D’Alema perde il pelo, non il vizio. Ma forse neppure il pelo

         E’ inutile ormai sperare che Massimo D’Alema possa cambiare, per quanto sia il meno anziano, o il più giovane, come preferite, della vecchia guardia della politica italiana, o della sinistra, comprensiva di anzianissimi come Giorgio Napolitano ed Emanuele Macaluso. Ma anche di Franco Marini, per non limitarci alla sinistra di origine comunista e includere anche quella di origine democristiana, visto che le due “anime” ebbero dieci anni fa l’idea di fondersi nel Pd. O di tentare una fusione purtroppo non ben riuscita, come lo stesso D’Alema riconobbe presto scalciando contro l’allora segretario Walter Veltroni, già suo concorrente nel Pci, ma come aveva tempestivamente previsto sul fronte post democristiano Gerardo Bianco. Che si era saggiamente astenuto dal partecipare all’avventura, cercando anzi di osteggiarla per salvare la tradizione della sua parte politica.

         Si dice di solito che il lupo perde il pelo ma non il vizio. D’Alema tuttavia non ha perso neppure il pelo, visto che fa l’offeso e grida al complotto per la brusca chiusura della sua esperienza internazionale, che tanto gli stava a cuore, di presidente di un organismo che riunisce le fondazioni dei partiti aderenti al socialismo europeo. L’acronimo di questo organismo è Feps, per conto e a spese del quale D’Alema ha girato per un bel po’ di anni tutta Europa e mezzo mondo, senza mai distrarsi davvero dalle vicende politiche italiane, interessandosene anzi fin troppo, almeno agli occhi e alle orecchie degli altri soci della Feps, a partire naturalmente da quelli di casa -non cosa- nostra. Di cui gli stranieri hanno condiviso lo stupore, a dir poco, per il forte contributo che l’ex presidente del Consiglio italiano ha voluto dare alla scissione del Pd pur di cercare di rottamare Matteo Renzi dopo esserne stato rottamato, ma non fino al punto, evidentemente, da togliergli o impedirgli la guida della Feps. Eppure era stato proprio Renzi a portare nel Partito Socialista Europeo il Pd, come primo atto della sua segreteria, non essendo riusciti a compiere quel passo neppure i suoi predecessori di provenienza comunista.

         Ora che, tentata inutilmente una breve proroga, D’Alema è stato sostituito in quattro e quattr’otto, come si dice, dalla portoghese Maria Joao Rodriguez, piombata a Bruxelles per insediarsi al suo posto, l’ex presidente italiano ha liquidato la vicenda come una “vendetta” di Renzi. Non gli è minimamente passata per la testa l’idea di avere potuto commettere un errore quanto meno di stile, facendosi forte anche del ruolo di presidente della Feps prima per sconfiggere il proprio partito nel referendum sulla riforma costituzionale, che i socialisti europei avevano invece apprezzato pubblicamente, e poi per spaccarlo.

         D’altronde, comunisti e post-comunisti hanno una loro sinistra tradizione nell’uso disinvolto, a dir poco, delle associazioni internazionali alle quali decidono di partecipare. All’indomani del crollo del muro di Berlino, cioè del comunismo, essi chiesero all’allora segretario del Psi Bettino Craxi, che imprudentemente acconsentì, il nulla osta necessario per la loro adesione a quella che si chiamava l’Internazionale socialista. Dove però operarono ben bene perché Craxi personalmente e il suo partito venissero stritolati in Italia politicamente e giudiziariamente, o viceversa.

         Forte di questo precedente, forse D’Alema pensava di ripetere l’operazione con Renzi. Sotto questo profilo, almeno sinora, gli è andata male.

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Perché stupirsi se Massimo D’Alema è stato rottamato dalla Feps ?

La sinistra fra tende e porte blindate

Ci sarà pure un modo diverso di convivere e discutere, senza annunciare di avere già tolto la tenda e di averla messa nello zaino per ripiantarla altrove, come ha appena fatto Romano Prodi, peraltro in un partito dove sembra che non abbia da tempo neppure rinnovato la tessera, o senza trasferire il proprio ufficio in una stanza con porta blindata e videocitofono, come ha appena fatto il risegretario del Pd Matteo Renzi al Nazareno. Dove accadono oggettivamente le cose più stravaganti da un bel po’ di tempo in qua: dal tacchino sul tetto alla mucca nei corridoi avvertiti da Pier Luigi Bersani, quando ancora faceva parte del Pd, alla scelta appunto di Renzi, sia pure presa qualche tempo fa per ragioni logistiche ma infelicemente attuata proprio in questi giorni, di barricarsi in una stanza che, fra gli altri inconvenienti d’immagine, ha quello di essere stato l’ufficio dell’allora tesoriere del movimento della Margherita, Luigi Lusi. Che aveva le sue buone ragioni di barricarsi, visto che vi accumulava per sé tanto di quel danaro da essersi procurato una condanna a 7 anni di carcere.

