Troppo cerume nelle orecchie di Sergio Mattarella

         Il quirinalista principe, che naturalmente è Marzio Breda, del Corriere della Sera, ci ha riferito della sorpresa procurata a Sergio Mattarella dalle difficoltà incontrate alla Camera dalla riforma elettorale. Che il presidente della Repubblica si era tanto abituato a considerare ormai sicura da essersi predisposto alle elezioni anticipate, pronto a farle indire il più presto possibile, magari nella stessa domenica -24 settembre- in cui si voterà in Germania. Così ci saremmo una volta tanto allineati davvero all’Europa, almeno nei tempi di definizione dei nuovi equilibri politici.

         Ora che Matteo Renzi, a torto o a ragione, dopo avere mostrato una fretta incontenibile verso le urne, si dice rassegnato all’epilogo ordinario della legislatura, nella primavera del 2018, dandone la colpa ai grillini e contando sull’applicabilità certificata dalla Corte Costituzionale per le due leggi da essa modificate per l’elezione della Camera e del Senato, per quanto ritenute disomogenee dal Quirinale, ma aggiustabili con un decreto legge all’ultimo momento, Mattarella ha affidato a Breda un auspicio. “Che si eviti -ha riferito testualmente il giornalista del Corriere- di usare la battaglia sul sistema di voto”, destinata probabilmente a riprendere dopo la pausa impostasi dal Pd per il primo e il secondo turno del corposo rinnovo in corso delle amministrazioni locali,” per fare scattare subito una campagna elettorale che, sommandosi a quella lunghissima per il referendum di dicembre, sfiancherebbe i cittadini, col rischio di allontanarli ancora di più dalla politica”.

         Ora, con tutto il rispetto che meritano naturalmente il capo dello Stato e il suo confidente, temo che entrambi abbiano bisogno di una visita odontoiatrica. Entrambi debbono avere accumulato troppo cerume nelle orecchie se non si sono accorti che, per quanto non formalizzata con i soliti provvedimenti, l’Italia sia già da tempo in campagna elettorale. Per non parlare di quella in corso a tutti gli effetti per il rinnovo delle amministrazioni locali, siano in campagna elettorale almeno dal 5 dicembre, il giorno dopo la bocciatura del referendum costituzionale. Ma forse sta più semplicemente proseguendo la campagna elettorale di quel referendum.

         Più che rischiare lo stress, gli italiani sono già stressati dal clima elettorale nel quale agiscono i partiti e il governo. Non vi è proposta, non vi è decisione, non vi è minaccia o assicurazione che non sia motivata dalla necessità di guadagnare voti, o di non perderne.

Renato Brunetta in versione inedita di pompiere

         Ci sono scene o volti che a vederli riescono da soli a farti capire certe situazioni, al pari delle vignette che molte volte basterebbero e avanzerebbero a far capire ai lettori come stiano certe cose, senza infastidirli con editoriali più o meno austeri e saccenti, sempre più spesso affidati peraltro a professori in carriera. Ai quali i giornalisti, con tutto il professionismo che vantano con l’appartenenza ai loro Ordine, si affidano senza farsi prendere dal dubbio di confessare così i propri limiti. O a volte per vigliaccheria.

         Non a caso Indro Montanelli teneva lontani i professori dalla prima pagina del suo Giornale, preferendone sistemare gli articoli nelle pagine interne della cultura. Dove si prendeva anche il gusto di correggerne parole e passaggi quando riteneva che non fossero chiari abbastanza per il famoso lattaio, ch’egli aveva promosso a emblema del lettore comune. I professori, intesi in senso largo, si vendicavano a loro modo declassando a discorsivi i libri di storia di Montanelli, che a loro volta si vendicavano battendoli sistematicamente alla cassa.

