Meloni inciampa a sorpresa nel complotto di carta contro il suo governo

Pur cresciuta mangiando politica e cicoria, come direbbe Francesco Rutelli replicando una vecchia battuta autobiografica, la premier Giorgia Meloni è curiosamente inciampata a Malta, dove si trovava per un vertice europeo, nella trappola di un giornalista che l’ha interrogata sul tema tutto di carta di un governo tecnico. Tema sollevato sui giornali italiani: particolarmente quelli degli “Agnelli -ha titolato Il Giornale– che soffiano sullo spread”, senza peraltro riuscire a sollevarlo più di tanto. Esso infatti rimane ben sotto le punte che portarono nel 2011 l’ultimo governo di Silvio Berlusconi alla crisi e Mario Monti a Palazzo Chigi. Lo ha ricordato a suo modo Stefano Rolli nella sua vignetta sul Secolo XIX facendo dire alla Meloni che “lo spread non ci preoccupa” e ad un ascoltatore davanti alla televisione: “E’ proprio il Berlusconi day”, celebrato ieri a Paestum nell’ottantasettesimo anniversario della nascita dell’estinto.

         Anziché limitarsi a “sorridere”, come pure aveva dato inizialmente l’impressione di voler fare, la Meloni è caduta nella trappola accusando le opposizioni politiche e mediatiche di stare già facendo la lista dei ministri e denunciando l’avversione della sinistra, nella storia della cosiddetta seconda Repubblica, ai  governi eletti in qualche modo direttamente dai cittadini votando una certa coalizione con tanto di candidato a Palazzo Chigi. “Paura del governo tecnico”, ha sintetizzato e gridato la Repubblica. “Mai un governo tecnico”, è corsa dietro La Stampa, il cui ex direttore Marcello Sorgi ne ha rilanciato l’ipotesi richiamandosi, fra l’altro, ad “un serio e documentato articolo” pubblicato il giorno prima e firmato dalla  vicedirettrice Annalisa Cuzzocrea.

         Per valutare il carattere documentativo di questo articolo che ha tanto ispirato il mio amico Marcello mi limiterò a riferirvi che si faceva risalire ad un progetto di governo tecnico, da preferire alle elezioni anticipate con un Pd ridotto alle condizioni in cui si trova, persino la decisione appena presa al Nazareno dall’ex ministro Dario Franceschini di sciogliere la propria corrente e crearne una nuova e più estesa, non a caso paragonata ad un “arcipelago”, per cercare di consolidare la già traballante segretaria Elly Schlein.  Vecchi giochi di partito -direi- che si facevano anche nella Dc, da dove proviene non a caso Franceschini, ma che spesso sortivano o nascondevano  effetti opposti.

         Con questo incidente di politica interna, chiamiamolo così, finendo per accreditare una manovra più di carta -ripeto- che altro, la Meloni ha ridotto la visibilità del successo conseguito nella sua missione a Malta confermando un  rapporto privilegiato con la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e col presidente francese Emmanuel Macron, e dando uno “schiaffo a Berlino” -altro titolo di Repubblica– con quell’accusa al cancelliere Olaf Sholz di volere fare “coi confini degli altri” solidarietà ai migranti selezionati dagli scafisti.  

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Il primo compleanno mancato di Berlusconi, finito anch’esso in campagna elettorale

Oggi è il primo compleanno mancato di Silvio Berlusconi. Sarebbe stato l’ottantasettesimo se non fosse morto il 12 giugno scorso. Lo celebrano in tanti tra Paestum, scelta dai dirigenti del suo partito, e la villa di Arcore dove i familiari ne custodiscono le ceneri.

         Non volendo forse correre a Paestum per non mescolarsi a falsi amici che ne interruppero l’esperienza parlamentare in Forza Italia, né potendo presentarsi ad Arcore per mancanza di invito, il suo ancora fedele ammiratore Andrea Ruggieri, direttore responsabile del Riformista di  Matteo Renzi, gli ha voluto mandare gli auguri a mezzo stampa con un editoriale. Che definerei pesantuccio per il partito fondato dal Cavaliere nel 1994, a ridosso delle elezioni anticipate che avrebbe vinto sorprendendo tutti, o quasi. “Non tradirlo”, ha raccomandato a Forza Italia, scrivendo di “Silvio”, il ventriloquo ormai di Renzi. Sia detto naturalmente senza offesa, con valutazione semplicemente politica.