Dio mio, risegretario Renzi, non poteva aspettare qualche altro giorno o settimana per un trasloco così infelice? Senza perdere di colpo sul piano iconoclastico il vantaggio procuratogli con un eccesso di reazione da Prodi. Del quale il meno che si possa dire è che è un po’ troppo permaloso, essendosela presa così tanto per una critica che francamente non mi sembrava strampalata come quella rivoltagli da Renzi di avere esagerato col vinavil e altra colla durante la campagna elettorale appena conclusa in modo a dir poco catastrofico, proponendo e inseguendo coalizioni di ulivo o di altre piante e denominazioni finite tutte un po’ troppo miseramente proprio sotto la guida prodiana, a distanza di dieci anni l’una dall’altra.

Obiettivamente, se fra i milioni di elettori che ormai affollano il primo partito italiano, quello degli astenuti, c’era qualcuno tentato di votare per il Pd di Renzi, piuttosto che tornare a votare per un Silvio Berlusconi risorto ma pur sempre alle prese con un Matteo Salvini gonfio di consensi, almeno rispetto ai tempi della Lega di Umberto Bossi, certamente non è stato incoraggiato a farlo dal Prodi in giro con secchi di colla nella galassia, ormai, della sinistra. Né sono passati dall’astensionismo alla sinistra quelli che potevano farlo avendo candidati di centrosinistra a sindaci da aiutare nei ballottaggi.

In realtà, considerando anche critiche, minacce e quant’altro dei vari Dario Franceschini, Andrea Orlando, Gianni Cuperlo e via elencando, stiamo assistendo agli sviluppi di un fenomeno da noi avvertito e denunciato -qui sul Dubbio- già all’indomani della bocciatura referendaria della riforma costituzionale. E’ il fenomeno di un antirenzismo ossessivo, che si porta appresso una non meno ossessiva difesa di Renzi, che vede spesso complotti anche quando non esistono. E si cautela con mosse spesso avventate, o con polemiche quanto meno premature, come quelle sul diritto di tornare a Palazzo Chigi, senza prima sapere per fare quale governo, e con chi.

Le ossessioni sono tossiche, da ogni parte. La sinistra peraltro già n’è rimasta vittima con danni, a mio modestissimo avviso, non riparati e forse ormai irreparabili. Alludo all’anticraxismo ossessivo degli anni Ottanta e Novanta, alla fine ricambiato moltiplicando le rovine. Non riuscirono a trarre beneficio né la sinistra anticraxiana né il craxismo anticomunista. Ci guadagnò solo il peggiore giustizialismo. Seguirono il rovesciamento dei rapporti fra la politica e la magistratura, l’unificazione delle carriere, sarcasticamente lamentata più volte da Luciano Violante, dei pubblici ministeri e dei cronisti o inviati giudiziari di punta e l’imbarbarimento della lotta politica, non essendo né bastata né avanzata la fine della cosiddetta prima Repubblica e dei partiti storici di quella che fu la democrazia italiana.

Peccato, un vero peccato. Sia per chi smonta e rimonta tende sia per chi si barrica in uffici blindati nel momento peraltro più inopportuno, a dispetto -ahimè- della crisi che va maturando anche fra i grillini, ugualmente e giustamente temuti sia da Renzi sia da Berlusconi. Di quelli che si illudono invece di potervisi alleare e magari anche di strumentalizzarli, sia da sinistra sia da destra, non parlo neppure, tanto sono fuori dal mondo, ben oltre le stelle del comico prestato alla politica.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio, a pagina 15 dei commenti e analisi

Papa Francesco cade in tentazione di demagogia

         Ci volevano dunque una denuncia esplicita del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, giunta dal Canada, sul rischio -a dir poco- di “ingestibilità” del fenomeno e la minaccia governativa di chiudere i porti nazionali alle navi straniere che vi sbarcano tanti immigrati da averne portata la consistenza a 12 mila in 48 ore, contro i 10 mila in quattro giorni che già erano un’enormità, perché il Corriere della Sera e gli altri giornaloni si decidessero ad aprire gli occhi. E conseguentemente ad “aprire”, come si dice in gergo tecnico, anche le loro prime pagine con questo argomento, senza più ridurlo a un richiamino, come è accaduto ieri, 28 giugno, con una leggerezza scandalosa. Che spiega come meglio non si potrebbe la crisi dei giornali italiani. Dei quali si può ormai dire che si confezionano e si mandano nelle edicole quasi apposta per non essere venduti, servendo solo a scambiare messaggi fra gli addetti ai lavori, cioè fra chi li fa e si contende il mercato sempre più piccolo al quale li hanno ridotti.

