Alessandra Mussolini ritrova il nonno nella Lega di Matteo Salvini

            Per fortuna del marito e di Elisa Isoardi, è tutta e soltanto politica l’attrazione di Alessandra Mussolini per Matteo Salvini. In difesa del quale la nipote del Duce, dichiaratamente e orgogliosamente “strapopulista”, ha lasciato Forza Italia considerandola ormai una mezza succursale del Pd a trazione ancora renziana, pur guidato formalmente, e per il momento, da Maurizio Martina.

            Per la Mussolini, momentaneamente europarlamentare ma decisa -come ha appena detto in una intervista a la Verità– a fare dopo la fine del mandato a Strasburgo “cose che voi umani non potete nemmeno immaginare”, Silvio Berlusconi ha contestato la designazione leghista di Marcello Foa a presidente della Rai solo per il gusto, diciamo così, di far votare i suoi nella commissione parlamentare di vigilanza allo stesso modo del Pd. Così come, dopo le elezioni di marzo, Berlusconi avrebbe preferito schierare il centrodestra con quel partito, e non con i grillini, come ha invece voluto Salvini strappandogli comunque una mezza autorizzazione.

            Il Pd -sempre parola di Alessandra Mussolini- è “un partito già morto e sepolto”, a dispetto della “respirazione bocca a bocca”  praticatagli da Berluscolni e del suo vice Antonio Tajani, il cui impegno nella politica italiana ne indebolisce il ruolo di presidente del Parlamento Europeo.

            Sarà stata una coincidenza, per carità, ma la pazienza della Mussolini nelle fila del partito berlusconiano, dopo due mesi di governo gialloverde, o gialloblu, perché neppure il colore della Lega appare più sicuro, è finita quando Salvini ha ripetuto, in polemica con quanti ne contestano l’azione come vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno, il motto adottato dal fascismo dei “tanti nemici tanto onore”, o giù di lì.

            E’ stato a questo punto che la nipote è sbottata, ha telefonato e scritto alla segreteria di Berlusconi per annunciare il commiato, ed è corsa sulla tomba di suo nonno con devozione familiare e politica. Ora tutto è davvero ricomposto, nella testa almeno di Gad Lerner, che ha commentato l’accaduto tornando a liquidare con più convinzione quello di Salvini come “fascioleghismo”.  

Come si assomigliano Renzi e Salvini nei rapporti con Berlusconi…

Specie se combinati con Silvio Berlusconi, che peraltro ha l’età per essere padre di entrambi, i due Mattei della politica italiana -Renzi e Salvini, in ordine rigorosamente alfabetico- si assomigliano. O sono molto meno diversi di quanto non si considerino, o non vogliano far credere, magari offendendosi se qualcuno si azzarda a farlo notare. A dimostrarlo sono i fatti del 2015 e di questo torrido 2018.

Tre anni fa Renzi, presidente del Consiglio e segretario del Pd, aveva con l’oppositore Berlusconi un rapporto molto particolare, nato con il cosiddetto patto del Nazareno. Che non consentiva a Renzi di poter contare sulla fiducia di Forza Italia nelle aule parlamentari quando vi arrivavano i provvedimenti ordinari del governo. Ma gli permetteva di contarvi sulle riforme istituzionali, che costituivano la polpa, l’obiettivo principale della legislatura, reclamato con forza da Giorgio Napolitano due anni prima nel momento della rielezione al Quirinale: la prima nella storia repubblicana d’Italia, forse destinata a rivelarsi anche l’unica.

Quando Napolitano, un po’ meno di due anni dopo si arrese alla stanchezza fisica, o avvertì -come sospettarono i più maliziosi- le prime delusioni o preoccupazioni procurategli dal giovane presidente del Consiglio, e si dimise riaprendo il problema della successione al vertice dello Stato, Renzi fece a Berlusconi il torto, umano e politico, di non coinvolgerlo nella scelta del candidato.