         L’esortazione di Ruggieri ai forzisti a non tradire il capo estinto mi sembra a dir poco retorica, o metafisica, avendo scritto il direttore responsabile -ripeto- del Riformista che ciò che resta del suo ex partito “oggi difende lo status quo ed è ostaggio di una baronia che rifiuta di adeguare mentalità e offerta politica a un mercato elettorale che cambia con la società”. “Chiusi, determinati solo a perdere conservando il proprio posto e quello di qualche mediocre, incapace di apportare utilità a un marchio che ancora oggi varrebbe”, ha scritto ancora Ruggieri  di quanti dirigono, gestiscono e quant’altro “un marchio -ripeto- che ancora oggi varrebbe” se fosse o finisse in mani diverse, magari contribuendo a creare o far crescere, immagino, quel “Centro” che la buonanima di Berlusconi ritenne sempre di occupare e rappresentare e che Renzi si è appena intestato, sostituendolo alla sua ormai ex “Italia viva”:  non ho mai ben capito se con la minuscola o la maiuscola dell’aggettivo.

         Così, celebrato in questi termini e modi, da e in queste direzioni, anche il primo compleanno mancato, o virtuale, di Berlusconi è prepotentemente entrato nella campagna elettorale per le europee dell’anno prossimo, come tanti altri fatti politici e polemiche riconducibili sia alla maggioranza di governo sia alle opposizioni. Fra le quali, per quanti sforzi abbia fatto, faccia e farà ancora Renzi per scalare la classifica, rimane in testa il Pd persino di Elly Schlein. E del suo “silenzio” lamentato, denunciato, irriso dal Foglio che pur era sembrato ad un certo punto tentato dallo scommettervi come ai tempi di Enrico Letta. “Dalla guerra d’Ucraina alla pesca dell’Esselunga elogio del non pensar nulla di Schelin”, ha infierito nel titolo il giornale fondato di Giuliano Ferrara e Claudio Cerasa sorprendendo in flagranza di silenzio, appunto, o di indeterminatezza, la segretaria del Nazareno. Che affronta e pensa di risolvere “ogni problema a modo suo: prima procedere alla riconferma della linea e poi fissarla”. Perfetto.

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L’affare Borsellino interessa i giornali meno della pesca della Esselunga

         L’affare Borsellino- Paolo, il magistrato collega e amico di Giovanni Falcone, ucciso il 19 luglio 1992 a Palermo a distanza di 57 giorni da lui in analoghe circostanze, saltando entrambi con le scorte in attentati ad alto potenziale esplosivo- non è più soltanto giudiziario per i depistaggi che ne hanno caratterizzato indagini e processi. E’ ormai diventato -con aspetti ancora più inquietanti, a mio avviso- anche un affare mediatico. Anzi, un malaffare.

         Sconcerta, a dir poco, che le clamorose audizioni alla Commissione parlamentare antimafia della figlia di Borsellino, Lucia, e del marito Fabio Trizzino, legale della famiglia, sul sospetto avvertito dal magistrato di essere stato condannato a morte più dai suoi colleghi che dalla mafia, sia finita sulle prime pagine di due soli giornali che possiamo definire di nicchia garantista. Sono L’Unità di Piero Sansonetti e Il Dubbio di Davide Varì, succeduto allo stesso Sansonetti alla guida del quotidiano degli avvocati. Tutti gli altri hanno trovato la faccenda meno meritevole di attenzione, fra l’altro, dello spot della Esselunga sulla pesca con la quale una bambina cerca di fare riconciliare i genitori separati.

         Eppure nell’aula della commissione parlamentare presieduta da Chiara Colosimo- di cui ora si capisce ancora meglio la forte ostilità riservata per lunghi otto mesi alla sua candidatura di destra anche dal movimento grillino di Giuseppe Conte e di Roberto Scarpinato, ex procuratore generale di Palermo- sono risuonate le parole di Borsellino raccolte dalla moglie pochi giorni prima della morte e riproposte, in particolare, dall’avvocato Trizzino. Eccole: “Mi uccideranno ma non sarà una vendetta della mafia.  Saranno mafiosi coloro che mi uccideranno ma quelli che hanno voluto la mia morte saranno i miei colleghi e altri”.