         Meglio tardi che mai, ci si potrebbe consolare per chiudere sbrigativamente la faccenda e archiviare anche certe polemiche che mi sono procurato su internet, dove qualcuno mi ha dato sarcasticamente del “professore”, dimenticando che sono semplicemente un giornalista. E che, avendo sempre fatto questo in vita mia, da 57 anni, comprendendo quelli del cosiddetto volontariato e praticantato, penso di avere una certa competenza in materia.

         Eppure non basta dire il solito “meglio tardi che mai”. Il problema dell’informazione in Italia ha assunto ormai dimensioni tali che è da irresponsabili liquidarlo con una scrollata di spalle. L’informazione da noi non è soltanto tossica, per l’uso strumentale al quale si prestano ormai sistematicamente le cronache giudiziarie, economiche e politiche, ma addirittura carente. Se non ci fosse internet, al netto naturalmente dei suoi inconvenienti, dagli insulti allo scarso controllo delle fonti, di certe cose, di certi problemi, di certe realtà non sapremmo niente, pur uscendo dalle sempre meno numerose edicole sparse sul territorio con giornali spesso sempre più pieni di pagine e di inserti. Svegliatevi, cari colleghi.

         Di mancanza di informazioni temo che soffra, nonostante gli uffici e i collaboratori su cui può contare anche dalla sua spartana residenza di Santa Marta, persino il Papa. Che diversamente non cadrebbe pure lui, come gli sta capitando sempre più di frequente, in tentazione di demagogia. E non solo sul fronte dell’immigrazione. Che, se dipendesse dal Pontefice felicemente regnante, sarebbe ancora più ingestibile di quanto non cominci ad apparire anche al cattolicissimo e praticantissimo presidente della Repubblica italiana.

         Papa Francesco si è appena avventurato sul terreno sindacale, ricevendo i delegati al congresso della Cisl, con due denunce che, se lasciate nella genericità in o con cui le ha lanciate, sono solo strafalcioni economici e sociali. Qualcuno dovrà pur decidersi a spiegarglielo dalle parti del Vaticano in argentino, in italiano, in latino, come preferisce sentirsele dire Sua Santità.

         Si possono anche mandare prima i lavoratori in pensione per farli sostituire con i giovani disoccupati, ma sempre che queste sostituzioni siano reali ed economicamente possibili, e i costi verificabili, Si possono anche scomunicare, coi tempi che corrono, i cosiddetti “pensionati d’oro”, come ha detto Papa Francesco mutuando il linguaggio dei sindacati, dei giornali e dei partiti più esposti su questo fronte, ma a patto che anche lui si decida a indicare dove finisce l’argento e comincia l’oro, possibilmente senza scambiare lo zinco per l’argento e il cosiddetto oro di Bologna per oro vero.

         No, Santità, non ci siamo neppure con Lei. Le consiglio di parlarne alla prima occasione telefonica o fisica che le capita con un amico di cui mi sembra che Lei si fidi e che di queste cose s’intende per formazione ed esperienza personale. Parlo naturalmente di Eugenio Scalfari.

 

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Papa Francesco, le pensioni, l’oro e lo zinco

        

        

L’incredibile suicidio del giornalismo italiano

         E’ antipatico -lo so- farci le pulci fra giornalisti. Ma non riesco a trattenermi dal dovere di denunciare il suicidio dei giornali, più grave forse di quelli dei partiti e delle istituzioni, perché quando ad ammazzarsi sono i giornali, facendo di tutto per non lasciarsi leggere, cade la testa di un sistema democratico. Che finisce nel momento stesso in cui finisce l’informazione.

         Ho guardato e riguardato la prima pagina del Corriere della Sera di oggi, mercoledì 28 giugno 2017, e mi sono chiesto se fosse uno scherzo o no. Purtroppo, non era e non è uno scherzo. E’ proprio la prima pagina del più diffuso e -si ritiene proprio per la sua diffusione- più importante d’Italia. Per la conquista della cui proprietà molti in passato hanno perso la testa e qualche volta persino la vita per effetti, diciamo così, collaterali. Spero naturalmente che non finisca così anche per Urbano Cairo, che ricordo sempre con simpatia e comprensione quando, una trentina d’anni fa, lo vedevo ogni giorno nel cortile della sede della Fininvest, a Milano in via Paleocapa, attendere con fiducia e pazienza l’arrivo dell’auto che portava in ufficio Fedele Confaloneri. Davanti alla cui stanza poi lo scorgevo per intere giornate, strappandogli, quando ci incrociavamo, occhiate di umana solidarietà. Ma temo che anche lui avrà problemi, prima o poi, se non si sorprenderà -con tutto ciò che ne dovrebbe derivare- di fronte ad una prima pagina del Corrierone come quella di oggi, in cui è relegata in un richiamino di quasi ordinaria amministrazione l’articolo del pur qualificatissimo Marzio Breda, di casa al Quirinale, sul picco dell’emergenza immigrati, già sbarcati o in arrivo sulle nostre coste in “diecimila in quattro giorni”.