Al rapporto con l’uomo di Arcore egli preferì quello con la l’irrequieta minoranza del Pd scegliendo per il Quirinale l’allora giudice costituzionale Sergio Mattarella e sottolineandone “la schiena dritta” dimostrata nel pur lontano 1990, quando si era dimesso da ministro con i colleghi della sinistra democristiana per protesta contro la legge che riformava il sistema televisivo e regolarizzava le tre reti berlusconiane del Biscione.

Berlusconi, resistendo alla tentazione di rinfacciare al prescelto quel precedente certamente non gradito, mantenne la sua protesta sui piani alti del “metodo”, cioè del vizio di forma costituito dal rifiuto di Renzi di concordare con l’opposizione, e con la sua in particolare, che aveva in comune con la maggioranza l’obiettivo delle riforme istituzionali, una figura di così evidente e vitale garanzia come il capo dello Stato. Che l’allora presidente del Consiglio e segretario del Pd preferì non a caso fare eleggere alla quarta votazione, quando bastava la maggioranza assoluta, e non più quella dei due terzi. Glielo avrebbe poi rinfacciato in televisione il vecchio Ciriaco De Mita, pur amico ed estimatore  di Mattarella.

Seguirono a quella scelta il ritiro di Berlusconi dal percorso concordato delle riforme elettorale e soprattutto costituzionale. Quest’ultima, approvata dal Parlamento col minimo della maggioranza richiesta, quella assoluta, imboccò il calvario del referendum confernativo. Sulla cui strada si coalizzarono opposizioni e minoranza del Pd. Renzi perse rovinosamente prima il referendum e poi, da segretario soltanto del Pd, anche le elezioni politiche: quelle del 4 marzo scorso, a vantaggio soprattutto dei grillini.

Forse non ha torto Renzi a lamentare il rifiuto oppostogli da Mattarella alle elezioni anticipate tra la primavera e l’autunno dell’anno passato, che avrebbero potuto logorare di meno tanto lui quanto il Pd. Ma non hanno torto neppure quelli che, pur apprezzando -per carità- il presidente della Repubblica felicemente in carica, rimproverano a Renzi la gestione della successione a Napolitano e la rottura del patto del Nazareno sulle riforme.

Veniamo adesso all’altro Matteo e ai giorni nostri. Il segretario leghista Salvini è paradossalmente allo stesso tempo vice presidente del Consiglio in un governo con i grillini e, avendo sorpassato nelle elezioni di marzo Forza Italia, leader della coalizione di centrodestra. Berlusconi è, sempre paradossalmente, oppositore di Salvini al governo e suo alleato effettivo a livello locale e ancora potenziale a livello nazionale, se si dovesse tornare a votare, non essendo stato il centrodestra sciolto.

Ai perduranti vincoli con l’alleato di Arcore Salvini fino alla scorsa settimana non si è mai sottratto, ostentando anzi i suoi incontri con lui, consultandolo, informandolo e quant’altro, senza che i grillini del resto abbiano mai protestato o mostrato disagio più di tanto. E persino assecondandolo anche dopo l’avvio della legislatura e l’assegnazione della presidenza del Senato ad una berlusconiana, prima che si formasse il governo grigioverde. I grillini hanno appena ingoiato, per esempio, il rospo di un berlusconiano alla presidenza della commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai.

Con uno scarto, o uno scatto, che non so francamente se definire più politico o caratteriale, e a dispetto dei vantaggi bene o male goduti in circa due mesi di governo alzando il proprio potere contrattuale con i grillini grazie alla paradossale -ripeto- sopravvivenza dell’alleanza di centrodestra con Berlusconi, il leader leghista ha scelto praticamente da solo, con delega grillina, pur nel mazzo di un ambiente giornalistico non certo ostile a Forza Italia, il candidato alla presidenza della Rai. Che è Marcello Foa, con un passato nel Giornale della famiglia Berlusconi, ma anche frequentatore per qualche tempo del blog di Beppe Grillo e osservatore, diciamo così, assai critico del Quirinale in epoca tanto recente da non essere stata dimenticata sul colle più alto di Roma.

