Attenti agli stress da campagna elettorale

         Per far capire i danni già procurati e quelli che ancora più gravi potrà procurare questa lunghissima, interminabile campagna elettorale in corso ormai da più di un anno, da quando cominciò praticamente la campagna referendaria sulla riforma costituzionale, incattivita nella sua prosecuzione dalla bocciatura del governo, ci sono voluti i disordini scoppiati nell’aula del Senato per l’esame della legge chiamata impropriamente “ius soli”. Impropriamente, perché la legge tanto contestata da grillini, leghisti ed altri non assegna automaticamente la cittadinanza a chi nasce in Italia da genitori stranieri, come accade negli Stati Uniti e in tutti gli altri paesi dove vige appunto lo “ius soli”, ma comporta un certo corso di formazione e di studi. Purtroppo da noi, si sa, si scopiazzano allegramente leggi e nomi, magari latinizzandoli, come accade con le norme elettorali. E chi cerca di farlo notare, com’è accaduto qualche sera fa in televisione a Vittorio Zucconi polemizzando col risegretario del Pd Matteo Renzi proprio sullo “ius soli” di casa nostra, viene trattato e liquidato come un rompiscatole.

         In questa interminabile- ripeto- campagna elettorale, finalmente lamentata anche dall’amico Marcello Sorgi su La Stampa, dopo le botte e gli insulti nell’aula di Palazzo Madama, ne abbiamo viste e ne vedremo ancora di tutti i colori, per cui continuo a considerare insensata la resistenza -al minuscolo, molto minuscolo- alla fine di questa disgraziata legislatura. Disgraziata anche nel numero che porta: il 17. Una resistenza insensata -ripeto- qualunque sia la motivazione: dalla più nobile, come il rispetto quasi della buona educazione istituzionale invocato dal presidente, a questo punto, fortunatamente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano, o come l’opportunità -invocata questa volta dal presidente effettivo, Sergio Mattarella- di “omogeneizzare” le due leggi diverse, per la Camera e per il Senato, confezionate con le forbici, l’ago e il filo dei giudici della Corte Costituzionale, o come la necessità di non lasciare incompiuti i percorsi parlamentari di tanti provvedimenti, alla più miserabile delle ragioni. Che è naturalmente quella di non far perdere qualche mese d’indennità e rimborsi spese ai parlamentari eletti, cioè nominati dai loro partiti, nel 2013 e ad una buona parte di essi, essendo di prima nomina, anche il diritto al cosiddetto vitalizio, o come altro si voglia o si debba ora chiamare la pensione dell’ex onorevole.

         Tutto in campagna elettorale diventa non caldo, ma caldissino, anzi rovente. Ogni pretesto è buono per drammatizzare un problema e cercare di ricavare qualche voto in più per sé o toglierne ad altri. Poi si lamentano, questi strateghi da strapazzo delle legislature da portare alla scadenza ordinaria ad ogni costo, che gli elettori non li capiscano e vadano infine a votare sempre meno numerosi, quando finalmente sono chiamati alle urne. C’è notoriamente uno stress anche da ansia.

         Fra gli inconvenienti delle campagne elettorali interminabili c’è pure il mercato, diciamo così, delle candidature, in qualche modo paragonabile al mercato dei calciatori, che pure ha una sua stagione ben regolata. Particolarmente solerte, in questa materia, si sta mostrando Silvio Berlusconi, al quale se ne attribuiscono ogni giorno di tutti i colori e sapori, dagli aspetti talora più comici che drammatici. E sempre nella presunzione, favorita dalle leggi elettorali, sia quelle in vigore sia quelle in cantiere, che un candidato possa già considerarsi eletto perché unto dal signore, con la minuscola naturalmente, per non fare torto all’altro, con la maiuscola, che deve avere da tempo voltato lo sguardo dall’altra parte del nostro infelice Paese per non arrabbiarsi.