         Ci troviamo di fronte ad un’emergenza che, oltre ad impensierire gli uffici del Quirinale, ha indotto il ministro dell’Interno Minniti a sospendere un viaggio di lavoro programmato negli Stati Uniti per inchiodarsi al suo posto di controllo e coordinamento.

         Di fronte a questa che ormai ha le dimensioni di un’invasione il Corrierone ha ritenuto che dovessero interessare di più ai lettori, nell’ordine di importanza ricavabile dalla collocazione dei vari titoli, la multa europea di quasi due miliardi e mezzo di euro a Google, che ha già annunciato ricorso, il solito Renzi contro tutti o tutti contro Renzi, come preferite, la storia di giustizia e di amore del pubblico ministero ormai più famoso d’Italia, Voodcook, o come altro si scrive il suo complicatissimo cognome, e la conduttrice televisiva  Federica Sciarelli, alla quale la Procura di Roma ha peraltro sequestrato il telefonino sospettandola -spero a torto, per lei e per tutti noi- di avere fatto da intermediaria fra il suo Henry e l’inviato giudiziario del Fatto Quotidiano di Marco Travaglio. Che da mesi ce la mena e rimena con i suoi scoop sulla, anzi sulle inchieste giudiziarie targate Consip, sui cui binari si sono rovinosamente scontrati i convogli delle Procure di Napoli e di Roma.

         A me, giornalista forse troppo vecchio e rincitrullito agli occhi dei giovani, sembra una follia ritenere che diecimila immigrati sbarcati in quattro giorni in Italia debbono interessare meno della “tenda” -ripeto, la tenda- che quel permaloso di Romano Prodi ha annunciato di avere giù smontato e riposto nel suo “zaino” per allontanarsi dal Pd, visto che il segretario Renzi ha osato, forse non a torto, dicendone finalmente una buona fra tante sbagliate, che i cattivi risultati delle sinistre nelle elezioni amministrative appena svoltesi si debbano alle nostalgie dello stesso Prodi e amici, o compagni, per le loro coalizioni uliviste e simili. Che sono state, per quanto sono durate e per come sono cadute, dei caravanserragli, e non altro.

         Non parliamo poi delle allucinanti liti fra le componenti del “ritrovato” centrodestra e degli umori di Beppe Grillo, che non ha voluto perdonare neppure da morto al povero Stefano Rodotà, suo candidato al Quirinale non più tardi di quattro anni fa, di avere poi osato criticarlo.

 

 

 

Ripreso da www.formiche.net col titolo: Cari colleghi giornalisti, ma che razza di giornali mandiamo in edicola ?         

        

Non il Vangelo, ma le elezioni secondo Matteo

         Matteo Renzi, d’accordo, non piace più come prima, se è davvero piaciuto e non è stato invece scambiato per qualcun altro: per esempio, per un anticipatore di Emmanuel Macron, con moglie fortunatamente giovane. O per un vendicatore, per quanto inconsapevole, di Bettino Craxi. Com’è capitato anche a me di credere per un certo tempo, vedendo come fosse capace di far piangere e disperare la sinistra arcaica, anche se con lo scomparso segretario socialista il toscano rifiutava sdegnosamente qualsiasi paragone, facendo non male ma malissimo. E lasciandosi alla fine sorpassare e spiazzare addirittura da Michele Emiliano, il governatore pugliese che nelle primarie comgressuali del Pd, accettando l’appoggio di Bobo Craxi, riconobbe che la necessità che la sinistra riconoscesse di avere qualche debito verso il padre, anche a costo di far saltare sulla sedia il Travaglio di turno.

         Matteo Renzi, sempre lui, non ha più l’aria -forse per fortuna della democrazia italiana- dell’uomo imbattibile, al quale convenisse dunque rassegnarsi, riconoscendo -come disse una volta la ormai ex dalemiana Anna Finocchiaro- che con lui “tutto è ora finalmente possibile”, o quanto meno appariva.

         Matteo Renzi, ancora lui, si fa forse ancora troppe illusioni sulla capacità, oltre che opportunità di tornare anche a Palazzo Chigi, non bastandogli il Nazareno, inteso come segreteria del Pd. E se si fa ancora questa illusione, è bene che qualche amico lo aiuti a ragionare e gli consigli qualche lettura. Penso naturalmente ad Eugenio Scalfari, che sembra ormai alternare al telefono Papa Francesco e Renzi figlio, non papà, ovviamente.