Come per Mattarella nel 2015, così oggi per Foa, designato da altri alla carica di “garanzia” di presidente della Rai, per la cui convalida è necessaria non a caso la maggioranza dei due terzi della commissione bicamerale di vigilanza, Berlusconi ha sollevato un problema di metodo, o una questione di forma. Egli ha cioè protestato per non avere potuto concorrere, né come oppositore del governo né come alleato tuttora di Salvini, ad una scelta così importante: di garanzia nella gestione dell’azienda radiotelevisiva di Stato.

Da questione di metodo il problema è diventato politico per decisione dello stesso Salvini, che per tutta risposta ha praticamente sfidato Berlusconi a far votare i suoi nella commissione parlamentare contro Foa “col Pd”. Che significa, nella logica del leader leghista, mettersi col diavolo, quale il Pd sarebbe rimasto, probabilmente per la perdurante influenza di Renzi al suo interno.

Così diversi, dicevo all’inizio, eppure così uguali o simili i due Mattei della politica italiana. Si vedrà con quali effetti sugli equilibri politici del Paese, con tutti i problemi che si accumulano un po’ toppo confusamente sul governo e col presidente del Consiglio negli Stati Uniti per ingraziarsi, a suo modo, come è capitato a tutti i suoi predecessori, della prima e della seconda Repubblica, l’inquilino di turno della Casa Bianca.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

Il centrodestra cade da cavallo per la presidenza della Rai

            Come nel 2015 con Matteo Renzi, di cui era ad un tempo oppositore, negandogli la fiducia come presidente del Consiglio ma assecondandone ancora come segretario del Pd gli obiettivi di riforma della Costituzione e della legge elettorale, così oggi con l’altro Matteo, cioè Salvini, di cui è oppositore a Roma perché vice presidente di un governo concordato con i grillini  e ancora alleato di centrodestra a un livello solo formalmente locale, non avendo mai il leader leghista rinnegato l’appartenenza a questo schieramento a livello nazionale, Silvio Berlusconi ha sollevato una questione di metodo per scompaginare il quadro politico.

            Tre anni fa l’uomo di Arcore rivendicò il diritto di concorrere dall’opposizione all’elezione del successore di Giorgio Napolitano al Quirinale per la natura di garanzia della figura del presidente della Repubblica. E contestò a Renzi di avere candidato l’allora giudice costituzionale Sergio Mattarella senza neppure consultarlo, premendogli accontentare più la minoranza di sinistra del suo partito, il Pd, che il partito di opposizione del cui appoggio aveva pur bisogno per approvare le riforme istituzionali in cantiere, con la maggioranza parlamentare necessaria a metterle al sicuro dal passaggio referendario.

            In più, a dire il vero, c’era l’aggravante -tuttavia ignorata nella polemica da Berlusconi -del ruolo politico svolto in passato contro la stabilizzazione legislativa delle televisioni Fininvest, poi Mediaset, da Mattarella. Che per protesta contro la legge che regolarizzava le tre reti del Biscione si dimise con i colleghi di sinistra dell’allora Dc da ministro della Pubblica Istruzione.  “Schiena dritta”, ricordò Renzi tre anni fa provocando ulteriormente Berlusconi.

            Sulla candidatura al Quirinale e poi sull’elezione di Mattarella, avvenuta allo scrutinio nel quale gli bastava la maggioranza assoluta del Parlamento, e non quella dei due terzi, si consumò quindi  fra Renzi e Berlusconi una rottura destinata, eccome, a sconvolgere gli equilibri politici dell’epoca. Renzi realizzò senza i voti di Forza Italia una riforma costituzionale destinata alla bocciatura referendaria e alla caduta del suo governo. E la legislatura proseguì con altre complicazioni che costarono al Pd rimasto nelle mani di Renzi anche la cocente sconfitta elettorale del 4 marzo scorso, a vantaggio soprattutto dei grillini.

            Ora la carica di garanzia che Berlusconi ha usato nello scontro col governo, ma più in particolare, col suo alleato dei giorni o delle ore dispari Salvini, è la presidenza della Rai. Alla quale il governo ha designato il giornalista Marcello Foa su indicazione, appunto, di Salvini destinando a un uomo indicato dai grillini la carica di amministratore delegato dell’azienda.  