         Il volto più espressivo del melodramma della legge elettorale accantonata alla Camera con un rinvio alla competente commissione, dopo l’incidente pur modesto occorso al cosiddetto Germanellum col passaggio dell’emendamento che lo applicherebbe anche al Trentino Alto Adige, dove il patito di lingua tedesca fa da padrone quasi a prescindere dai voti che prende, è quello di Renato Brunetta, capogruppo di Forza Italia a Montecitorio. Che Massimo D’Alema una volta defini, all’incirca, un manganello tascabile per la sua abitudine di dirle e darle a tutti , sventolando le braccia, sbarrando gli occhi e gonfiando le vene del collo. Neppure il professore e senatore a vita Mario Monti, che da presidente del Consiglio veniva trattato da lui come uno scolaro ignorantello nell’aula di Montecitorio prima ancora che il suo partito passasse all’opposizione, alla vigilia delle elezioni del 2013, fu tenero col capogruppo forzista. Egli scherzò poco sobriamente una volta in televisione sulla sua “statura”. Come se il povero Brunetta si fosse scelto lui le dimensoni non molto armoniche della testa, del torace, delle gambe e dei piedi, nelle cui scarpe quel birbante di Maurizio Crozza di divertiva a infilarne, nei suoi spettacoli i tre quarti del corpo perché risultasse un nano.

         A dispetto delle ironie usate nei suoi riguardi, la testa di Brunetta funzionava e funziona-credetemi- molto più di quelle dei suoi critici messe insieme. Egli è stato il primo l’altro giorno a rendersi conto della serietà dell’incidente occorso nell’aula di Montecitorio al cosiddetto Germanellum e a non gradire per niente né le risate compiaciute dei grillini né la fretta con la quale il suo omologo del Pd dichiarava morta la versione italiana del proporzionale tedesco, addossandone tutta la causa alla inaffidabilità del movimento delle 5 stelle. Ed ha giustamente sentito puzza di bruciato sotto gli insulti che si scambiavano pentastellati e renziani, per non parlare del sollievo di Angelino Alfano e amici, che in Forza Italia non hanno mai smesso di considerare traditori selezionandone a dovere gli idonei al ritorno a casa, com’è accaduto nei casi di Nunzia De Girolamo e di Renato Schifani.

         Il partito al quale il Germanellum avrebbe fatto più comodo, e tornerebbe a farlo se si riuscisse a recuperarlo dopo la pausa di riflessione impostasi da Renzi in attesa dei risultati del primo e forse anche del secondo turno delle votazioni amministrative riguardanti in questo mese di giugno più di nove milioni di elettori, è Forza Italia. Che col 13 per cento assegnatogli dai sondaggi, e magari qualcosa in più procuratogli nelle prossime elezioni politiche, anticipate o ordinarie che siano, dalla mobilitazione personale di Berlusconi, potrebbe giocare nella prossima legislatura, grazie alla riedizione del sistema proporzionale, un ruolo ben superiore alla sua consistenza parlamentare. Com’era diventato nella cosiddetta prima Repubblica di conio proporzionalista, con le stesse dimensioni attuali del partito berlusconiano, il Psi prima di Pietro Nenni e poi di Bettino Craxi. Senza del quale la Dc, paragonabile in qualche modo al Pd di oggi, non sarebbe riuscita a fare maggioranze e governi senza doversi accordare col Pci, paragonabile -anch’esso in qualche modo- al movimento grillino di oggi. Un affarone, insomma, per Berlusconi e per il preoccupatissimo Brunetta, che ha improvvisamente smesso i panni del piromane per indossare la divisa di comandante in capo dei pompieri, anche se gli manca il fisico.

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Ecco perché il Germanellum era un affare per Forza Italia

Venticinque anni fa le idi di giugno di Bettino Craxi

Dopo la strage di Capaci e l’elezione in 48 ore di Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale, dove per quindici votazioni avevano inutilmente tentato di arrivare, con candidature formali o sotterranee, Arnaldo Forlani, Giulio Andreotti e persino il presidente uscente e dimissionario Francesco Cossiga, nulla fu più uguale sul piano politico.

Terminato di comporre il suo staff al Quirinale il 4 giugno con la nomina del generale Paolo Scaramucci a consigliere militare, Scalfaro predispose le consultazioni per la formazione del nuovo governo: quello di esordio della legislatura nata con le elezioni del 5 e 6 aprile. Ma la prima sfilata delle delegazioni dei partiti davanti al capo dello Stato terminò il 10 giugno senza altro risultato che la constatazione di un clima politico irrespirabile, con veti e controveti all’interno e all’esterno della maggioranza uscente composta da democristiani, socialisti, socialdemoratici e liberali. Era una maggioranza peraltro troppo risicata per fronteggiare una difficile situazione economica e un’ancora più difficile situazione politica nel contesto delle indagini giudiziarie in corso a Milano su Tangentopoli.

