Le due Meloni raccontate dagli avversari mediatici e politici e dai fatti

         Tornano sempre meno i conti nel confronto fra ciò che scrivono e dicono di Giorgia Meloni, rispettivamente, i giornali e i partiti di opposizione e ciò che in realtà avviene attorno a lei.

Prendiamo, per esempio, il Consiglio Europeo dove la premier, in completo rosa pallido dopo il turchese romano del giorno prima, è corsa ieri “isolata”, come ha scritto nel titolo di apertura La Stampa e avevano gridato in aula alla Camera e al Senato gli avversari piddini e grillini nella discussione propedeutica alla sua missione a Bruxelles. E ciò per via degli attacchi alla Banca Centrale Europea, che continua ad alzare i tassi d’interesse, e del tempo che il governo si è voluto prendere per la ratifica del trattato, sempre europeo, sul fondo salva-Stati: il famoso Mes. In cambio Meloni vorrebbe notoriamente negoziare un “pacchetto” di concessioni sulla cosiddetta governance dell’Unione.

Già poche ore dopo l’apertura del Consiglio europeo la premier ha annunciato quasi trionfalmente i 12 miliardi e mezzo di euro  stanziati finalmente dall’Unione per fronteggiare la crisi dei migranti, come se li avesse chiesti lei e le fossero stati dati per venirle incontro, pur fra le proteste o le resistenze  di paesi come la Polonia e l’Ungheria, contrari alla cosiddetta distribuzione delle accoglienze e governati da partiti affini a quello della presidente del Consiglio italiana.  Per una arrivata “isolata” all’appuntamento con  gli omologhi comunitari non mi sembra male, ad occhio e croce.

Prendiamo, sempre per esempio, la rappresentazione appena riproposta dal Fatto Quotidiano di una Meloni “sull’orlo della crisi di nervi” per i problemi di convivenza che avrebbe con i partner di governo di centrodestra e con la stessa collega di partito e ministra del Turismo Daniela Santanchè, finita sotto indagine giudiziaria e attacco politico per come gestisce le proprie aziende e i contributi ottenuti per la lotta al Covid. “Truce, torva, astiosa, biliosa, minacciosa”, ha scritto Marco Travaglio della Meloni non riconoscendola più dopo la capacità dimostrata nei primi mesi di governo di apparire addirittura “simpatica”. Poi uno vede la già citata Stampa di Torino e viene a sapere dalla sondaggista Alessandra Ghisleri che la fiducia degli italiani nel governo in carica “resta alta”.

Non parliamo poi del Foglio, dove pure hanno votato e consigliato di votare  per il Pd nelle ultime elezioni politiche, nello scorso autunno, e oggi si legge in prima pagina dell’”altro miracolo italiano”, dopo quello storico della ricostruzione post-bellica ai tempi di Alcide De Gasperi e dei suoi successori. Scrive il direttore in persona del quotidiano fondato da Giuliano Ferrara: “La crescita va. Gli occupati pure. L’export anche. E sui titoli di Stato c’è più ottimismo che in Francia, Germania, Uk e America. Qual è il segreto? La flessibilità. Delle imprese e della politica”. E, per chiudere, la raccomandazione di “non perdere un treno” come questo.

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Le guerre false in Europa e quella unica, vera in corso in Ucraina

         Avrà pure avuto le sue ragioni il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, europeista convinto, a manifestare la sua cordialità con Giorgia Meloni nell’incontro abituale avuto con lei e altri esponenti del governo in vista del Consiglio Europeo di turno. Al quale la premier ha deciso di andare, secondo alcune rappresentazioni mediatiche e politiche, in tenuta di guerra più che nel completo turchese del Quirinale e delle Camere, dove ha chiesto e ottenuto il mandato che voleva.

         Repubblica, quella di carta, ha attribuito alla premier, praticamente in sintonia con la posizione polemica del Pd, un “processo” all’Unione Europea, altri giornali  -da Avvenire ai quotidiani del gruppo Monti Riffeser- una “sfida” soprattutto per il diritto di critica rivendicato nei riguardi della Banca Centrale di fronte al progressivo aumento dei tassi d’interesse adottato dalla presidente Christine Lagarde. Che fronteggia così l’inflazione, rendendo più caro il ricorso al denaro, anche a costo di mandare l’area dell’euro in una recessione cosiddetta tecnica  temuta a Roma dal governatore uscente della Banca d’Italia Ignazio Visco e a Francoforte dal rappresentante italiano nell’esecutivo della banca centrale europea, Fabio Panetta. Che a novembre subentrerà a Visco in Banca d’Italia. Due uomini- Visco e Panetta- non certo distanti sia dal capo dello Stato sia dal predecessore della Lagarde e della Meloni, cioè Mario Draghi. Dal quale è difficile attendersi francamente tentazioni e comportamenti antieuropeisti.

