Scalfari diserta la domenica elettorale

         Non è la prima e probabilmente non sarà neppure l’ultima domenica in qualche modo disertata da Eugenio Scalfari, che ha abituato i suoi lettori ad un appuntamento festivo dove spesso si trovano primizie per i tanti contatti che il fondatore di Repubblica continua ad avere riferendone al suo pubblico, a cominciare da quelli con Papa Francesco. Che non è ancora riuscito a convertirlo, ma manca poco, a meno di ancora più clamorose sorprese, come la conversione del Pontefice allo scetticismo religioso del suo amico.

         Questa che si è chiusa oggi è stata, del resto, una settimana più faticosa del solito per Scalfari, che si è dilungato nei giorni feriali sulla nuova amicizia politica contratta: quella col ministro piddino dell’Interno Marco Minniti, di origini calabresi come lui, ma nato proprio in Calabria, non a Civitavecchia, come Barbapapà. Vedrete che prima o dopo anche Minniti approderà nella scuderia dove Scalfari fa entrare e uscire i cavalli di razza della politica italiana, intesi anche come riserve della Repubblica, quella vera, cui potersi rivolgere nei momenti di emergenza.

         Ma, più che la stanchezza per l’interessamento a Minniti, hanno forse giocato sul silenzio domenicale di Scalfari lo sconcerto procuratogli dall’incidente occorso nell’aula di Montecitorio alla riforma elettorale e, soprattutto, la confusione che ne è derivata. O la salutare paura di mettere becco nelle elezioni amministrative alle quali sono stati chiamati oggi un migliaio di Comuni.

         A presto, comunque, carissimo Barbapapà.

Il povero Mammì tradito dalla sua legge sulle Tv

         Peccato che di Oscar Mammì, spentosi a più di 90 anni dopo un lungo e volontario allontanamento da una politica per la quale si era molto speso ricavandone alla fine più delusioni che soddisfazioni, si sia ricordata in morte solo o soprattutto la omonima legge del 1990. Che disciplinò per la prima volta in modo organico il sistema radiotelevisivo italiano legittimando finalmente la televisione privata, o commerciale. Che era allora soprattutto la televisione del Biscione, cioè della Fininvest di Silvio Berlusconi. Fu una legittimazione -con le sue tre reti competitive con quelle della Rai, che però continuarono ad essere protette dal canone- contrastata a tal punto dalla sinistra democristiana, e in fondo anche dallo stesso partito di Mammì, quello repubblicano, da provocare per protesta le dimissioni di alcuni ministri, fra i quali l’attuale presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Che era a capo della Pubblica Istruzione nel sesto governo di Giulio Andreotti.

         L’allora capo dello Stato Francesco Cossiga deluse le aspettative della sinistra del suo partito e del Pri sostituendo e basta, su proposta del presidente del Consiglio, tutti i ministri dimissionari. La crisi di governo sopraggiunse però lo stesso l’anno dopo, nel 1991, quando ci fu la tentazione di anticipare di un anno le elezioni per profittare della crisi del Pci, costretto a cambiare nome e simbolo dopo il crollo del muro di Berlino, cioè del comunismo. Dal settimo ed ultimo governo Andreotti il Pri, allora guidato da Giorgio La Malfa, volle tenersi fuori. E a Mammì come ministro delle Poste subentrò il socialdemocratico Carlo Vizzini.

         Uomo di spirito e di ottima cultura, Mammì rifuggiva dall’acredine di cui già allora soffriva la politica italiana, divisa in quegli anni non più fra i comunisti e gli anticomunisti ma fra i craxiani e gli anticraxiani. L’esponente repubblicano era stato iscritto d’ufficio fra i craziani già nel 1983, quando era diventato ministro per i rapporti col Parlamento nel primo governo del segretario sociaista. Vi lascio immaginare che cosa gli anticraxiani dissero di lui quando la sua legge mise al sicuro la televisione privata, e quindi di Berlusconi, a difesa della quale Craxi da presidente del Consiglio era già intervenuto togliendo con un decreto legge il blocco delle trasmissioni imposto dalla magistratura. Che se fosse durato ancora qualche giorno, avrebbe determinato il fallimento della Fininvest.

         Eppure Mammì era convinto di non aver dato a Berlusconi niente di più di quanto non gli spettasse nel rispetto dei principi costituzionali, una volta cessato l’anacronistico monopolio della Tv pubblica. E quando seppe che il suo consigliere Davide Giacalone, partecipe della preparazione della sua legge, era stato coinvolto nelle indagini su Tangentopoli, finendo poi assolto per alcune accuse e prescritto per altre, ci rimase molto male. 

         Mammì era convinto che i favori a Berlusconi fossero stati compiuti dopo la sua sostituzione al Ministero delle Poste: per esempio, quando per aggirare l’incompatibilità fra editore televisivo e editore di giornali fissata proprio dalla sua legge, fu permesso al presidente della Fininvest di sanare la situazione passando al fratello Paolo la proprietà del Giornale fondato nel 1974 da Indro Montanelli. Se fosse dipeso da lui, quella roba lì non sarebbe stata permessa.

         Ma di Mammì, per ricordarne ed elogiarne insieme la linearità, il coraggio e la preveggenza, vorrei riferirvi ciò che per molti sarà un inedito. Era il 1971. Già assessore molto apprezzato all’Annona del Campidoglio, Mammì era allora sottosegretario all’Industria e Commercio. Lo inclusi in lungo elenco di interviste per Il Giornale d’Italia allora diretto da Alberto Giovannini, dov’ero approdato dal Momento Sera, sul tema della Repubblica presidenziale. Che era sostenuto, anche a costo di essere scambiato -lui, un antifascista di prim’ordine, per un uomo di estrema destra- da Randolfo Pacciardi, lo storico ministro della Difesa di Alcide De Gasperi, espulso dal Pri per decisione personale di Ugo La Malfa quando si era opposto al passaggio dal centrismo al centrosinistra.

         Ebbene, Mammì non solo condivise la prospettiva di una Repubblica presidenziale, che De Gaulle del resto aveva già realizzato in Francia senza essere per questo scambiato per un fascista, ma indicò un pericolo da nessuno avvertito in quel momento: che da parlamentare, quale era stata voluta dai costituenti, la Repubblica italiana finisse per diventare giudiziaria a causa del crescente potere dei magistrati. Che con le loro sentenze e iniziative cominciavano già allora a sostituirsi ai legislatori.

         Eravamo soltanto -pensate un pò- agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso. Il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati sarebbe arrivato solo nel 1987, per essere peraltro tradito dopo qualche mese con una legge che vanificò il verdetto degli elettori. E la decapitazione giudiziaria della cosiddetta prima Repubblica sarebbe arrivata solo fra il 1992 e il 1993.

 

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Oscar Mammì fra Tv, ironie e presidenzialismo

 

 

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