Scalfaro non riuscì a venirne a capo neppure moltiplicando le sue preghiere alla Madonna di Lourdes, dove peraltro si era proposto prima della imprevista elezione a capo dello Stato di recarsi in pellegrinaggio. Si scusò della rinuncia esortando gli organizzatori del viaggio a pregare anche perché lui venisse illuminato.

In attesa di un secondo giro di consultazioni formali, il presidente della Repubblica vide o sentì privatamente un’infinità di amici, fra i quali i ministri uscenti dell’Interno e della Giustizia: il democristiano Enzo Scotti e il socialista Claudio Martelli, invitati insieme al Quirinale formalmente per discutere di un provvedimento in gestazione per intensificare la lotta alla mafia dopo la strage di Capaci. Ma il discorso scivolò subito sul tema della formazione del governo.

Vuoi su sollecitazione di Scalfaro, come poi avrebbe raccontato Martelli, vuoi di iniziativa dei due ministri, il capo dello Stato ricavò l’impressione, a torto o a ragione, che fossero entrambi convinti di potere insieme tentare la formazione di un governo di decantazione, scambiandosi i ruoli di presidente e vice presidente, capace di guadagnarsi se non l’appoggio, almeno la benevola opposizione del Pds-ex Pci guidato da Achille Occhetto.

Informato non si è mai ben capito se dallo stesso Scalfaro, col quale aveva allora eccellenti rapporti, tanto da averne sostenuto con la solita baldanza l’elezione prima a presidente della Camera e poi a capo dello Stato, Marco Pannella confidò la cosa a Bettino Craxi. Che, convinto di avere ancora buone carte da giocare per tornare a Palazzo Chigi, da dove riteneva di essere stato allontanato malamente da Ciriaco De Mita nel 1987, con la storia di una staffetta con Andreotti prima promessa per l’ultimo anno della legislatura e poi negata, a sentire Pannella cadde dalle nuvole. Ma di brutto, perché se la prese subito con Martelli, essendo ancora convinto che Scalfaro gli fosse leale, come lo era stato al Ministero dell’Interno nei quattro anni di governo da lui presieduto: tanto leale non solo da avere rifiutato di prestarsi a fare il governo elettorale offertogli da De Mita, come ho già ricordato qui, ma anche da avere cercato e trovato una decina d’anni prima negli archivi del Viminale un documento da tutti negato in precedenza, ma utile alla difesa dei socialisti finiti sotto processo a Milano per gli attacchi ai pubblici ministeri che avevano indagato per l’assassinio di Walter Tobagi. Era un’informativa dei servizi segreti che nel 1980 aveva inutilmente   segnalato il pericolo di un imminente agguato mortale delle brigate rosse al famoso giornalista del Corriere della Sera, peraltro amico personale del leader socialista. Notizia di quell’informativa era stata data personalmente a Craxi all’indomani dell’uccisione del povero Walter dal generale dei Carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa.

Craxi girò la confidenza di Pannella sull’incontro di Scotti e Martelli con Scalfaro al segretario della Dc Arnaldo Forlani, facendo cadere dalle nuvole pure lui. Ed entrambi si ripromisero di punire, diciamo così, i due giovani aspiranti alla guida del nuovo governo o non confermandoli ai loro posto o lasciandoli proprio fuori. Ma né l’uno né l’altro ebbero poi la voglia di raccontare come fossero veramente andate le cose, dopo molti anni, ai magistrati di Palermo che li interrogarono sulle presunte trattative fra lo Stato e la mafia della stagione stragista. Essi diedero agli inquirenti l’impressione di essere stati sacrificati perché contrari a quelle trattative, contribuendo così all’impianto accusatorio del processo contro mafiosi, generali e uomini politici ancora in corso a Palermo. Ma da cui è stato già assolto, avendo scelto il rito abbreviato, l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, che pure era stato accusato di essere stato addirittura il promotore della trattativa per scongiurare una minaccia della mafia alla sua vita.

Non ci fu tuttavia soltanto l’incidente o l’equivoco della coppia Scotti-Martelli durante le consultazioni informali di Scalfaro per la formazione del nuovo governo. Ci fu anche, fra l’altro, una rovinosa fuga di notizie sui documenti pervenuti dalla Procura di Milano alla Camera, e assegnati subito alla giunta delle cosiddette autorizzazioni a procedere per Tangentopoli sul conto degli ex sindaci di Milano Paolo Pillitteri e Carlo Tognoli, entrambi socialisti. Il “verde”, ed ex direttore del Manifesto Mauro Passan fu indicato, a torto o a ragione, come fonte di quella fuga con interpretazioni troppo estensive di alcune parti dei fascicoli, da cui avrebbe ricavato , come esponente dell’apposita giunta di Montecitorio, l’impressione di un coinvolgimento anche di Craxi nelle indagini chiamate Mani pulite.