         Anche sul versante dei tempi della ratifica del trattato sul Mes, il meccanismo di stabilità europea e del fondo salva-Stati, cui la Meloni vuole arrivare solo dopo avere negoziato con Bruxelles su altri temi, non si può certo parlare di discontinuità dell’attuale governo rispetto a quello precedente di Draghi. Il quale  a Palazzo Chigi, senza mettere a disagio la componente piddina della sua squadra ministeriale, non si spese poi tanto per accelerare la ratifica, conoscendo bene le varie sfaccettature del problema.

Nonostante l’elmetto metaforicamente apposto sulla testa della Meloni in partenza per il Consiglio europeo di fine giugno  non ha tutti i torti Il Foglio a chiedersi -anche dopo le polemiche accesesi per il modo in cui la premier si è preparata alla missione, e le verdure tutte italiane arrivate in faccia alla Lagarde nella vignetta di Emilio Giannelli oggi sul Corriere della Sera- se quelli capeggiati dalla stessa Meloni  siano più “fratelli di Draghi o d’Italia”.

         L’unica guerra davvero in corso in Europa rimane quella dell’Ucraina per l’invasione russa voluta da un Putin che, dopo essere scampato ad un colpo di Stato, ha quanto meno socchiuso le porte del Cremlino al cardinale Matteo Zuppi. Che, già recatosi a Kiev, è stato mandato a Mosca dal Papa che non ha mai smesso di scommettere su una soluzione pacifica del conflitto.

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Eccovi Melodraghi, come il Dalemoni dei tempi di Giampaolo Pansa

         Se non fosse purtroppo morto più di tre anni fa, Giampaolo Pansa avrebbe probabilmente figliato -diciamo così, in tutti i sensi- il suo secondo personaggio di doppia personalità dopo il famoso Dalemoni, per metà Massimo D’Alema e per l’altra metà un Silvio Berlusconi ancora fresco di esordio nella sua seconda vita di politico, seguita a quella di imprenditore o “impresario”, come preferiva chiamarlo per dileggio Eugenio Scalfari. In particolare, Pansa non si sarebbe risparmiata l’occasione per proporvi Melodraghi, o MeloDraghi, con la doppia maiuscola, di fronte alle tante, continue decisioni che la premier di centrodestra, o di destra-centro, prende in sintonia con le idee, lo stile e persino le modalità del predecessore. Che d’altronde ne favorì la successione parlandone bene come presidente del Consiglio negli ambienti internazionali per lui di casa, dove qualcuno era più preoccupato che incuriosito dalla scalata elettorale della leader della destra italiana a Palazzo Chigi ormai avviata al successo.

         Sono riferibili al  predecessore della Meloni entrambe le personalità scelte ieri dal Consiglio dei Ministri, con le dovute procedure, per il vertice della Banca d’Italia e della struttura commissariale per la ricostruzione dell’Emilia Romagna e delle regioni limitrofe alluvionate nei mesi scorsi: rispettivamente, Fabio Panetta- per qualche tempo corteggiato politicamente da Meloni come ministro dell’Economia del suo governo avendolo personalmente conosciuto e apprezzato- e il generale Paolo Francesco Figliuolo. Che Draghi a Palazzo Chigi chiamò per fronteggiare l’emergenza Covid. E al quale ora Meloni ha predisposto un mandato di cinque anni nelle zone alluvionate, coadiuvato dai presidenti regionali interessati.

         Su Panetta ha cercato di mettere una manina anche il solito Matteo Renzi assegnandogli, in un editoriale del suo Riformista, il compito neppure pensato dalla Meloni- credo- e tanto meno da Draghi di restituire alla Banca d’Italia “l’autorevolezza” che le avrebbe fatto perdere il governatore uscente Ignazio Visco, a suo tempo confermato in quel posto contro il parere di un Renzi allora addirittura potentissimo.