         Cinque giorni prima di essere ucciso Borsellino aveva inutilmente chiesto al capo della Procura di Palermo di occuparsi di un voluminoso dossier noto come “mafia e appalti” e redatto dai Carabinieri. Cui, in verità, era interessato ma a Milano anche Antonio Di Pietro, che molti anni dopo ne avrebbe parlato in una intervista all’Espresso raccontando, fra l’altro, ch’egli si occupava sì di Tangentopoli, Bettino Craxi e partiti vari finanziati illegalmente, ma in realtà voleva inseguire l’intreccio segnalatogli da Borsellino. Inseguendo il quale “Tonino”  avrebbe potuto cercare di salire ben oltre Craxi, sino a raggiungere l’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti, già nel mirino di Giancarlo Caselli a Palermo.  

         Tutto noto, dirà qualcuno facendo spallucce. Ma, grazie all’ostinazione con la quale Giorgia Meloni, spinta alla politica da ragazza proprio dalla tragedia di Borsellino, ha voluto la Colosimo presidente, se ne parla finalmente nella Commissione antimafia. Ci sarebbe di che cosa occuparsi o rioccuparsi meglio, ma l’informazione scritta e parlata, digitale e stampata, preferisce la pesca Esselunga. Povero giornalismo.

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Napolitano e Berlusconi sulle nuvole immaginate da Gianni Letta

Dubito – e come non potrei sotto questa testata?- che a Gianni Letta la ciambella sia venuta questa volta col solito buco. Alludo naturalmente al discorso che egli ha pronunciato nell’aula di Montecitorio partecipando ai funerali di Stato di Giorgio Napolitano. Col quale ebbe, prima e dopo essere stato il principale sottosegretario di Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi, rapporti che gli hanno permesso di testimoniare una convivenza “tormentata e complessa” fra i due capi -ha riconosciuto- ma non quanta sia stata vista e raccontata anche da amici e fedeli del compianto ex presidente del Consiglio, anche se arrivati alla corte di Arcore dopo di lui.

         Alessandro Sallusti, per esempio, da poco tornato alla direzione del Giornale non più della sola famiglia Berlusconi, ha scritto dell’appena morto Napolitano come del “peggiore”, o di uno dei peggiori presidenti succedutisi nei 77 anni abbondanti della Repubblica, rimproverandogli soprattutto di avere rimosso Berlusconi da Palazzo Chigi nel 2011 -e forse di avere persino contribuito a farlo condannare due anni dopo in via definitiva per frode fiscale-  per assecondare sostanziali congiure internazionali e la propria partigianeria politica.

         Anche per questa sortita del direttore tornato al Giornale l’intervento di Gianni Letta ai funerali di Stato di Napolitano era atteso con un certo interesse, probabilmente nutrito a cominciare -credo- dai familiari dell’estinto che non a caso l’avevano voluto tra gli oratori della cerimonia più solenne che io ricordi in onore di un capo dello Stato. Come se Napolitano fosse morto in carica e non più di otto anni dopo il suo ritorno a Palazzo Madama come senatore di diritto.

         Non so dei familiari -ripeto- del compianto presidente emerito, ma uno dei più quotati cronisti, osservatori, commentatori e altro del giornalismo italiano, Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera, mi è sembrato convinto della ciambella di Gianni Letta, come l’ho chiamata. Eccovene testualmente il racconto: “Dopo la Finocchiaro”- Anna, già capogruppo post-comunista al Senato, già ministra, già  arrivata una volta sulla soglia della candidatura al Quirinale- “parla Gianni Letta: ricorda Napolitano sulla Flaminia presidenziale con Berlusconi, immagina che i due nell’aldilà possano essersi parlati, chiariti. Un messaggio a destra: ma quale golpe”. Quello naturalmente già accennato dell’autunno del 2011, quando personalmente ebbi la stessa sensazione più autorevolmente avvertita e raccontata in questi giorni dal senatore quasi a vita ed ex presidente della Camera Pier Ferdinando Casini: che Berlusconi si sentisse “sollevato” più che arrabbiato per il passaggio di mano che stava avvenendo con Mario Monti. Del quale era talmente orgoglioso di averlo mandato a suo tempo a Bruxelles come commissario europeo per conto dell’Italia da essersi immediatamemte offerto a Napolitano per la controfirma del suo decreto di nomina a senatore a vita, propedeutico all’incarico che gli sarebbe stato quasi immediatamente conferito di presidente del Consiglio.