            Per quanto Foa provenga dal Giornale della sua famiglia, cui è peraltro rimasto in qualche modo  legato anche dopo avere assunto la guida del gruppo editoriale svizzero del Corriere del Ticino, Berlusconi non ha gradito. E ha messo quanto meno nel congelatore i sette voti forzisti della commissione parlamentare di vigilanza, fra i quali quello del presidente della stessa commissione, necessari per garantire il cavallo della Rai di viale Mazzini a Foa. Il cui percorso è stato complicato anche da uno recente attacco, durante la gestione della crisi di governo, a Mattarella: circostanza che il Pd non più di Renzi ma pur sempre da lui condizionato ha deciso di usare nella offensiva scatenata, parallelamente a Berlusconi, contro il presidente della Rai designato dal governo.

            Contemporaneamente, e sempre su questo tema, si è aperta all’interno della maggioranza gialloverde una partita che aumenta le difficoltà di Salvini. Al quale i grillini, togliendosi dalle scarpe i sassolini dei frequenti, sistemici incontri con Berlusconi a tutela dell’alleanza elettorale del centrodestra formalmente mai dismessa, hanno praticamente lanciato la sfida di risolversi da solo il problema Foa e, più in generale, della Rai. Dove anche l’ipotesi di una trattativa suppletiva per scambiare con qualche direzione di telegiornale i voti dei forzisti alla convalida di una presidenza Foa fatica a decollare per il danno d’immagine che essa potrebbe comunque procurare al partito di Berlusconi. Che rischierebbe di coinvolgersi da solo nell’ennesimo gioco di lottizzazione denunciato a parole di fronte ai negoziati che sui nuovi assetti dell’ente radiotelevisivo di Stato si sono svolti fra grillini e leghisti  ancor meno dietro le quinte che in passato, ai tempi della prima e della seconda Repubblica.

            Già in difficoltà col proprio elettorato per il decreto legge voluto dai grillini contro i contratti a termine, e per le grandi opere contestate o frenate dal Movimento delle 5 Stelle, a Salvini potrebbero non bastare i vantaggi che ha sicuramente acquisito nella gestione dura degli sbarchi e, più in generale, degli immigrati per garantirsi da una rottura di quel che resta del centrodestra, per giunta a sua “trazione”, avendo lui sorpassato elettoralmente a marzo Forza Italia.

            Il leader leghista ostenta sicurezza, sino a vantarsi mussolinianamente dei tanti nemici che lo combattono, e a sfidare i forzisti a votare nella commissione di vigilanza sulla Rai con il Pd, ma rischia sul terreno accidentato del doppio rapporto con Berlusconi e con Luigi di Maio di ripercorrere l’esperienza di Renzi nel 2015 e anni successivi.

           I due Mattei sono paradossalmente più simili, o meno diversi, delle apparenze. E Salvini sta guastando al presidente del Consiglio Giuseppe Conte la festa del viaggio reclamizzatissimo negli Stati Uniti. Che già a Renzi nel 2016, invitato dal predecessore di Trump ormai agli ultimi giorni del mandato, non portò grande fortuna.

Marco Travaglio ha santificato, a modo suo, il povero Sergio Marchionne

            Continua la “guerra” del Fatto Quotidiano di Marco Travaglio all’ormai defunto ex amministratore delegato di FCA Sergio Marchionne.

            E’ stata avviata da quelle parti una pratica di santificazione, naturalmente sarcastica, di Marchionne affidata per adesso al vignettista Riccardo Mannelli. Che ha già prodotto una specie di “santino” di denuncia della “clava” che il per niente compianto manager e industriale usava nascondere sotto il pullover.

            Il “santino” è stato pubblicato, anzi esposto sulla prima pagina del quotidiano per le pratiche domenicali del pubblico fedele.