         Matteo Renzi, infine, può avere tanti altri difetti ancora, persino la cattiveria di cui d’altronde lui stesso si compiacque imprudentemente in un faccia a faccia televisivo con Minoli, ma qualche volta gli potrà pure capitare di dirla giusta. Di azzeccarla, avrebbe detto la buonanima di Giulio Andreotti.

         Ecco, penso che il giovanotto l’abbia appena azzeccata commentando i risultati dei ballottaggi, risoltisi a favore del cosiddetto centrodestra, con questo monito ai suoi compagni di partito nostalgici dell’Ulivo, dell’Unione e di altro ancora: “Si conferma la tesi che i migliori amici del Berlusca siano quelli che invocano una coalizione con tutti dentro”. Una coalizione, cioè, di sinistra, o di centrosinistra, come altri preferiscono chiamarla non si sa se più in buona o malafede.

         Costoro, peraltro, sono amici del Berlusca, come dice il segretario del Pd, tanto per non ripeterne il nome, anche nel senso che potranno permettergli dopo le prossime elezioni politiche di alzare un muro contro lo scomodo alleato Matteo Salvini, come Trump col Messico, e offrire un salvagente indovinate a chi? Ma a Renzi, naturalmente. Di cui, ahimè. ho dovuto tornare a fare il nome.

Assordante e livoroso il silenzio di Grillo su Stefano Rodotà

         Neppure la decisione della sindaca pentastellata di Roma Virginia Raggi, del vice presidente della Camera Luigi Di Maio e di Alessandro Di Battista, un deputato fra i più noti del movimento delle 5 stelle, di presentarsi domenica alla camera ardente di Stefano Rodotà ha indotto Beppe Grillo ad accorgersi del lutto.

         La notizia della morte del giurista, i cui funerali civili si sono infine svolti nell’Università romana dove aveva insegnato per tanti anni, ha continuato ad essere ignorata, cioè censurata politicamente, sul blog personale di Grlllo e su quello del movimento. Dove invece il “garante” si è vantato, a dispetto dei risultati delle elezioni amministrative, che “ogni maledetta domenica si continua a crescere”, che “da qui al governo è questione di pochi metri”. Il problema più urgente del paese resta per i grillini il conto alla rovescia dei giorni che mancano alla maturazione del diritto alla pensione privilegiata dei parlamentari di prima nomina, senza che nessuno con qualche legge non lo interrompa sopprimendo vitalizi e quant’altro. Mentre scrivo, mancano a questa esiziale scadenza, come avverte il cronometro giallo del sito di Grillo, 80 giorni, 10 ore, 57 minuti e 52 secondi.

         Col suo ostinato e livoroso silenzio sulla scomparsa, e ora anche sulla sepoltura, del giurista che pure fu quattro anni fa il suo candidato al Quirinale, Grillo ha voluto trattare pure da morto il povero Rodotà come lo trattò da vivo per punirlo delle critiche che si era permesso di formulare al movimento per la sua gestione non democratica e per le sue troppe contraddizioni programmatiche. Ha continuato cioè a trattarlo -disse- come “un ottuagenario miracolato dalla rete, sbrinato di fresco dal mausoleo”, dove adesso evidentemente è tornato davvero per rimanervi per sempre, senza il pericolo di fare risentire la sua voce o di mandare un corsivo al Manifesto.

         Quando Grillo liquidò con quelle parole il suo ex candidato al Quirinale il povero Rodotà era già affetto del tumore di cui poi è morto, come si è appreso da una intervista di Giorgio Napolitano sulle confidenze appena fattegli, nella camera ardente a Montecitorio, dalla vedova. Mi riesce francamente difficile immaginare che Grillo non ne fosse a conoscenza. Ma anche se non lo avesse saputo, il trattamento riservato dal comico genovese al povero Rodotà da capo, garante e quant’altro del movimento delle cinque stelle rimane riprovevole, a dir poco. E non dico di più per rispetto non di Grillo, ma dei lettori.

Napolitano sbugiarda Occhetto su Rodotà e Craxi

         C’è forse chi è riuscito a fare peggio di Beppe Grillo col povero Stefano Rodotà, già liquidato in vita dal comico genovese come “ottuagenario miracolato dalla rete, sbrinato di fresco dal mausoleo” e ignorato da morto sui siti dello stesso Grillo e del suo movimento. Che pure quattro anni fa -mica nel secolo scorso- lo avevano candidato al Quirinale, compromettendone con ciò stesso l’elezione. Essa avrebbe infatti assunto il sapore di una scelta antipolitica, per quanto condivisa improvvidamente lì per lì dall’interessato, arrivato onestamente e coerentemente, com’era nel suo temperamento e nella sua cultura istituzionale, a riconoscere e denunciare nel giro di poco tempo la conduzione e forse anche l’essenza per niente democratica del partito grillino, procurandosi gli insulti citati con tanto di virgolette all’inizio di questa nota.