         Poi addirittura, come l’interessato ha raccontato in questi giorni, prima di scoprirne una tale incompatibilità da ritirargli la fiducia concessagli per un anno, Berlusconi propose allo stesso Monti di assumere la guida del centrodestra nelle elezioni ordinarie del 2013.

         “Ma quale golpe” -ripeto- ha scritto Cazzullo interpretando le parole di Gianni Letta in memoria di Napolitano come “un messaggio a destra”. Ma quale messaggio di negazione o smentita -mi chiedo a mia volta- se il buon Gianni Letta, spingendosi oltre il punto cui sarebbe poi giunto il cardinale e biblista Gianfranco  Ravasi, sempre nell’aula di Montecitorio, ha sentito il bisogno spiritoso di scomodare “l’aldilà”- peraltro un po’ impervio per un Napolitano spentosi senza credervi- per immaginare i due morti finalmente in grado di chiarirsi, riconciliarsi, se avessero mai davvero litigato in vita, e via discorrendo.

         L’ironia ha di solito un terribile banco di prova: l’impatto con le vignette, che dell’ironia, appunto, sono l’espressione o il prodotto, diciamo così, più professionale o autentico. Ebbene, il buon Gianni si è procurata quella di Nico Pillinini che sulla Gazzetta del Mezzogiorno immagina appunto Napolitano e Berlusconi sulle nuvole: ma un Napoletano silenzioso e severo, quasi ancora preso nel suo ruolo terreno, che sente Berlusconi salutarlo alle spalle dicendogli più o meno sarcastico: “Chi muore si rivede”. Con quante poche parole, diavolo di un vignettista, Pillinini è riuscito ad esprimere il mio dubbio iniziale.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 1° ottobre

L’ultimo servizio di Napolitano all’Italia è stato l’incontro fra la Meloni e Macron

Piuttosto che il merito, riconosciutogli dal buon Claudio Velardi sul Riformista, di avere ricompattato attorno alla sua memoria nell’aula di Montecitorio un po’ tutto l’estabilishment del Paese, fra parlamentari e invitati, ben più di quanto sia potuto accadere nelle piazze attorno ai maxischermi, per cui L’Identità ha ritenuto di titolare esageratamente “Addio fra tanta politica e pochi italiani”; piuttosto che questo, ripeto, vorrei sottolineare  l’ultimo servizio che Giorgio Napolitano ha reso al Paese con i suoi funerali di Stato. Che hanno fornito l’occasione per un lungo e prezioso incontro fra la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron sui temi caldissimi d’Europa, a cominciare da quello rovente dell’immigrazione clandestina.

         Dalle incomprensioni, a dir poco, dei mesi scorsi e dagli spettacoli che continuano ad arrivare dalla frontiera di Ventimiglia, si è passati ad un clima di solidarietà continentale, oltre che fra i due Paesi limitrofi. Esso potrebbe produrre buoni risultati già negli incontri europei dei prossimi giorni, fra Malta e Spagna.

         I pericoli maggiori sulla strada di intese proficue, pur nel clima in qualche modo avvelenato dalla campagna elettorale ormai in corso ovunque in Europa per il rinnovo del Parlamento di Strasburgo, e i nuovi equilibri politici che potrebbero derivarne, provengono purtroppo anche dalla maggioranza di centrodestra, o destra-centro. Forse persino più che dalla Germania al cui governo Giorgia Meloni ha appena contestato, scrivendo al cancelliere Olaf Sholz, il finanziamento scoperto con un po’ di strano ritardo alle navi del volontariato battenti bandiera tedesca che soccorrono i migranti nelle acque del Mediterraneo per scaricarli praticamente tutti sulle coste italiane.