         Sul generale Figliuolo ha messo un titolo il quotidiano Libero attribuendogli il “commissariamento” del Pd, che avrebbe preferito  per la ricostruzione il presidente del suo partito e della regione maggiormente colpita, Stefano Bonaccini. Il quale ha invece reagito, non solo nella vignetta di Emilio Giannelli sulla prima pagina del Corriere della Sera, adottando il generale grazie anche a quel nome che porta. Sulla cui uniforme lo spiritoso, e polemico, Marco Travaglio, dandogli peraltro del “generalissimo” come il defunto Franco spagnolo, è riuscito a contare “ventisette nastrini” che rischiano di “zavorrarlo a terra contro le folate di vento”: anche quello che non gli mancherà di soffiare addosso naturalmente, come ai tempi del Covid, Il Fatto Quotidiano di simpatie pentastellari.

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Alla faccia di Matteo Renzi “terza gamba” del governo Meloni

Sorrideteci o rideteci sopra, ma nel loro piccolo i molisani, pur disaffezionati alle urne, con più della metà degli oltre trecentomila mila elettori rimasti a casa, indifferenti al rinnovo del Consiglio regionale, hanno partecipato al vento conservatore che soffia su tutta l’Europa, dal Nord al Sud, dalla Finlandia alla Grecia. Non hanno tradito il centrodestra. Non si sono messi controvento. E hanno fatto fare la stessa misera fine della foto abruzzese di Vasto tanti anni fa, con Niki Vendola, Pier Luigi Bersani e Antonio Di Pietro in allegra posa, a quella in un bar di Campobasso scattata pochi giorni prima del voto a Nicola Fratoianni al posto di Vendola, a Elly Schlein al posto di Bersani e a Giuseppe Conte al posto di Di Pietro attorno al candidato di un presunto centrosinistra aggiornato ai nostri tempi.

         Non so francamente se la conferma del centrodestra, con oltre il 60 per cento dei voti, sia ascrivibile più al rimpianto di Silvio Berlusconi, alla cui memoria Antonio Tajani ha dedicato il successo di Forza Italia e della coalizione, o alla diffidenza verso la compagine opposta, ancora più eterogenea. Tanto eterogenea e improvvisata da non potersi ritrovare fisicamente unita -e non del tutto, come vedremo- oltre un bar, in una qualsiasi piazza o piazzetta molisana.

         Altro che “largo”, come lo aveva deriso dall’interno del Pd il minoritario ex ministro della Difesa e orgogliosamente riformista Lorenzo Guerini, sospettoso della estrema mobilità, o movimentismo, della nuova segretaria del Nazareno. Il campo in Molise è rimasto basso come il nome del suo capoluogo di regione evocato da Guerini. Anzi, è diventato un “camposanto” secondo il fotomontaggio del Riformista che vi ha messo Conte come custode.

         Va detto tuttavia con la dovuta onestà o franchezza che la peggiore figura in quella foto di Campobasso l’ha fatta paradossalmente l’unico assente: l’ormai ex terzopolista Carlo Calenda, schieratosi diversamente dal gemello o fratello-coltello Matteo Renzi col candidato grillino adottato dal Pd della Schlein, il sindaco del capoluogo di regione Roberto Gravina, ma non così convintamente da prendere un cappuccino con gli alleati.

         Ma neppure Renzi, debbo dire, può tanto pavoneggiarsi dell’errore e della sconfitta di Calenda, vista l’incapacità, l’indisponibilità e quant’altro da lui dimostrata anche in questa occasione di essere lo statista cui pure aspira ad assomigliare  per il suo passaggio a Palazzo Chigi, fra il 2014 e il 2016, e per le relazioni internazionali che avrebbe saputo mantenere, anzi sviluppare come conferenziere, quasi un  Tony Blair italiano, se non addirittura un Barak Obama meno abbronzato, direbbe la buonanima di Berlusconi.

         Quando ancora si votava in Molise, dove i suoi uomini avevano strizzato l’occhio al candidato del centrodestra Francesco Roberti destinato a vincere, l’ex presidente del Consiglio ha maramaldeggiato -diciamo così- in una intervista a Repubblica contro la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Della quale egli ha più volte condiviso l’azione in politica estera, schieratissima com’è a favore dell’Ucraina e contro l’invasore russo, ma alla quale non perdona di non essere stata consultata telefonicamente dal presidente americano Joe Biden nelle ore in cui Putin ha rischiato il colpo di Stato del capo dei miliziani della Wagner. Gli è un po’ andato appresso, ahimè, pur perseguendo tutt’altra politica, quella pacifista, il mio amico Piero Sansonetti sulla sua Unità da poco riportata in edicola titolando il giorno dopo in un misto milanista di rosso e nero: “Meloni stravince a Campobasso ma perde a Washington”.  “Meloni isolata”, ha rilanciato dal canto suo Renzi in un editoriale del “suo” Riformista aggiungendo “pessima notizia”, superata però da una telefonata di Biden nel frattempo arrivata anche a Palazzo Chigi con tanto di invito alla premier italiana negli Stati Uniti.