Il Corriere della Sera tentato dall’opposizione al governo del Conte

             Per un po’ di tempo contenuta negli interventi critici del vecchio giurista e giudice emerito della Corte Costituzionale Sabino Cassese, reduce da una polemica con Beppe Grillo in cui ha appena rimediato l’insulto di “istruito stupido” per avere osato difendere la democrazia rappresentativa, sta crescendo la voglia di opposizione al nuovo governo nel Corriere della Sera. Che, pur nel contesto della crisi della carta stampata, rimane il giornale italiano più diffuso e autorevole.

            Il direttore Luciano Fontana in persona è intervenuto con un editoriale per segnalare “il bivio” al quale è arrivato il governo gialloverde di Giuseppe Conte e avvertire “il grido d’allarme che cresce” nei suoi riguardi.

           Schermata 2018-07-29 alle 07.18.44.jpg “L’Italia -ha scritto Fontana commentando gli effetti delle scelte, o non scelte, ogni giorno annunciate o minacciate dal governo di grillini e leghisti- si chiude al mondo, non rispetta gli impegni, rinuncia alle sfide della competitività nel mercato globale, ostacola chi il lavoro lo crea”. E mostra di preferire la strada dell’aumento del deficit ad un ridimensionamento delle troppo ambiziose promesse elettorali fatte dai due partiti che compongono l’esecutivo del cosiddetto cambiamento.

            “E’ necessario -conclude il direttore del maggiore giornale italiano viaggiando tra Tav,  Tap, Ilva e  altre sigle che stanno dominando il dibattito politico sul sentiero della decrescita felice sostenuta dai grillini- un chiarimento rapido prima che sia troppo tardi”.

           Aldo Grasso.jpg Sulla stessa prima pagina del Corriere della Sera si trova la rubrica domenicale “Padiglione Italia” di Aldo Grasso dedicata tutta intera a un sarcastico “Toni-no”, soprannome del ministro grillino delle Infrastrutture Danilo Toninelli.  Che fra un no e l’altro alle grandi opere, magari camuffati con la necessità di rivederne conti, tracciati e quant’altro, ha trovato il tempo per fare col collega di partito e di governo Luigi Di Maio una specie di missione punitiva contro l’airbus affittato dall’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi. Di cui è stata decisa “la rottamazione”, comprensiva dell’”appartamento con doccia presidenziale”, come lo ha chiamato Di Maio in una intervista allo stesso Corriere della Sera attribuendone il progetto allo stesso Renzi, prima della caduta del suo governo. Giustizia, insomma, è stata fatta, come con i tagli ai vitalizi degli ex deputati, in attesa di quelli agli ex senatori su cui la presidente forzista di Palazzo Madama ha preferito procedere con andatura e forse anche contenuti diversi.

            Poi dovrebbero arrivare le tosature delle cosiddette, molto cosiddette pensioni d’oro. Che nelle dichiarazioni programmatiche del presidente del Consiglio, approvate con la fiducia al governo, furono indicate dai 5000 euro netti in su al mese. Ma che il vice presidente grillino del Consiglio Di Maio ha sbrigativamente deciso di abbassare a 4000 per disporre di una “platea” più consistente di pecore, appunto, da tosare per ricavare qualche centinaio di milioni di euro in più, pari allo zero zero virgola non so quanto del bilancio. Destinati nelle intenzioni di Di Maio ad aumentare dello zero virgola non so quanto le pensioni minime, ma forse ancor prima ad alimentare, sempre in piccolissima parte, il fondo per penali e affini che matureranno con la rottamazione o i ritardi delle grandi opere infrastrutturali di competenza del “Toni-no”.        

L’inquietante processo alla memoria, e alle spalle, di Sergio Marchionne

            Continua, ahimè, un curioso processo a Sergio Marchionne dopo la morte a Zurigo. Se ne sta occupando la Consob, l’Autorità di controllo sulla Borsa, per le fluttuazioni dei titoli della FCA verificatisi nei suoi ultimi giorni di vita, quando i vertici del gruppo dichiararono di avere appreso delle sue terminali condizioni di salute e provveduto alla sostituzione come amministratore delegato, senza aspettarne la morte.