         Quando il presidente della Lega e vice presidente del Consiglio Matteo Salvini insegue il ministro meloniano della Difesa parlando di “atto di guerra”, senza neppure aspettare la risposta promessa da Sholz alla Meloni nel tentativo -credo- di chiarire la situazione e non di rompere i rapporti, cadono francamente le braccia. E gli occhi strabuzzano quando il vice di Salvini, tale Andrea Crippa, mette metaforicamente l’elmetto delle SS naziste a Sholz e – ruttando, come gli ha giustamemte rimproverato sul Foglio Giuliano Ferrara- gli rinfaccia l’occupazione tedesca dell’Italia del 1943, dopo o mentre cambiavamo alleati nella seconda guerra mondiale.  

         Se c’è una cosa che la Meloni dovrebbe fare, dopo l’incontro con Macron grazie alla buonanima -ripeto- di Giorgio Napolitano, e prima di correre ai suoi appuntamenti internazionali, è di promuovere quella che una volta si chiamava “verifica di maggioranza”. Mettendoci questa volta la faccia davvero, non solo a parole, cioè sino a provocare le elezioni anticipate dalle quali, del resto, già alcuni osservatori e retroscenisti la danno tentata, essendo le opposizioni messe peggio ancora della maggioranza.  

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Il giorno dei funerali di Stato per Napolitano e della marcia della Meloni su Berlino….

Nel giorno del funerale di Stato dell’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano,  ma anche dell’”alta tensione” con la Germania, o della “marcia su Berlino” attribuita dalla Verità a Giorgia Meloni per avere scritto al cancelliere tedesco Olaf Sholz una lettera di protesta contro i finanziamenti alle navi battenti la sua bandiera e specializzate nel soccorso ai migranti da trasportare sulle coste italiane, mi chiedo che cosa avrebbe fatto al Quirinale, se gli fosse toccato di starvi, il compianto capo dello Stato.

         Avrebbe chiamato telefonicamente o convocato fisicamente sul Colle la presidente del Consiglio per dissentire, non avendo potuto impedirle di scrivere quella lettera nella versione effettiva o in quella immaginata nelle vignette, per esempio, di Stefano Rolli sul Secolo XIX o di Makkox sul Foglio? Avrebbe telefonato, magari alla presenza della stessa premier, al cancelliere  e al presidente della Repubblica tedesca per scusarsi con entrambi? O avrebbe condiviso la sostanza della protesta della Meloni non condividendone però la forma per le distorsioni mediatiche e politiche cui si prestava a livello interno e ancor più internazionale?  

         Chissà. E’ un mistero che il povero Napolitano, chiuso in quel maledetto feretro, si è portato appresso morendo peraltro prima ancora che la premier avesse assunto la sua iniziativa epistolare. Che, fra le varie reazioni, commenti, analisi, interpretazioni e quant’altro, si è guadagnata anche quella di essere nata dalla velenosa e neppure tanto nascosta concorrenza a destra che la presidente del Consiglio subisce ogni giorno, e ogni notte, dal vice presidente leghista Matteo Salvini e compagni di partito, graduati e non.

         P.S. – Sempre a proposito dei funerali odierni di Stato a Giorgio Napolitano mi permetto di segnalare l’ossessione vignettistica del solito Fatto Quotidiano. Che, chiudendo una serie di abbinamenti fra le agonie dello stesso Napolitano in una clinica romana e del boss mafioso Matteo Messina Denaro nel reparto penitenziario di un ospedale dell’Aquila, ha oggi accomunati bare e funerali soprapponendoli. L’autore della vignetta è il solito Mario Natangelo, ostinato -al pari di chi ne riceve e pubblica la produzione, magari su commissione specifica- nel considerarsi spiritoso, e magari anche artista.

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Il felice ossimoro di Giorgio Napolitano testimoniato da Rino Formica

Rino Formica, nato poco meno di due anni dopo Giorgio Napolitano, ne ha saputo confermare e spiegare con simpatica arguzia  il “comunismo liberale” attribuito anche qui, sul Dubbio, come un felice ossimoro allo scomparso presidente emerito della Repubblica fra tante, troppe ironie di un giornalismo a dir poco superficiale e disinformato. Un giornalismo che -secondo le circostanze- insegue, precede e scopiazza la politica peggiore, fatta non di passione e di analisi ma di odio, non di testa ma di pancia.