Uno statista -ripeto- quale si considera il senatore toscano, pur al netto delle tante volte in cui preferisce la tattica alla strategia, lo sgambetto alla corsa lineare, non deride ma solidarizza col capo del governo del suo Paese che ha appena subito un torto, quale dovrebbe essere considerato quello infertole dalla Casa Banca escludendola in prima battuta dalle consultazioni con gli europei in un passaggio delicatissimo com’è stato quello della mancata marcia del “macellaio” Evgenij Prigozin su Mosca. Un passaggio, peraltro, durante il quale il caso ha voluto che si trovasse negli Stati Uniti, ospite del Pentagono, il ministro della Difesa italiano Guido Crosetto, mica un sottosegretario o un usciere del dicastero quasi attiguo al Quirinale.

         Non so francamente se si possa considerare più “provinciale” la Meloni, come le ha praticamente dato Renzi, nonostante Domani lo abbia definito “la terza gamba” della premier, o lo stesso Renzi nel dileggiarla per mere ragioni di politica e concorrenza interna, o domestica.  Bisogna stare attenti a giocare con la politica estera, come anche con i referendum. Sono terreni scivolosi entrambi, sui quali è facile rompersi il femore, se non l’osso del collo.

Peggiore ancora del previsto il fiasco di Schlein e Conte in Molise

         Già modesto di suo, trattandosi della regione penultima nella classifica nazionale per popolazione, il test elettorale molisano si è ulteriormente ridotto per una partecipazione alle urne ben al di sotto del 50 per cento, esattamente al 47,9: cinque punti in meno della già bassa affluenza alle analoghe elezioni  di cinque anni fa. In cifra assoluta, sono andati a votare in 157 mila, degli oltre 300 mila chiamati a rinnovare il Consiglio regionale.

         Eppure, nonostante questo primato di disaffezione, il sollievo del centrodestra per la vittoria che gli consente di rimanere alla guida del Molise, sia pure con un governatore- l’ingegnere Francesco Roberti, sindaco di Termoli e presidente della provincia di Campobasso- diverso dall’uscente, Donato Toma, è stato ben superiore alla delusione del candidato sconfitto alla Presidenza. Che è il sindaco grillino di Campobasso Roberto Gravina. “Parte male l’intesa Pd-M5S”, ha dovuto ammettere Repubblica.

         Il più ottimista nel centrodestra, l’eurodeputato forzista Aldo Patriciello, incalzato alla vigilia del voto in una canzonatoria intervista di Antonello Caporale del Fatto Quotidiano, si era spinto a prevedere una vittoria col 55 per cento raccolti dai vari candidati come tante “formichine operose”. Roberti ha superato il 60 per cento. Le formichine evidentemente hanno lavorato molto bene, un po’ aiutate dall’emozione, e conseguente spirito solidale, provocata fra i votanti  dalla morte recente di Silvio Berlusconi. Su cui Antonio Tajani, il vice presidente di Forza Italia, oltre che del Consiglio dei Ministri e ministro degli Esteri, aveva fatto molto affidamento nelle sue presenze sul posto a conclusione della campagna elettorale dedicando in partenza il risultato allo scomparso.

         Ma forse, più ancora del rimpianto di Berlusconi ha giocato a favore del nuovo governatore quella incapacità clamorosamente dimostrata dai leader nazionali del cosiddetto centrosinistra, raccoltosi attorno alla candidatura di Gravina, di ritrovarsi insieme in qualche piazza della regione. Il massimo di unità fisica che hanno potuto raggiungere e mostrare è stato pochi giorni prima del voto in un bar di Campobasso. Dove la segretaria del Pd Elly Schlein, il presidente del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte e Nicola Fratoianni, della sinistra al quadrato, si sono incontrati per bere insieme una limonata, un aperitivo  e un bicchiere d’acqua minerale offerti da Gravina. Non ha avuto il coraggio neppure di affacciarsi l’ex ministro terzopolista Carlo Calenda, impegnato dalla lontana Roma a sostenere pure lui la corsa del sindaco di Campobasso, ma a titolo personale, o di mezzo terzo polo, perché Matteo Renzi non ha voluto essere della partita neppure da lontano.

