne uscì indenne.

Del racconto di quell’uomo formidabile che era Mancuso per cultura, esperienza, arguzia e simpatia mi avvalsi poi più volte in articoli, sul Giornale e sul Tempo, conservandone intatta la fiducia, e non incorrendo in alcuna smentita o precisazione. Che è la ragione per la quale sono tornato ora a scriverne sull’onda delle impressioni ricavate leggendo della vicenda Vannoni.

Gli interrogatori, o deposizioni, sono spesso esperienze illuminanti. Ne sa qualcosa anche un magistrato, un giurista e un politico come l’ex presidente della Camera Luciano Violante. Che, ascoltato una volta a Palermo dagli inquirenti per la presunta trattativa fra lo Stato e la mafia nella stagione delle stragi, da lui peraltro vissuta da presidente della commissione bicamerale antimafia, rimase colpito dalla immediatezza e un po’ anche dalla parzialità con le quali ritrovò sulle agenzie di stampa le notizie sulla sua deposizione.

Fu anche quella sua esperienza personale, credo, a suggerire a Violante il sarcastico e formidabile auspicio, che molti suoi ex colleghi di toga non gli hanno mai perdonato, di vedere finalmente “separate le carriere dei giornalisti e dei magistrati”, specie dell’accusa. Forse basterebbe ed avanzerebbe questa separazione, secondo Violante,  a rendere superflua quella più difficile, sul piano legislativo e costituzionale, fra le carriere dei giudici e dei pubblici ministeri.

 

 

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