         In particolare, intervistato da Repubblica, Formica ha ricordato la prima passione, appunto, di Napolitano. Che non fu la politica ma il teatro, di cui si occupò nei gruppi universitari fascisti ai quali il solito Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano ha cercato di inchiodarlo raccontandone a suo modo la storia di “peggiorista”. Che ha sarcasticamente sovrapposta a quella del comunista “migliorista” appartenutagli per tanti anni dopo la frequentazione di Giorgio Amendola: un altro dirigente del Pci di cultura e famiglia più liberale che marxista.

         “Il teatro -ha spiegato Formica- è quel luogo nel quale l’irreale viene rappresentato come reale”. Nel quale “dopo la svolta badogliana di Togliatti nel 1944…il comunismo liberale dev’essere apparso” al Napolitano ancora diciannovenne “un colpo di teatro”, appunto: “un’utopia irrealizzabile ma di una purezza angelica”. “Una volta morto il comunismo -ha detto Formica saltando un bel po’ di anni e forse esagerando, cioè ritardando un po’ l’evoluzione di Napolitano- è quell’altra idea, la liberale, che gli consente di proseguire il cammino nelle istituzioni”, sino a scalarle quasi tutte: Presidenza della Camera. Ministero dell’Interno e Presidenza della Repubblica, senza passare per la Presidenza del Consiglio, diventata invece il capolinea di Massimo D’Alema nel percorso post-comunista.

         Eppure Fornica -come lui stesso racconta nella sua bella intervista a Repubblica– aveva avuto l’occasione di provare e condividere da capogruppo socialista alla Camera, durante il governo  pentapartito di Craxi, un centrosinistra esteso ai liberali, la vera stoffa dell’abito, in tutti i sensi, del suo omologo comunista. Che era proprio Napolitano.

         “I rapporti tra Berlinguer e Craxi- racconta Formica- erano molto tesi. Napolitano era per un’opposizione non pregiudiziale, in ciò sostenuto da Nilde Iotti”. Che -mi permetto di aggiungere- da presidente della Camera, praticamente rimproverata in una riunione della direzione del Pci da Berlinguer di non avere fatto tutto quello che il regolamento le avrebbe permesso contro i tagli alla scala mobile dei salari, effettuato dal governo con decreto legge, interruppe il segretario per intimargli il rispetto delle istituzioni, a cominciare da quella che lei impersonava con la carica che ricopriva.

          Napolitano da capogruppo comunista chiamato con una certa perfidia politica dal segretario del partito a praticare in sostanza una politica di opposizione pregiudiziale dalla quale sapeva che l’interessato dissentiva, come se la cavò?, ha chiesto l’intervistatore Concetto Vecchio. “Con sofferenza”, ha risposto Formica aggiungendo e spiegando: “Avvertiva il peso dell’incomprensione perché era l’uomo del dialogo tra le forze dell’antifascismo costituzionale. Si stabilì fra noi un’intesa che è rimasta sino alla fine”, senza quindi aspettare la caduta del comunismo col muro di Berlino, sei anni dopo.

         Senza arrivare alla “perfidia politica” da me attribuita alla buonanima di Berlinguer nel fare arrivare Napolitano a capogruppo della Camera per condurre una politica non condivisa, l’intervistatore ha chiesto a Fornica se e come fosse “ammesso il dissenso nel Pci”. E Fornica ha risposto, questa volta buttandola lui in teatro e quasi rimpiangendo tempi per niente commendevoli, pur se per certi versi ancora migliori dei nostri, per carità: “I partiti allora erano delle vere fucine di pensiero. Si discuteva moltissimo, con un senso di religiosità, mi verrebbe da dire”.

Quei partiti tuttavia crollarono tutti alla prima incursione esterna, con quella che Napolitano al Quirinale definì, nella famosa lettera alla vedova di Craxi nel decimo anniversario della morte del leader socialista in terra tunisina, “il brusco cambiamento dei rapporti” fra politica e magistratura cui gli era toccato di assistere, impotente, da presidente della Camera. E che la sinistra aveva assecondato suicidandosi, come dimostra il governo neppure di centrodestra ma di destra-centro in carica da quasi un anno nella realistica prospettiva di durare sino alla fine ordinaria di questa legislatura, come si è vantata la premier Giorgia Meloni celebrando il primo anniversario della sua vittoria elettorale.