            La verifica, come si chiama eufemisticamente l’indagine avviata dalla Consob, riguarda in pratica l’attendibilità della sorpresa manifestata dal gruppo automobilistico di fronte alla notizia diffusa dall’ospedale universitario di Zurigo che Marchionne fosse in cura “da oltre un anno per una grave malattia”. Che pertanto l’amministratore delegato avrebbe nascosto al gruppo, con la complicità della sua compagna di vita Manuela Battezzato, dipendente anch’essa di FCA.

            Si deve essere creato un clima di preoccupazione, temendo chissà quali problemi, in quello che fu l’entourage aziendale di Marchionne se il suo fidato Alfredo Altavilla, peraltro dimessosi da responsabile del gruppo per l’Europa, si è affrettato a precisare di non avere mai saputo neppure lui delle “gravi condizioni” dell’amico e superiore.

            pullvoer.jpgIntanto c’è chi fa, sempre dopo la morte, le pulci ai conti di Marchionne contestandone il vanto di avere azzerato i debiti del gruppo. Il Fatto Quotidiano gli ha contestato in apertura della prima pagina di avere invece lasciato debiti ancora per 16 miliardi di euro. E lo ha soprannominato in morte “Mister Pullover”: quello, di pullover, che sempre il quotidiano diretto da Marco Travaglio ha fatto sventolare a mezz’asta in una vignetta, alla notizia della morte, con uno spirito meglio decifrabile -e più esecrabile- alla luce dello scoop appena vantato sulla effettiva eredità lasciata alla FCA dal suo ex amministratore delegato. E’ la stampa, bellezza, avranno forse voglia di dire da quelle parti scimmiottando l’Humphrey Bogart di Casablanca.

Le previsioni di “Atlante” Giorgetti sull’autunno del governo gialloverde

            Sul governo e sulla sua maggioranza già in affanni per conto loro, con leghisti e grillini che ogni giorno riescono a trovare qualcosa su cui dividersi, anche sul terreno sempre scivoloso delle nomine, dove il fenomeno delle lottizzazioni si sta prendendo le sue più urticanti rivincite su chi aveva promesso di eliminarlo, è caduto tramite il Corriere della Sera un grave monito del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti. Sulla cui scrivania a Palazzo Chigi passano tutti i dossier prima di arrivare, quando vi arrivano, al presidente Giuseppe Conte.

            richiamo Giorgetti.jpgI leghisti, suoi compagni di partito, chiamano “Atlante”, per il peso che grava sulle sue spalle,  l’uomo che Matteo Salvini ha voluto in quella postazione chiave del governo, fidandosene al cento per cento.  Ebbene, salvo smentite, il sottosegretario del Carroccio va avvertendo in questi giorni nelle stanze dove si cercano i soliti compromessi sulle altrettanto solite beghe di potere e di contratto, come viene chiamato il documento programmatico concordato con i grillini, che “tra fine agosto e inizio settembre i mercati si metteranno a bombardare”. Le virgolette sono quelle usate da Francesco Verderami, come se gli fosse capitato di ascoltare quelle parole con le proprie orecchie.

              “Facciamoci trovare pronti”, consiglia evangelicamente Giorgetti guardando il Crocifisso ora caro ai legisti e pensando alla ineludibile legge di stabilità, ex finanziaria. Che  sarà per questo governo ancor più che per quelli precedenti come il pettine per i nodi dei capelli.

            L’immagine che il Corriere ha attribuito a Giorgetti è quella dell’”ombrello”, da tenere a portata di mano per proteggersi dalla pioggia, direi dal temporale in arrivo perché “quanto è accaduto in passato accadrà anche a noi”. Intanto però leghisti e grillini usano l’onbrello per colpirsi a vicenda, preoccupati di dimostrare ai propri elettori chi ce l’ha più duro, il manico.

 

 

Ripreso da http://www.smartmag.it

Alla caccia degli untori dei nostri giorni, sulle tracce indicate al Quirinale

Mi sono chiesto, sentendo il presidente della Repubblica alla televisione nella cerimonia del ventaglio della stampa parlamentare al Quirinale, chi possano essere oggi gli untori che gli hanno fatto tornare alla mente quelli della peste di Milano descritti nei Promessi Sposi da Alessandro Manzoni. Quegli untori -ha ricordato Sergio Mattarella rileggendo il più bel romanzo italiano- fecero degradare a tal punto il “senso comune” da fare nascondere dietro la paura il “buon senso”.