         A comportarsi peggio di Grillo, certamente sul piano politico, è stato Achille Occhetto in una intervista nella quale ha adoperato Rodotà contro un altro morto: il mai abbastanza odiato, evidentemente, Bettino Craxi. Al quale l’ultimo segretario del Pci e primo del Pds ha attribuito il colpo finale e decisivo inferto nel lontano 1992 alla candidatura di Rodotà a presidente della Camera, dopo che Oscar Luigi Scalfaro, insediatosi da poco al vertice di Montecitorio, era stato eletto al Quirinale sotto l’onda emotiva e politica della strage di Capaci, dove la mafia aveva assassinato Giovanni Falcone, la moglie e buona parte della scorta.

         Al posto di Scalfaro, e del suo vice Rodotà, che era anche presidente del Pds-ex Pci, fu eletto invece Giorgio Napolitano, per il quale, secondo la ricostruzione occhettiana dei fatti, giocò la preferenza dell’allora segretario socialista. Che pure non sarebbe stato poi tenero col nuovo presidente della Camera, avendogli dedicato negli anni della “latitanza” ad Hammamet una delle litografie contro gli “extratterestri” ignari del finanziamento illegale praticato anche dai loro partiti, e non solo dal Psi, trattato invece come capro espiatorio di una lunga stagione tangentizia.

         A smentire Occhetto, e a sbugiardarne il tentativo di fare del povero Rodotà una vittima di Craxi, ha onestamente e lealmente provveduto lo stesso Napolitano raccontando in una intervista a Repubblica, reduce da una visita alla camera ardente dello scomparso giurista, e suo amico personale, come fossero andate veramente le cose in quella stagione già troppo carica di veleni per poterne decentemente aggiungere altri dopo tanti anni.

         “Quando nel 1992 fui scelto dal partito per la presidenza della Camera -ha detto testualmente Napolitano- Stefano aveva molti titoli per ricoprire quel ruolo, ma dal canto mio godevo di un larghissimo consenso nel Pds, che voleva esprimere una sua figura. Così prevalse il mio nome”. La vicenda quindi fu tutta interna al Pds, dove Occhetto, che si è appena vantato di avere sostenuto Rodotà, fu messo evidentemente in minoranza. Craxi quindi non c’entrò per niente.

         D’altronde, quando si decise, dopo la strage di Capaci, che aveva interrotto tragicamente la corsa al Quirinale, di scegliere il capo dello Stato fra i presidenti delle due Camere il Pds preferì Scalfaro a Giovanni Spadolini, presidente del Senato, proprio per liberare il vertice di Montecitorio a beneficio di Napolitano, considerato il più rappresentativo della storia del principale partito della sinistra: più rappresentativo dello stesso Rodotà, che ne era il presidente, è vero, ma in omaggio più alla discontinuità, rappresentata dal cambio del nome e del simbolo del vecchio Pci, che alla continuità.

         Lo stesso Rodotà dovette alla fine rendersene conto se Napolitano ha potuto concludere il racconto così: “Non dubito che Stefano ne abbia tratto motivi di amarezza, ma in quei giorni avemmo modo di parlarne. E poi sul contrasto sarebbe prevalsa la collaborazione”.

 

 

 

 

        

 

 

 

         

        

        

Berlusconi vince i ballottaggi ma non gode. O finge di godere.

       Paradossalmente, ma non troppo, mai ritorno come quello appena vantato e riconosciuto a Silvio Berlusconi con le numerose e importanti vittorie nei ballottaggi conunali, a cominciare dalla Genova ex rossa, è stato così scomodo per il principale interessato. Che avrebbe avuto interesse, sempre paradossalmente ma non troppo, ad un risultato più contenuto. Come lui raccomanda di essere ai suoi avversari quando lo attaccano troppo, con sconfinamenti nelle vicende personali, anche quando non c’entrano, o c’entrano solo di striscio nella sua avventura politica ormai ultraventennale.

         Si può ben dire che l’ex Cavaliere, ancora in attesa anche di una riabilitazione giudiziaria in sede europea dopo la condanna definitiva per frode fiscale, nel 2013, e la conseguente decadenza dal Parlamento, vince ma non gode. O canta vittoria pìù per dovere di copione che per convinzione, sapendo bene che è una vittoria più di Pirro che vera, specie nel contesto di un astensionismo da capogiro. E’ infatti un successo che Berlusconi non può aggiudicarsi del tutto e che nell’ambito del centrodestra rafforza più la Lega di Matteo Salvini che la sua Forza Italia, e in Forza Italia più gli amici per disciplina che quelli per convinzione.