         “La sinistra è morta” almeno dal 2008, se non già dal 1998, come ha appena detto a Libero uno come Fausto Bertinotti, che l’ha conosciuta e la rimpiange. Ma neppure il cosiddetto centrosinistra se la passa bene, e non solo nel Molise.

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Continua a soffiare forte in Europa il vento dei conservatori

Più s’impiccolisce la testa di Putin, non solo nella vignetta di Emilio Giannelli sul Corriere della Sera, ispirata al mancato colpo di Stato a Mosca, non si capisce ancora bene a quale prezzo preciso, più soffia forte il vento conservatore in Europa, dal Nord al Sud. E’ L’Europa il sui sostegno politico e militare all’Ucraina aggredita dai russi, o post-sovietici, ha contribuito quanto meno a indebolire il capo del Cremlino che si proponeva come l’erede addirittura di Pietro il Grande.

         Dalle elezioni greche ripetute in un mese per sua scelta, e sfida alla sinistra di Alexis Tsipras scesa a un miserevole 17 per cento, il premier conservatore Kiriakos Mitsokatis è uscito con oltre il 40 per cento dei voti e la maggioranza assoluta dei seggi parlamentari. Che gli consente di formare un governo monocolore della sua Nuova Democrazia.

         Curiosamente in Italia la notizia non è stata ignorata soltanto dalla prima pagina del Fatto Quotidiano, dove gli eventi sgraditi o non utili al mondo politico delle 5 Stelle vengono nascosti, ma anche da fior di testate cui un successo dei conservatori dovrebbe invece provocare qualche soddisfazione. Mi riferisco, in particolare, al Giornale ora solo in parte della famiglia Berlusconi, a Libero, alla Verità e al Quotidiano Nazionale del gruppo Monti Riffeser, dove confluiscono in ordine rigorosamente alfabetico Il Giorno, la Nazione e Il Resto del Carlino.

         La Stampa di Torino, che nel gruppo editoriale del nipote del compianto Gianni Agnelli cerca di essere la più sofisticata rispetto a Repubblica e al Secolo XIX, oltre a ignorare la notizia, data invece dalle consorelle o confratelli, ha fatto qualcosa in più: ha voluto guastare, diciamo così, la soddisfazione della premier italiana Giorgia Meloni per la vittoria del suo omologo greco Mitsokatis contestandole il presunto declassamento subito negli Stati Uniti di Joe Biden. Che le avrà pure fatto la cortesia di destinare a Roma un nuovo ambasciatore  entusiasta di lei nel racconto dell’Italia fatto alla competente commissione del Congresso, ma l’ha saltata o dimenticata nelle consultazioni telefoniche di questi giorni sulla situazione della Russia. “Non è una novità: l’Italia -ha scritto con supponenza Alessandro De Angelis nel suo commento richiamato in prima pagina- non ha un gran peso specifico a livello internazionale. E non da oggi. Anche il quarto d’ora di celebrità vissuto con Mario Draghi, era dovuto più dal suo standing personale che a un ritrovato protagonismo. C’è poco da fare: in un mondo a-polare conti se rappresenti qualcosa in termini di problemi da risolvere”.

         L’Italia della Meloni invece “tentenna” e “non si vede”, anche se la premier è convinta del contrario. Anzi, ritiene di dare il meglio di sé proprio a livello internazionale, essendo costretta a livello interno a ingoiare qualche rospo, o a gestire qualche fastidiosa vicenda come quella mediatica e giudiziaria della sua amica, collega di partito e ministra del Turismo Daniela Santanchè.

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Da Mosca a Campobasso, a ciascuno le proprie ansie…

Mentre i russi, ma non solo loro, sono ancora col fiato sospeso per il tentato assalto a Mosca dei miliziani di Prizoghin, in Italia dobbiamo accontentarci, diciamo così, delle attese attorno al primo test elettorale dopo la morte di Silvio Berlusconi, per quanto assai modesto sul piano quantitativo, votandosi oggi e domani in una regione come il Molise. Che è penultima per numero di chiamati alle urne: trecentomila e rotti, di cui 80 mila residenti all’estero. Nell’elenco la segue solo la Valle d’Aosta, peraltro a statuto speciale, con poco più di centoventimila potenziali elettori, non tutti naturalmente accorsi alle urne nelle politiche dell’autunno scorso perché anche lì l’affluenza non è più quella di una volta.