         Ricordo ancora nitidamente quella giornata in cui le agenzie avevano inondato le redazioni dei giornali di lanci a dir poco allarmanti sulla posizione giudiziaria del segretario socialista ancora in corsa per il ritorno a Palazzo Chigi. Nelle prime ore del pomeriggio, tornando a piedi da casa alla redazione del Giorno, di cui ero direttore, incrociai per caso in Piazza della Scala Antonio Di Pietro, il magistrato ormai simbolo di quell’inchiesta che stava demolendo la cosiddetta prima Repubblica.

Allontanata la scorta con un cenno di mano, “Tonino” mi disse che nelle carte partite da Milano per la Camera non c’erano elementi contro Craxi, di cui lui parlava volgendo lo sguardo verso la Galleria, cioè verso gli uffici milanesi del segretario del Psi. E mi preannunciò un comunicato della Procura, che in effetti fu diffuso dopo qualche ora per precisare che nulla risultava “allo stato” delle indagini contro Craxi. Il quale tuttavia il giorno dopo si trovò su tutte le prime pagine dei giornali ugualmente come uno ormai compromesso nell’inchiesta.

Non ricordo se l’ho già riferito ai lettori del Dubbio in altre circostanze riferendo del biennio “terribile” 1992-93, ma il clima nei giornali, ormai di tutte le tendenze, era tale che la sera di quel giorno mi telefonò l’amico Ugo Intini, portavoce di Craxi, per chiedermi come avessi deciso di uscire con la prima pagina del Giorno. Alla confidenza che sarei uscito col titolo sul comunicato di smentita diffuso dalla Procura, che ai miei occhi costituiva l’unica notizia certa della giornata rispetto a tutte le voci col condizionale diffuse dalle agenzie, Ugo mi chiese se poteva consigliare al comune amico Roberto Villetti, direttore dell’Avanti, di chiamarmi. Cosa che Villetti fece subito, ma non per consultarsi, come si aspettava il povero Intini, bensì per dissentire fermamente dal modo garantista in cui avevo deciso di titolare. Rimasi francamente di stucco.

Neppure Scalfaro al Quirinale dovette rimanere convinto del comunicato della Procura milanese se volle parlarne direttamente col capo Francesco Saverio Borrelli, peraltro figlio di un suo vecchio collega ed amico. L’impressione che ne ricavò l’uomo del Colle fu di paura di mandare a Palazzo Chigi un “amico” -quale ancora egli considerava il suo ex presidente del Consiglio- destinato prima o dopo ad essere davvero coinvolto nelle indagini, come avvenne a fine anno con i primi avvisi di garanzia, e poi anche con richieste di arresto.

Lo stesso Craxi mi raccontò di essersi sentito dire da Scalfaro all’incirca così: “Tu sai quanto ti stimi e ti voglia bene, ma è opportuno, anche nel tuo interesse, che tu faccia un passo indietro in questo momento. Dimmi tu stesso il nome di un socialista al quale io possa dare l’incarico”. E il 10 giugno, nel secondo ed ultimo giro di consultazioni, Craxi maturò la decisione del doloroso passo indietro. Che annunciò personalmente all’uscita dall’ufficio del capo dello Stato dicendo di avergli indicato “in un ordine non solo alfabetico” Giuliano Amato, già ministro con De Mita e suo sottosegretario a Palazzo Chigi, Gianni De Michelis e Claudio Martelli.

La delegazione della Democrazia Cristiana, ricevuta per ultima, non ebbe così neppure la possibilità di proporre Craxi, contro la cui destinazione si erano già espressi nel partito alcuni esponenti, fra i quali De Mita, convinti che Palazzo Chigi spettasse ancora alla Dc, nonostante il ritorno di un democristiano al Quirinale dopo il movimentato settennato di Cossiga.