         La prova di questa situazione, ripeto, paradossale ma non troppo sta nella preferenza che l’ex Cavaliere continua a dare, anche dopo i vittoriosi ballottaggi comunali, ad una nuova legge elettorale più proporzionale che maggioritaria. Che pure -quella maggioritaria, di qualsiasi tipo, con o senza collegi uninominali, con o senza grandi premi di governabilità- dovrebbe essere da lui sostenuta se volesse davvero scalare il governo con una riedizione del centrodestra, capace di vincere anche in un quadro cosiddetto tripolare, prevalendo sia sull’improbabile coalizione “larga” di centrosinistra, con Matteo Renzi oggettivamente indebolito dai ballottaggi, sia sui solitari grillini, inchiodati alla loro vantata e presunta “diversità” come i comunisti degli anni peggiori, non migliori, del berlinguerismo.

         Una vera coalizione elettorale a livello nazionale con la Lega e la destra di Giorgia Meloni, più i frammenti centristi considerati perdonabili di tradimento e quant’altro, diventerebbe scomodissima per Berlusconi con l’applicazione al Senato dell’Italicum corretto dalla Corte Costituzionale. Che è notoriamente basato sul premio di maggioranza alla lista, per cui obbligherebbe il presidente di Forza Italia ad un listone unico con gli alleati, aumentando nel cosiddetto centrodestra il potere contrattuale di Salvini.

         L’ex presidente del Consiglio potrà pur continuare a vantarsi della sua collocazione “moderata”, in Italia e in Europa, dove appartiene allo stesso partito della cancelliera tedesca Angela Merkel, ma la consistenza elettorale della sua Forza Italia non è più doppia o addirittura tripla rispetto alla Lega, ma pari, o quasi. E da questa condizione ne derivano tante altre, tutte scomode per Berlusconi: a cominciare dalla cosiddetta leadership, a prescindere dalla questione pur rilevante della candidabilità ancora preclusagli per ragioni giudiziarie alla carica di parlamentare, e ancor più a quella di presidente del Consiglio.

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Ecco come e perché Silvio Berlusconi finge di festeggiare dopo i ballottaggi

Una deputata grillina onora Rodotà sfidando la censura

         Mi permetto di segnalare all’attenzione di chi legge la sfida che, volente o nolente, una deputata delle 5 stelle ha finito per mandare al “garante” del suo movimento onorando nella camera ardente di Montecitorio, allestita nella sala Aldo Moro, la salma di Stefano Rodotà: il giurista ed ex parlamentare candidato da Beppe Grillo alle elezioni presidenziali del 2013 e poi liquidato alla solita maniera, dandogli dell’”ottuagenario miracolato dalla rete, sbrinato di fresco dal mausoleo” quando il professore osò sollevare qualche riserva e critica sull’uso proprio della “rete” e altre cose ancora.

         La deputata che si è lodevolmente distinta dalla odiosa censura praticata a Stefano Rodotà, ignorandone anche la notizia della morte sul blog personale di Beppe Grillo e su quello delle stelle, si chiama Laura Castelli, eletta a Torino, 31 anni da compiere a settembre. La signora non ha avuto paura di mescolarsi agli odiati Giorgio Napolitano, Giuliano Amato, Paolo Gentiloni e altri.

         Ho inviato all’onorevole Castelli con la posta elettronica della Camera -cui si può accedere facendo una ricerca di rete col nome e cognome della parlamentare- un telegramma di complimenti e di incoraggiamento. Ciò mentre il blog di Grillo continuava nella striscia gialla sotto la testata il suo qualunquistico conto alla rovescia dei giorni, ore, minuti e secondi mancanti alla maturazione delle “pensioni privilegiate dei parlamentari” di prima nomina, che costituiscono per il movimento delle 5 stelle il problema più grave e più urgente del Paese, la prima mostruosità da impedire o abbattere.

         L’onorevole Laura Castelli è una delle tanti parlamentari che maturerà questo diritto -avverte il blog di Grillo mentre scrivo- fra 82 giorni, 10 ore, 57 minuti e 49 secondi.

         Il povero Stefano Rodotà percepiva anche lui un vitalizio per i 15 anni trascorsi come parlamentare alla Camera, diventandone anche vice presidente. Speriamo che il movimento delle 5 stelle non gli contesti anche questo da morto, oltre al “mausoleo” e all’età. E non chieda alla vedova di restituire tutto, sino all’ultimo centesimo, rinunciando naturalmente alla cosiddetta reversibilità.

         Peccato che la democrazia italiana sia stata ridotta a questo livello di dibattito politico in nome dell’”onestà, onestà, onestà” gridata ai funerali di Gianroberto Casaleggio. Tre volte onestà, due in meno -chissà perché- delle cinque stelle del movimento.