         Il campione molisano agita sia il centrodestra raccoltosi attorno al candidato Francesco Roberti sia il centrosinistra assai potenziale, come al solito, raccoltosi con l’appendice di Carlo Calenda attorno al sindaco grillino di Campobasso Roberto Gravina. Sul quale ha scommesso il Pd di Elly Schlein ma così poco convintamente, o con una tale apprensione da avere sconsigliato sia alla Schlein sia a Giuseppe Conte, presidente delle 5 Stelle, una manifestazione comune, neppure in un remoto villaggio della regione. I due hanno potuto darsi  appuntamento solo in un bar di Campobasso, presente anche Nicola Fratoianni, con tanto di foto che si è prestata immediatamente, nel Pd, all’ironia dell’ex ministro della Difesa, il riformista Lorenzo Guerini. Il quale, precedendo una volta tanto i vignettisti, ha scherzato ma non troppo da Roma con questa battuta: “Non vorrei che dal campo largo si finisse a Campobasso”, appunto. E vi si rimanesse a consumare limonate e simili.  

Questo è in fondo l’epilogo intimamente desiderato da Guerini, già renziano ma rimasto nel Pd anche a costo di trovarsi in minoranza con tutti gli altri superati dalla Schlein nelle primarie finali del congresso aperte e vinte dai non iscritti, e magari votanti di altri partiti nelle politiche e nelle amministrative. Sono le regole del Pd che avevano tenuto lontano dal Nazareno sino alla morte il povero, incredulo Emanuele Macaluso, inutilmente consolato anche al Quirinale dall’amico Giorgio Napolitano che vi lavorava da presidente della Repubblica. E al quale, a proposito, vanno gli auguri per i 98 anni che compirà fra 4 giorni.

Il centrodestra molisano spera di conservare la regione grazie al voto “emotivo”, com’è stato chiamato quello in memoria ormai più di Berlusconi che dell’amministrazione uscente, guidata da un governatore che non è stato nemmeno riproposto. Il centrosinistra stampellato -ripeto- da Calenda, ma non da Renzi, spera semplicemente nel miracolo, visto il carattere della coalizione molto più eterogeneo, o dir poco,, dello schieramento opposto, incapace di andare oltre il bar deriso da Guerini. Ne sapremo di più già domani pomeriggio, quando a Mosca e dintorni probabilmente non saranno ancora chiare le condizioni reali di Putin tradito dai suoi mercenari.

Un temporale estivo sulla Meloni di nome Daniela Santanchè

         Beato il Papa di turno. Che quando può e vuole può consolarsi, e consolare i suoi ospiti, godendosi gli affreschi di Michelangelo nella Cappella Sistina, come ha fatto ieri ricevendovi duecento artisti. Noi dobbiamo accontentarci oggi di goderci, si fa per dire, foto e titoli di molte prime pagine sull’’ultimo temporale rovesciatosi, a quanto pare, su Giorgia Meloni e il suo governo. Esso porta il nome della ministra del Turismo, amica e collega di partito della premier, Daniela Santanchè: “la fiamma del peccato”, secondo la fantasia non so se più erotica o politica del manifesto, con i suoi 62 anni non so dirvi francamente come portati per via dei suoi trucchi mobili o fissati chirurgicamente sul volto.

         La ministra, forse un po’ troppo spavalda anche nei nomi che sceglie per le sue società di affari, come “Visibilia”, è entrata nel mirino di quasi tutte le opposizioni e -quel che è peggio- di una parte della stessa maggioranza di centrodestra, per l’intreccio di due inchieste condotte su di lei: una giudiziaria e una giornalistica, della testata televisiva Report. Della prima, a Milano, si sa tanto poco, e tanto male, che la ministra ne nega l’esistenza minacciando di querelare chiunque ne parli o ne scriva. Della seconda si sa anche troppo. Ma ancor più ne vorrebbero sapere opposizioni e leghisti, forse anche qualcuno di Forza Italia, o reclamandone le dimissioni o chiedendole di riferire lei stessa al Parlamento sull’uso, per esempio, che avrebbe fatto in una sua azienda dei fondi ottenuti per fronteggiare l’emergenza del Covid.