I 90 anni di Bettiza ignorati dai giornali da lui onorati col suo lavoro

         Lasciate che mi disinteressi un pò delle solite, pasticciate vicende della politica italiana, con mezzo Parlamento appeso alla crisi ora anche elettorale del movimento grillino e agli effetti che potrebbero derivarne all’ennesima riforma elettorale in cantiere a Montecitorio, per abbracciare a distanza il collega ed amico Enzo Bettiza. Che ha appena compiuto i suoi 90 anni osservando con giustificato disincanto le vicende di un’Italia che ha amato e raccontato con grande passione e competenza da giornalista, scrittore e politico, avvolto nella sua cultura e formazione mitteleuropea, essendo nato il 7 giugno 1927 a Spalato. Da dove venne esule nella pur sua Italia alla fine della seconda guerra mondiale, approdando particolarmente in terra pugliese per poter continuare a respirare l’aria degli ulivi dalmati. E lo ha raccontato spesso con nostalgia, orgoglio e una certa complicità a me, che sono nato proprio in Puglia quasi 12 anni dopo di lui.

         Indro Montanelli, che senza l’aiuto di Enzo, la sua conoscenza degli uomini, la sua finezza culturale, non avrebbe potuto compiere nel 1974 la coraggiosa scissione dal Corriere della Sera, ormai rassegnato al cosiddetto compromesso storico fra la Dc e il Pci come esperienza non provvisoria ma permanente, in una edizione un po’ scalcagnata di quella che aulicamente sullo stesso Corriere l’allora direttore Giovanni Spadolini aveva chiamato “Repubblica conciliare”, con un Tevere sempre più stretto, quasi prosciugato, invidiava a Bettiza un po’ tutto. Così commentò il comune amico Carlo Donat-Cattin la rottura consumatasi fra i due nel 1983, nove anni dopo la fondazione del Giornale allora nuovo: una rottura consumatasi sul problema della valutazione di Bettino Craxi e della sua politica, nell’occasione o col pretesto, come preferite, del rifiuto opposto da Montanelli ad un mio editoriale in difesa dell’allora segretario del Psi dagli attacchi congiunti dei comunisti e della sinistra democristiana.

         I due fecero per fortuna in tempo a riconciliarsi prima della morte di Montanelli, condizionato -pace all’anima sua- nello scontro con lo storico collaboratore, di cui a lungo aveva condiviso anche la stanza nel Giornale, dai soliti, immancabili cortigiani di redazione, ma anche esterni. Penso, fra gli altri, agli amici di Ciriaco De Mita che lusingavano Montanelli raccontandogli dei suoi libri che affollavano la libreria di famiglia dell’allora segretario della Dc, e gli garantivano addirittura l’anticomunismo “intimo” del loro amico irpino.

         Montanelli cadde nella trappola, mentre noi trovavamo temporanea ospitalità nei giornali di Attilio Monti, salvo pentirsene dopo qualche anno dando a De Mita del camorrista e finendo trascinato da lui in tribunale.

         Più dei numerosi e meritati premi letterari, delle soddisfazioni politiche avute prima nel Senato italiano e poi nel Parlamento Europeo e della felice combinazione di liberalismo e socialismo tradottasi nella formula del lib-lab, diede soddisfazione ad Enzo Bettiza proprio quell’epilogo della sbandata di Montanelli per De Mita. Che era stata un pò, diciamo la verità, la nostra comune rivincita sulla rottura consumatasi nel 1983, mentre peraltro Craxi si avviava a Palazzo Chigi, nonostante De Mita.

         Anche Montanelli forse ritenne di prendersi poi una rivincita su di noi quando le cose andarono malissimo per Craxi. Ma fu una rivincita a carissimo prezzo, pagato dal direttore del Giornale con l’allineamento al peggiore giustizialismo, che a suo modo era anche il peggiore conformismo: una riedizione giudiziaria del compromesso storico contro il quale Montanelli e Bettiza avevano insieme consumato la loro coraggiosa e già ricordata scissione dal Corriere della Sera.

 

 

 

 

Pubblicato da Il Dubbio a pagina 14 dei commenti

 

 

 

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