L’odiosa censura grillina alla morte di Stefano Rodotà

         Non un rigo, non una parola, non una foto dello scomparso giurista Stefano Rodotà sul blog di Beppe Grillo sino al momento in cui scrivo: a “83 giorni, 10 ore, 53 minuti e 40 secondi mancanti -come avverte una striscia gialla sotto la testata- alla maturazione della pensione privilegiata dei parlamentari” di prima nomina di questa diciassettesima legislatura. Fra i quali la maggior parte, va detto onestamente, sono proprio del movimento grillino.

         Questa contro il diritto alla pensione, vitalizio o quant’altro dei deputati e dei senatori è la battaglia che sta in testa a tutte le altre fra i pentastellati. E’ per loro un’autentica ossessione, convinti come sono che sia il problema più importante, più urgente, più vitale dell’Italia: il male più scandaloso e virale da eliminare, o più semplicemente il tema elettoralmente più produttivo. E’ una questione di gusti, naturalmente.

         Se poi la legislatura, come sembra, salvo ripensamenti, insieme, di Matteo Renzi, Silvio Berlusconi, Paolo Gentiloni e soprattutto Sergio Mattarella, che è l’unico ad avere la chiave costituzionale dello scioglimento anticipato delle Camere, arriverà alla sua conclusione ordinaria, tutti gli onorevoli deputati e senatori eletti nelle liste rigorosamente bloccate del movimento di Grillo, cioè nominati da lui in persona, potranno godersi tranquillamente il loro vitalizio dicendo di avere fatto inutilmente tutto il possibile per risparmiarselo, o per risparmiarlo alle tasche dei contribuenti italiani. Bella trovata, bisogna ammetterlo.

         Ma torniamo, per cortesia, al compianto Rodotà, giurista considerato unanimemente insigne, professore universitario per decine e decine di migliaia di studenti, forse anche di più, formatisi sui suoi libri, già deputato eletto da indipendente nelle liste del Pci, poi Pds, presidente del partito, vice presidente della Camera e presidente dell’Autorità per la tutela della privacy. La censura praticata anche da morto a un uomo con un curriculum di questo tipo rivela un po’ la matrice culturale ed anche umana di Grillo e dei suoi seguaci, che pure avevano fatto del povero Rodotà la loro bandiera istituzionale candidandolo al Quirinale non più tardi di quattro anni fa, e riuscendo a spaccare sul suo nome anche il Pd dell’allora Pier Luigi Bersani, sia pure inutilmente, perché fu proprio l’investitura grillina a danneggiarlo politicamente.

         Il pubblico a 5 stelle andava letteralmente pazzo di Rodotà sulle piazze e per le strade pronunciandone il none al ritmo sudamericano: rodotà-tà-tà. E lui, pur notoriamente schivo e sobrio, finì per perdere un po’ la testa, non dandosi pace del fatto che, pur di non votarlo, i suoi ex compagni di partito e, più in generale, della sinistra avessero preferito abusare un po’ dell’età di Giorgio Napolitano, sulla soglia ormai dei novant’anni, rieleggendolo alla Presidenza della Repubblica. Allora Rodotà di anni ne aveva “soltanto” un’ottantina, meno comunque dell’allora capo dello Stato.

         A pensarci bene, risparmiandogli le fatiche e le emozioni del Quirinale, e non solo l’adrenalina che certamente il nuovo impegno gli avrebbe procurato, i grillini regalarono inconsapevolmente a Rodotà qualche anno in più da godersi fra gli studi, le ricerche, le interviste, gli affetti familiari e la stima degli amici. E per fortuna anche il tempo -va detto- per riflettere meglio sulla natura, sulle caratteristiche, sulle qualità politiche ed umane dei grillini, sbertucciandoli infine con un corsivo sul Manifesto per il loro concetto della democrazia al computer, al clic e a quant’altro per compiere sbrigativamente le loro scelte, definire e aggiornare i programmi e cambiare anche gli umori.

         Da allora, da quel corsivo, maledetto per i grillini ma benedetto per i suoi estimatori di più vecchia e sincera data, fra i quali chi scrive questo ricordo di lui, Rodotà cadde dalle cinque stelle alle cinque stalle. E lì Beppe Grillo lo ha lasciato anche da morto, almeno sino al momento, ripeto, in cui scrivo, quando il conto alla rovescia nella lotta contro “le pensioni privilegiate”, cioè vitalizi e quant’altro, dei parlamentari di prima nomina è andato avanti raggiungendo gli 83 giorni, 10 ore, 12 minuti e 20 secondi.

         Addio, professore Rodotà. E perdoni la maleducazione dei suoi ex sostenitori al Quirinale. Dove Lei sarebbe sicuramente e meritatamente arrivato nella primavera del 2013 –ripeto- senza la loro zavorra.

 

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Stefano Rodotà, dalle 5 stelle alle 5 stalle per Beppe Grillo?

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