         Per prudenza, quanto meno, non vi dico se e quale idea mi sia fatta della vicenda, fatta eccezione per una suggeritami dai titoli e dai fotomontaggi del solito Fatto Quotidiano. Che fra tutti i giornali è quello che sta cavalcando di più la faccenda, con grande vanto del direttore Marco Travaglio. Il quale ieri sera, collegato col salotto televisivo di Lilly Gruber, su la 7,  per lui ormai di casa, si è vantato della sua scelta irridendo a una collega di Libero che gli aveva appena contestato di occuparsi solo dell’ormai defunto Silvio Berlusconi. No, io ora mi occupo della Santanchè, ha praticamente risposto Travaglio ostentando la prima pagina del Fatto di ieri stesso. Alla quale ne è eseguita oggi una che mi ha indotto a chiedermi -ecco l’idea alla quale accennavo- se la colpa maggiore della Santanchè sia quella di avere abusato della sua Visibilia e simili o di godere dell’amicizia personale e forse anche dei consigli legali del presidente del Senato Ignazio La Russa, seconda carica dello Stato eccetera eccetera.

         Persino l’Unità di Piero Sansonetti, che non si lascia scappare occasione di pizzicare in fallo La Russa,  ha  titolato in sostanziale soccorso suo e della Santanchè: “Leva gli scandali ai giornalisti e che resta? Fango in mano”. Parole, in particolare, di Tiziana Maiolo.

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Il pasticciaccio del Mes riabilita a sorpresa il laticlavio di Mario Monti

Anche se non va più di moda come quando cronisti e fotografi lo inseguivano per le strade di Roma come presidente del Consiglio, si può ben dare ragione all’indignazione espressa oggi sul Corriere della Sera dal senatore a vita Mario Monti per il modo in cui si sta giocando in Parlamento, in particolare alla Camera, la partita del Mes. Che non è una marca di sigarette ma l’acronimo di un trattato europeo per il salvataggio dei Paesi dell’Unione in difficoltà, bloccato dalla mancata ratifica da parte dell’Italia. Dove il governo di centrodestra, o di destra-centro, secondo le preferenze, è diviso tra chi lo valuta positivamente, come il ministro leghista dell’Economia Giancarlo Giorgetti, e chi, come il capo del suo partito Matteo Salvini, lo considera un pessimo affare. In mezzo sta la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, efficacemente rappresentata nella vignetta odierna di Emilio Giannelli sullo stesso Corriere come tentata dalle ragioni del suo ministro ma trattenuta dalla paura di precipitare nel vuoto con un paracadute fasullo, che non s’apre al momento giusto.

         In attesa della Meloni -decisionista in tante cose ma attendista in questa, furbescamente tentata di fare della ratifica una materia di scambio nell’Unione Europea per ottenere qualche concessione in un cambiamento delle regole interne per la cosiddetta stabilità- un parere favorevole è stato votato in commissione dalle opposizioni, con l’astensione dei grillini e in assenza della maggioranza, cioè con la sua “diserzione”, come ha titolato correttamente Il Giornale.

         Mario Monti, per tornare a lui, il cui laticlavio forse si è finalmente meritato l’apprezzamento anche del costituzionalista ed ex parlamentare Paolo Armaroli che ne ha scritto di recente in un libro come di un “abuso”; Mario Monti, dicevo, ha denunciato come “indecente” lo spettacolo politico in corso sul Mes ed ha riproposto una sua “via d’uscita”. Che è un po’ come l’uovo di Colombo. Eccola: “Si adotti una linea pragmatica. Si lasci a ciascuno la possibilità di tenersi le proprie convinzioni, siano esse millenaristiche, apocalittiche o agnostiche. In ogni caso la salvezza o la dannazione, per chi ci crede, potrà dipendere dall’uso che eventualmente il governo italiano potrebbe fare, in futuro, degli strumenti previsti dal Mes, non dalla ratifica in sé”. Che infatti non comporta l’obbligo di usare il cosiddetto fondo salva Stati se si continuerà a considerarlo non utile, o addirittura dannoso, e se non interverrà un’apposita autorizzazione parlamentare.

         Una soluzione del genere eviterebbe, fra l’altro, il rischio denunciato -francamente non so con quanta convinzione- dal Foglio di un “tragico Giorgetti ossessionato dal debito, delegittimato da Meloni “e pronto a dimettersi facendo cadere il governo. Ma, a quel punto, non solo il governo perché i sì e le astensioni sul Mes espressi in commissione alla Camera non potrebbero produrre un nuovo governo, neppure se ripresieduto da Monti stavolta in costume da bagno, essendo i suoi storici loden decisamente fuori stagione.