Giuliano Ferrara si monumentalizza ricordando Giorgio Napolitano sul Foglio

         Ah, che scivolata quella del mio amico Giuliano Ferrara nel pur bellissimo articolo dedicato sul Foglio a Giorgio Napolitano e alle sue “virtù” di “realismo e senso delle istituzioni”: altro che il “camaleonte” datogli dal Giornale dove anche a lui, Giulianone, è capitato di scrivere.

         Una volta tanto Ferrara si è fatto prendere dalla vanità e si è vantato -giustamente, per carità- di avere “suggerito” a Silvio Berlusconi “l’irrituale stretta di mano” nell’aula di Montecitorio a Napolitano che aveva appena smesso di parlare a nome del suo partito e gruppo parlamentare post-comunista contro la fiducia al primo governo formato dal fondatore del centrodestra.  Ciò che invece non è stato giusto è di essersi attribuito questo merito in qualità di “primo ex comunista in un governo repubblicano dal 1947”, quando si consumò la storica  rottura fra Alcide Gasperi e Palmiro Togliatti.

         Ferrara, ex comunista, “cresciuto sulle ginocchia di Togliatti”, come amava dire di lui amichevolmente Bettino Craxi, era in effetti nel 1994 il ministro dei rapporti col Parlamento del primo governo Berlusconi. E sicuramente seppe convincere il premier a quel passo di rispetto verso l’avversario principale in Parlamento. Ma egli non era il primo ex comunista al governo dopo il 1947. Altri lo avevano preceduto per qualche giorno o ora entrando e uscendo  l’anno prima dal governo di Carlo Azeglio Ciampi che aveva appena giurato. Il segretario del Pds-ex Pci Achille Occhetto ne aveva ordinato le dimissioni per dissenso dai democristiani che non avevano votato a favore delle autorizzazioni a procedere chieste dalla magistratura contro il leader socialista per la cosiddetta Tangentopoli.

         Ma prima ancora di quel fuggevole ritorno di ormai post-comunisti, era stato ministro del bilancio nei governi di centrosinistra di Aldo Moro, di Mariano Rumor e di Emilio Colombo l’ex comunista Antonio Giolitti, uscito dal Pci dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956: un’uscita che gli sarebbe costata la bocciatura di candidato al Quirinale proposta da Craxi nel 1978, prima che si realizzasse la convergenza degli ancora comunisti su un altro socialista: Sandro Pertini.  Cosa gli ha fatto il povero, compianto Antonio Giolitti -con quel nome, poi- per essere uscito così radicalmente anche dalla memoria di Giuliano?  A saperlo.

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Le sorprese nella camera ardente di Giorgio Napolitano al Senato

         Note a margine, diciamo così, delle visite a Giorgio Napolitano nella camera ardente allestita al Senato per ospitarne il feretro in vista dei funerali laici di Stato, che si svolgeranno domani nell’aula di Montecitorio. Dove egli visse gran parte della sua esperienza politica da deputato, capogruppo del Pci e presidente dell’assemblea per partecipare poi al primo governo di Romano Prodi come ministro dell’Interno, salire al Quirinale nel 2006 rimanendovi non sette ma nove anni, con la prima rielezione nella storia della Repubblica, e infine tornare di diritto come ex capo dello Stato al Senato, mandatovi già nel 2005 da Carlo Azeglio Ciampi per alti meriti.

         “Il Papa a sorpresa dall’amico presidente”, ha titolato la Repubblica di carta. Ma a sorpresa perché, dopo che Francesco  aveva pubblicamente pregato per lui e invitato i fedeli in Piazza San Pietro a partecipare alla sua apprensione per l’imminente fine del presidente emerito e “servitore della Patria” ? Più specifica e motivata la sorpresa del Giornale. Che, dopo avere definito Napolitano “il peggiore” dei presidenti succedutisi al Quirinale, ha accusato il Papa di non avere accompagnato la sua preghiera davanti al feretro col segno della croce “per non urtare i compagni” del morto.

         La presidente del Consiglio Giorgia Meloni, criticata la sera stessa della morte di Napolitano per un comunicato “stitico” di ricordo e omaggio dello scomparso, è arrivata nella camera ardente di Palazzo Madama scortata dal presidente del Senato Ignazio La Russa. Ma più della scorta di La Russa, non deve essere piaciuta  ai critici e agli avversari della premier la sua posa, poco o per niente contrita, nei tre passaggi per la camera ardente: alla firma del registro, davanti al ritratto del presidente, nella sosta davanti al feretro -neppure lei facendosi il segno della croce, pur dichiaratamente cristiana- e infine stringendo le mani alla vedova. Caspita, neppure una lacrima è riuscita la Meloni a spremere da quei suoi occhioni.

