Specie se combinati con Silvio Berlusconi, che peraltro ha l’età per essere padre di entrambi, i due Mattei della politica italiana -Renzi e Salvini, in ordine rigorosamente alfabetico- si assomigliano. O sono molto meno diversi di quanto non si considerino, o non vogliano far credere, magari offendendosi se qualcuno si azzarda a farlo notare. A dimostrarlo sono i fatti del 2015 e di questo torrido 2018.
Tre anni fa Renzi, presidente del Consiglio e segretario del Pd, aveva con l’oppositore Berlusconi un rapporto molto particolare, nato con il cosiddetto patto del Nazareno. Che non consentiva a Renzi di poter contare sulla fiducia di Forza Italia nelle aule parlamentari quando vi arrivavano i provvedimenti ordinari del governo. Ma gli permetteva di contarvi sulle riforme istituzionali, che costituivano la polpa, l’obiettivo principale della legislatura, reclamato con forza da Giorgio Napolitano due anni prima nel momento della rielezione al Quirinale: la prima nella storia repubblicana d’Italia, forse destinata a rivelarsi anche l’unica.
Quando Napolitano, un po’ meno di due anni dopo si arrese alla stanchezza fisica, o avvertì -come sospettarono i più maliziosi- le prime delusioni o preoccupazioni procurategli dal giovane presidente del Consiglio, e si dimise riaprendo il problema della successione al vertice dello Stato, Renzi fece a Berlusconi il torto, umano e politico, di non coinvolgerlo nella scelta del candidato.
Al rapporto con l’uomo di Arcore egli preferì quello con la l’irrequieta minoranza del Pd scegliendo per il Quirinale l’allora giudice costituzionale Sergio Mattarella e sottolineandone “la schiena dritta” dimostrata nel pur lontano 1990, quando si era dimesso da ministro con i colleghi della sinistra democristiana per protesta contro la legge che riformava il sistema televisivo e regolarizzava le tre reti berlusconiane del Biscione.
Berlusconi, resistendo alla tentazione di rinfacciare al prescelto quel precedente certamente non gradito, mantenne la sua protesta sui piani alti del “metodo”, cioè del vizio di forma costituito dal rifiuto di Renzi di concordare con l’opposizione, e con la sua in particolare, che aveva in comune con la maggioranza l’obiettivo delle riforme istituzionali, una figura di così evidente e vitale garanzia come il capo dello Stato. Che l’allora presidente del Consiglio e segretario del Pd preferì non a caso fare eleggere alla quarta votazione, quando bastava la maggioranza assoluta, e non più quella dei due terzi. Glielo avrebbe poi rinfacciato in televisione il vecchio Ciriaco De Mita, pur amico ed estimatore di Mattarella.
Seguirono a quella scelta il ritiro di Berlusconi dal percorso concordato delle riforme elettorale e soprattutto costituzionale. Quest’ultima, approvata dal Parlamento col minimo della maggioranza richiesta, quella assoluta, imboccò il calvario del referendum confernativo. Sulla cui strada si coalizzarono opposizioni e minoranza del Pd. Renzi perse rovinosamente prima il referendum e poi, da segretario soltanto del Pd, anche le elezioni politiche: quelle del 4 marzo scorso, a vantaggio soprattutto dei grillini.
Forse non ha torto Renzi a lamentare il rifiuto oppostogli da Mattarella alle elezioni anticipate tra la primavera e l’autunno dell’anno passato, che avrebbero potuto logorare di meno tanto lui quanto il Pd. Ma non hanno torto neppure quelli che, pur apprezzando -per carità- il presidente della Repubblica felicemente in carica, rimproverano a Renzi la gestione della successione a Napolitano e la rottura del patto del Nazareno sulle riforme.
Veniamo adesso all’altro Matteo e ai giorni nostri. Il segretario leghista Salvini è paradossalmente allo stesso tempo vice presidente del Consiglio in un governo con i grillini e, avendo sorpassato nelle elezioni di marzo Forza Italia, leader della coalizione di centrodestra. Berlusconi è, sempre paradossalmente, oppositore di Salvini al governo e suo alleato effettivo a livello locale e ancora potenziale a livello nazionale, se si dovesse tornare a votare, non essendo stato il centrodestra sciolto.
Ai perduranti vincoli con l’alleato di Arcore Salvini fino alla scorsa settimana non si è mai sottratto, ostentando anzi i suoi incontri con lui, consultandolo, informandolo e quant’altro, senza che i grillini del resto abbiano mai protestato o mostrato disagio più di tanto. E persino assecondandolo anche dopo l’avvio della legislatura e l’assegnazione della presidenza del Senato ad una berlusconiana, prima che si formasse il governo grigioverde. I grillini hanno appena ingoiato, per esempio, il rospo di un berlusconiano alla presidenza della commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai.
Con uno scarto, o uno scatto, che non so francamente se definire più politico o caratteriale, e a dispetto dei vantaggi bene o male goduti in circa due mesi di governo alzando il proprio potere contrattuale con i grillini grazie alla paradossale -ripeto- sopravvivenza dell’alleanza di centrodestra con Berlusconi, il leader leghista ha scelto praticamente da solo, con delega grillina, pur nel mazzo di un ambiente giornalistico non certo ostile a Forza Italia, il candidato alla presidenza della Rai. Che è Marcello Foa, con un passato nel Giornale della famiglia Berlusconi, ma anche frequentatore per qualche tempo del blog di Beppe Grillo e osservatore, diciamo così, assai critico del Quirinale in epoca tanto recente da non essere stata dimenticata sul colle più alto di Roma.
Come per Mattarella nel 2015, così oggi per Foa, designato da altri alla carica di “garanzia” di presidente della Rai, per la cui convalida è necessaria non a caso la maggioranza dei due terzi della commissione bicamerale di vigilanza, Berlusconi ha sollevato un problema di metodo, o una questione di forma. Egli ha cioè protestato per non avere potuto concorrere, né come oppositore del governo né come alleato tuttora di Salvini, ad una scelta così importante: di garanzia nella gestione dell’azienda radiotelevisiva di Stato.
Da questione di metodo il problema è diventato politico per decisione dello stesso Salvini, che per tutta risposta ha praticamente sfidato Berlusconi a far votare i suoi nella commissione parlamentare contro Foa “col Pd”. Che significa, nella logica del leader leghista, mettersi col diavolo, quale il Pd sarebbe rimasto, probabilmente per la perdurante influenza di Renzi al suo interno.
Così diversi, dicevo all’inizio, eppure così uguali o simili i due Mattei della politica italiana. Si vedrà con quali effetti sugli equilibri politici del Paese, con tutti i problemi che si accumulano un po’ toppo confusamente sul governo e col presidente del Consiglio negli Stati Uniti per ingraziarsi, a suo modo, come è capitato a tutti i suoi predecessori, della prima e della seconda Repubblica, l’inquilino di turno della Casa Bianca.
Pubblicato su Il Dubbio