Mi è venuto fuori un elenco desolante di uomini e partiti che non affollano purtroppo l’opposizione ma la maggioranza di governo, per cui mi sento un po’ circondato da una peste politica e sociale  di cui molti forse neppure si rendono conto, tanto sono immersi nella indifferenza giustamente odiata da Antonio Gramsci nel lontano 1917.  L’Italia era ancora insanguinata dalla prima guerra mondiale e già si avviava, inconsapevole, verso i drammi della vittoria mutilata e del fascismo.

Avverto come untori dei nostri disgraziati tempi i cultori e i praticanti dell’antipolitica: sia quelli che per disprezzo, stanchezza o indifferenza, appunto, disertano le urne sia quelli che vi accorrono per scommettere su chi è convinto che i partiti non servano più. O addirittura nuocciano al Paese. O su chi non vede l’ora che passino i pochi lustri ancora assegnati, bontà sua, da Davide Casaleggio al Parlamento, superato dall’avanzante democrazia digitale.

Avverto come untori quelli che liquidano come “privilegi rubati” i diritti legittimamente acquisiti e ne salutano l’abolizione, spesso pressocché totale, non rammaricandosi di un sacrificio imposto dalle mutate condizioni economiche ma compiacendosi dei danni comunque arrecati ai presunti grassatori e nemici del popolo.  Danni peraltro mai abbastanza compensati dai vantaggi promessi ai meno abbienti, viste le risorse pur sempre limitate che si presume di liberare con la terapia dei tagli e delle mutilazioni.

Avverto come untori quelli che non hanno pietà degli avversari neppure dopo la morte, come ho visto appena accadere attorno al povero Sergio Marchionne.

Avverto come untori quelli che continuano a scambiare gli avvisi di garanzia, a dispetto della loro stessa definizione, per condanne definitive, e non solo per rinvii a giudizio o condanne impugnabili.

Avverto come untori quelli che scambiano i concorrenti per nemici e, non sapendo più come combatterli,  ne storpiano i nomi e le biografie.

Avverto come untori quelli che vedono “la pacchia”  in un soccorso in mare ai migranti e ne annunciano trionfanti la fine, conoscendone peraltro bene il costo.

Avverto come untori i moralisti che disprezzano le lottizzazioni altrui e pretendono che vengano scambiate le loro per limpidi concorsi al merito.

Avverto come untori quelli che scambiano le opposizioni per lobby e considerano legittimi solo gli interessi degli amici, o delle loro clientele elettorali che vivono prevalentemente di risentimenti e rabbia.

Avverto come untori quelli che indicano nelle grandi opere solo occasioni di corruzione e di sperpero. E le selezionano con criteri non economici o sociali ma di orgoglio di parte, per cui -per esempio- la Tav, per stare alle cronache di questi giorni, può essere abbandonata, anche a costo di una crisi di governo e di penali per miliardi di euro, e la Tap no.

Avverto come untori quelli che un giorno annunciano il proposito di mandare davanti alla Corte Costituzionale per tradimento il capo dello Stato e il giorno dopo vanno a baciargli la pantofola.

Avverto come untori quelli che considerano intercambiabili in una trattativa di governo partiti fra di loro alternativi.

L’elenco potrebbe continuare. E la peste dei nostri giorni essere chiamata in mille modi. Ma mi fermo qui. E mi consolo all’idea che ogni tanto qualcuno di buona volontà, di buone letture e di “buon senso”  riesca a trovare il tempo, la voglia e -coi tempi che corrono- anche il coraggio di suonare l’allarme e di farci riflettere. O se, preferite, di smuoverci dall’indifferenza. Grazie, signor presidente della Repubblica. A presto, spero.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

L’ultimo torto a Marchionne quella precisazione di FCA sulla sua salute

            Questo, poi, Sergio Marchionne non se lo meritava. Mi riferisco al comunicato col quale l’azienda da lui salvata e rigenerata in vita ha voluto precisare di non essere mai stata messa al corrente delle cattive condizioni di salute del suo amministratore delegato, da oltre un anno alla morte, comunicate dall’ospedale universitario di Zurigo.