         Molto particolare, come al solito, la partecipazione del Fatto Quotidiano al lutto nazionale con le sue “cattiverie” di prima pagina. Oggi l’associazione fra la morte di Napolitano e quella del capomafia Matteo Messina Denaro perché “forse Dio vuol sentire entrambe le versioni” delle famose trattative nel cui processo si cercò a suo tempo di coinvolgere il presidente della Repubblica intercettandolo al telefono con Nicola Mancino, poi assolto. Nella “cattiveria” di ieri l’associazione era stata fatta per raccomandare a Messina Denaro di allungare l’agonia “sennò Dell’Utri e Cuffaro non saprebbero a quale funerale partecipare”.

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Una squadra a Repubblica per contestare la festa di Giorgia Meloni

         il manifesto, con tutte le minuscole graficamente obbligatorie del quotidiano ancora dichiaratamente e orgogliosamente comunista,  ha relegato in fondo alla prima pagina un  richiamo di due articoli a pagina 6 sulla “festa grama per Meloni a un anno dalle elezioni” vinte dalla leader della destra, nonchè sulle “opposizioni in affanno”.

         Sempre in prima pagina- ma un po’ più sopra del manifesto– Il Corriere della Sera ha richiamato un articolo di Antonio Polito di pagina 11 sul primo anno di governo, pur non ancora compiuto essendo stato formato un mese dopo le elezioni, in cui la compagine ministeriale della prima donna, e di destra, a Palazzo Chigi viene paragonata a “una squadra di calcio alla sua prima volta in Champions League” che “alla fine del primo tempo non ha preso gol”.

         la Repubblica, con la minuscola dell’articolo e la maiuscola del resto, per quanto di carta, ha invece aperto -come si dice in gergo tecnico- con le mani della Meloni sugli occhi e un editoriale del direttore Maurizio Molinari intitolato “L’anno nero e le due strategie del governo sovranista”, considerato anche “aggressivo sui migranti, dirigista nell’economia e securitario sui diritti”. Ma non sono bastate né la sintesi o l’incipit dell’editoriale, perché Molinari ha allestito nell’occasione una squadra di diciannove giocatori, compreso lui, il capitano, da mettere in campo contro il governo in un inserto di lunga lettura. Eccovi i nomi degli altri diciotto, tutti stampati in ordine rigorosamente alfabetico: Natalia Aspesi, Corrado Augias, Marco Belpoliti, Michele Bucci, Carlo Bonini, Stefano Cappellini, Tommaso Ciriaco, Giuseppe Colombo, Valentina Conte, Simonetta Fiori, Stefano Folli, Emanuele Lauria, Ezio Mauro, Luca Pagni, Michele Serra, Claudio Tito, Alessandro Ziniti e Corrado Zunino. Ciascuno di questi avrà probabilmente pensato di avere quanto meno tirato contro la porta della Meloni mettendola in difficoltà, se non smentendo l’imbattibilità percepita da Antonio Polito sul Corriere. Farei tuttavia un’eccezione per il mio amico Folli, che se l’è presa solo contro Matteo Salvini, impegnato secondo lui con gli avversari a battere la sua premier scavalcandola a destra.

         Mi chiederete: e il Fatto Quotidiano ? Se l’è cavata peggio del manifesto, essendo prevalso sull’antimelonismo l’antinapoletanismo con un editoriale sullo scomparso presidente emerito della Repubblica, declassato nel titolo da migliorista a “Peggiorista”, con la maiuscola. “Ci vuole un bel talento -ha scritto Marco Travaglio- a fare il parlamentare per 70 anni, il presidente della Repubblica per nove, il presidente della Camera per 5, il ministro dell’Interno per 2 senza mai azzeccarne una. Quindi Napolitano di talento ne aveva da vendere”. I cinque anni attribuiti a Napolitano come presidente della Camera furono, in verità, meno di due, essendo finita molto in anticipo quella legislatura strozzata praticamente dalla magistratura fra gli applausi anche di Travaglio allora al Giornale.  

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