Pertanto fu Amato l’uomo al quale Scalfaro diede l’incarico, che fu espletato con una certa difficoltà, avendo impiegato il nuovo presidente del Consiglio una decina di giorni , sino al 28 giugno, per la definizione del programma e soprattutto della lista. Dove Scotti risultò spostato dal Viminale alla Farnesina, che formalmente era una promozione, da lui però rifiutata perché Forlani aveva deciso di sperimentare dentro la Dc la incompatibilità fra le cariche di ministro e di deputato o senatore. Scotti reclamò inutilmente una deroga per conservare il mandato parlamentare, che alla fine preferì alla guida della diplomazia italiana.

Martelli invece entrò nella lista all’ultimo momento, dopo essere andato da Craxi, su suggerimento dello stesso Amato, per chiedergli di essere confermato al Ministero della Giustizia, come poi mi avrebbe raccontato lo stesso Craxi, per portare a termine il lavoro svolto col povero Giovanni Falcone, suo prezioso collaboratore sino alla morte -e che morte- come direttore degli affari penali del dicastero di via Arenula. E Craxi acconsentì, parendogli -mi disse- “una richiesta umanamente ragionevole”, lungi forse dall’immaginare che Martelli fosse destinato pure lui dopo qualche mese ad essere investito da Tangentopoli e costretto alle dimissioni.

Comunque, Martelli fu l’ultimo ministro e il primo governo di Amato l’ultimo sul quale il leader socialista riuscì a dire la sua, perché di fatto in quel mese di giugno di 25 anni fa al falconicidio col sangue, preceduto dall’ostracismo in vita praticatogli da tanti colleghi, seguì il craxicidio senza sangue.

I rapporti di Craxi con Scalfaro rimasero buoni ancora per poco. Col procedere delle indagini e del linciaggio politico da cui pochi lo difesero, neppure quando subì il famoso lancio di monetine e insulti davanti all’albergo romano dove abitava, e donde usciva per andare ad una trasmissione televisiva dopo essere scampato a scrutinio segreto ad alcune, le più gravi, delle autorizzazioni a procedere chieste contro di lui dalla magistratura, il leader socialista si fece del presidente della Repubblica l’idea da lui stesso raffigurata in una serie di litografie raffiguranti falsi “extratterestri”: finti inconsapevoli del finanziamento generalmente illegale della politica e delle forzature con le quali la magistratura aveva deciso di trattarlo. Oltre a Scalfaro, furono definiti extraterrestri anche Achille Occhetto, Eugenio Scalfari, Giorgio Napolitano e l’ormai compianto Giovanni Spadolini, la cui foto fu sostituito con un manifesto bianco listato a lutto.

Craxi stesso mi raccontò nel suo rifugio di Hammamet di avere scritto più volte al presidente della Repubblica, anche come presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, contro gli eccessi che stavano compiendo i magistrati, ma di non avere mai ricevuto una risposta, né diretta né indiretta. Il Quirinale non lo considerò più degno di riconoscimento alcuno. Ci vollero del resto la morte di Craxi e l’arrivo sul colle più alto di Roma di Giorgio Napolitano perché un presidente della Repubblica parlasse di lui riconoscendone il servizio politico reso al Paese e lamentando, fra le solite proteste dei manettari in servizio permanente effettivo, irriducibili anche di fronte alla morte, “la severità senza uguali” con cui era stato trattato dalla magistratura.

Proprio alla magistratura, vantando di averne fatto parte, Scalfaro nel suo discorso di insediamento, pronunciato il 28 maggio a Montecitorio, davanti alle Camere in seduta congiunta con la partecipazione dei delegati regionali, aveva chiesto “energia, serenità e perseveranza” parlando della “questione morale”.

Di energia e perseveranza sicuramente i magistrati si dimostrarono capaci nei mesi e negli anni successivi. Di serenità, francamente un po’ meno, nella sostanziale e incresciosa disattenzione proprio di chi l’aveva reclamata insediandosi al vertice dello Stato sull’onda peraltro di una strage neppure citata per luogo e per nomi nel discorso alle Camere, essendosi Scalfaro limitato a parlare di una “criminalità aggressiva e sanguinaria”, forse aiutata anche da qualche mano straniera. Di cui nessuno, a dire il vero, aveva avuto sentore a Capaci e dintorni.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio alle pagine 8 e 9 della Cultura col titolo: 25 anni la congiura che lo escluse da Palazzo Chigi. Così, con una fuga di notizie, infilzarono Craxi. E Persino Di Pietro disse……

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