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La poltrona rovente di Licia Ronzulli in Forza Italia dopo la morte di Berlusconi

Per fortuna la politica, almeno quella buona, degna davvero di questo nome, non è o non dovrebbe essere un processo indiziario, riservato ai tribunali con tutti gli inconvenienti ch’esso ha a scapito della certezza dei fatti e delle relative sentenze, non a caso suscettibili di clamorosi rovesciamenti nei vari gradi di giudizio.

         Se fossimo in un processo indiziario, la presidente del gruppo forzista del Senato Licia Ronzulli potrebbe avere commesso un errore di eccesso di difesa, opposto ma simile negli effetti al famoso proverbio latino sulla scusa non richiesta equivalente ad un’accusa manifesta, con una dichiarazione attribuitale dal Corriere della Sera dopo l’incidente occorso al governo nella commissione Bilancio di Palazzo Madama. Dove le assenze dei senatori, appunto, di Forza Italia trattenutisi in una festicciola di compleanno rivelata con un certo imbarazzo dal presidente dello stesso Senato, Ignazio La Russa, ha fatto pareggiare i conti fra maggioranza e opposizione sul parere richiesto per alcuni emendamenti al decreto legge sul governo provocandone la formale bocciatura. Cui si è poi rimediato, ma dopo un incendio acceso dalle prevedibili reazioni di esasperata convenienza delle opposizioni piddina e grillina.

         “Comprendiamo il dramma delle opposizioni a corto di argomenti, ma qui non si azzardino a fare dietrologie”, ha detto in particolare la Ronzulli. Che così pronunciandosi, salvo errori del Corriere -ripeto- che ne ha riportato le parole, ha però finito per sottolineare il sospetto girato per tutto il giorno fra i corridoi, quanto meno, del Senato a proposito di tensioni all’interno del partito del defunto Silvio Berlusconi sulla sua successione, di fatto già caduta sulle spalle del vice dello stesso Berlusconi, oltre che vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri Antonio Tajani. Una somma di incarichi, questa, che già quando viveva Berlusconi era stata lamentata tra i forzisti, il più esplicito dei quali era stato il vice presidente della Camera Giorgio Mulè. Ma si era detto e scritto, a torto o a ragione, che dello stesso malumore fosse pure la capogruppo al Senato Ronzulli, appunto, allora in piena sintonia con Berlusconi, prima che questi disponesse o preparasse cambiamenti nel partito per rendere più esplicita e forte la convergenza politica con la presidente del Consiglio, turbata nella fase di avvio della sua esperienza a Palazzo Chigi. Allora vi era stato il rifiuto della Meloni di nominare ministra anche o soprattutto la Ronzulli.

         Antonio Tajani, che è un po’ piacione anche per indole personale, simile pure in questo al Berlusconi dichiaratamente pronto a farsi concavo e convesso -ricordate ?-secondo le opportunità o necessità del momento, è stato il primo a buttare acqua sul fuoco acceso dalle assenze festaiole dei senatori del suo partito al momento del voto in commissione per il parere sugli emendamenti del relatore di maggioranza al decreto legge sul lavoro. Un incidente irrilevante, ha commentato il vice presidente del Consiglio dando per interamente casuale il ritardo dei colleghi di partito in commissione, per quanto al Senato la vigilanza della maggioranza dovrebbe essere doppia per i margini ridotti rispetto al complesso delle opposizioni e per la imprudente decisione presa, a suo tempo, di affollare di senatori e relativi impegni -fra ministri, vice ministri e sottosegretari- la componente parlamentare della compagine di governo.

Ma anche il piacione, piacionissimo Tajani, peraltro scontratosi a distanza con uno sfidante senatore Claudio Lotito, uno degli assenti in commissione, sarebbe costretto a qualche diffidenza, e a una conseguente difesa, se dovesse tornare ad avere problemi come quelli dell’altro ieri nella prosecuzione del suo lavoro di partito e di governo. E aumenterebbero di conseguenza anche i problemi della Ronzulli alla testa di un gruppo dov’è rimasta nonostante i cambiamenti voluti da Berlusconi negli ultimi mesi e persino giorni di vita per una Forza Italia solidissima “spina dorsale” del governo Meloni.

Pubblicato sul Dubbio

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