            Mi chiedo che bisogno avesse il gruppo FCA di una simile precisazione, utile a questo punto solo ad accusare il pur compianto Marchionne di avergli nascosto, sia pure legittimamente, le cure alle quali era sottoposto per quella che l’ospedale svizzero ha definito una grave malattia. E utile, quella precisazione, anche a dare, volente o nolente, un odioso sapore di rivalsa alla rapidità con la quale, una volta appresa la realtà, si è proceduto alla sostituzione di Marchionne senza attenderne la pur vicina, imminente morte.

           

           

Quella benedetta caccia agli untori suggerita da Sergio Mattarella

            Il presidente della Repubblica  Sergio Mattarella farà fatica ad usare il ventaglio offertogli al Quirinale, peraltro ben dotato di aria condizionata, come la Camera e il Senato, in vista della solita pausa estiva della politica. Che spesso peraltro è pausa solo di nome perché i problemi sono ben più forti del calendario e le polemiche non vanno mai in ferie.

            Il ventaglio dei giornalisti parlamentari, del resto, non serve ormai a rifrescarsi. Serve, più proficuamente, a chi lo riceve stando ai vertici delle istituzioni per fare il punto della situazione, esprimere auspici e lanciare moniti. Mattarella ha ben colto l’occasione per riproporre il passaggio dei Promessi Sposi in cui Alessandro Manzoni, raccontando della peste a Milano di quattro secoli fa e degli untori che ne moltiplicavano portata ed effetti, lamenta “il buon senso nascosto per paura del senso comune”.

            Ben detto, presidente. Il “senso comune” dei nostri giorni, dominati da populismo, sovranismo, giustizialismo, approssimazione, incompetenza, malanimo e altro ancora, è purtroppo desolante. Ormai siamo alla profezia della fine del Parlamento, sia pure “fra qualche lustro”, come ha detto il profeta della democrazia digitale Davide Casaleggio sviluppando il pensiero del padre, Roberto. Che fondò col superstite Beppe Grillo il Movimento delle 5 Stelle ora al governo con la Lega non più soltanto padana di Matteo Salvini.

            Il grande, grandissimo Manzoni deplorò in quello che ritengo il più bel romanzo della letteratura italiana la caccia degli untori che riuscirono nella Milano della peste a mettere in ginocchio la città più ancora dell’epidemia che l’aveva colpita. Il problema oggi, se davvero tornasse e prevalesse il buon senso, smettendo di nascondersi dietro il senso comune, è quello di fare la caccia agli untori che stanno ammorbando la democrazia.

            Penso a chi vive e cresce elettoralmente di antipolitica. A chi scambia per casta qualsiasi categoria diversa dalla propria. A chi liquida come “privilegi rubati” i cosiddetti diritti acquisiti. A chi scambia le opposizioni per lobby. A chi preferisce i processi in piazza a quelli nei tribunali. A chi straccia i contratti fregadosene delle penali. A chi predica bene ma razzola male, anzi malissimo, contro l’accaparramento dei posti e la pratica della cosiddetta lottizzazione. A chi scambia le leggi per coriandoli. A chi abusa della disinformazione altrui e l’alimenta.

            Chi siano costoro non ci vuole molto a capire leggendo i giornali e ascoltando la radio e la televisione, o navigando in internet. Se poi costoro sono arrivati al governo per effetto di un risultato elettorale che non consentiva obiettivamente, nelle condizioni date, altre soluzioni, per cui il buon senso -per tornare a Manzoni e a Mattarella- ha imposto di mettersi alla finestra sperando nel buon Dio, c’è solo da mettersi a questo punto le mani nei capelli. Almeno per quelli che li hanno. Gli altri dovranno accontentarsi di strofinarle sulla loro calvizie. E sperare che la tempesta dell’assurdo passi presto.  

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