Pietà per la zarina del Campidoglio Virginia Raggi

         Di fronte al sostanziale preannuncio del rinvio a giudizio della sindaca grillina di Roma Virigina Raggi per falso e abuso d’ufficio, ora che l’inchiesta della Procura è finalmente chiusa, non riesco a riconoscermi né nel giubilo degli avversari politici del Movimento delle 5 stelle né nel sollievo dei suoi sostenitori o fiancheggiatori. Che hanno probabilmente condiviso la soddisfazione del solito Fatto Quotidiano dell’altrettanto solito Michele Travaglio perché i capi d’imputazione della sindaca sono scesi da cinque a due, dovendo probabilmente rispondere la signora solo della nomina, a suo tempo, di un Romeo a capo della sua segreteria e del fratello dell’allora suo braccio destro Marra a capo di un dipartimento comunale, essendo parsa eccessiva la sua promozione, che pure era in cantiere e sarebbe stata legittima, da vice capo a comandante dei vigili urbani: quelli che una volta a Roma si chiamavano pizzardoni. Ora quasi più nessuno li chiama così, anche perché obiettivamente presenti più negli uffici che nelle piazze e per le strade, pure in occasione dei peggiori ingorghi, quando basterebbe un vigile, un solo vigile, con tanto di fischietto, a sbloccare il traffico.

         Più banalmente o semplicemente, considero il processo in cantiere contro la Raggi una cosa superflua, inutile. Nè quel Romeo è più il capo della sua segreteria, né quel Marra è più il capo di un dipartimento. Se qualche danno è stato arrecato all’amministrazione comunale dai compensi che i due hanno per un certo tempo percepito con troppa generosità da parte della sindaca, dovrebbe bastare e avanzare, in un sistema ispirato al buon senso, una bella multa a suo carico, o una condanna amministrativa a rimetterci di suo per pareggiare i conti. Un processo penale mi sembra un’enormità, per quanto non abbia certamente votato per la vittoria della Raggi nel ballottaggio dell’anno scorso che la portò al vertice del Campidoglio.

         Per chi fa politica, a qualsiasi livello, locale o nazionale, la perdita di consenso è più che sufficiente a penalizzarlo. Più che l’imminente -credo -rinvio a giudizio e la probabile condanna, nuocciono alla Raggi, e a una sua eventuale ricandidatura a sindaco nel prossimo turno elettorale, le buche sulle strade della Capitale, ad ognuna delle quali quando uno vi cade o rompe la macchina o il motorino, corrisponde un’imprecazione, un voto in meno e spesso anche una causa con tanto di danni prima o dopo risarciti. O la “monnezza” che si spreca, col contorno di topi, cinghiali, cani, gatti e gabbiani. O i cortei quasi giornalieri che la sindaca contribuisce a rovesciare su una città esausta.

         Non parlo poi degli inconvenienti che procurano alla sindaca di Roma le risse e le faide interne al suo movimento, dove si sprecano i commissari politici che le vengono assegnati con l’effetto spesso di complicarle la vita e di aggravare i problemi obiettivamente ereditati dalle precedenti amministrazioni.

         Pietà, quindi, per la Raggi. Così come avrebbero dovuto invocare gli avversari di Silvio Berlusconi di fronte a certi accanimenti giudiziari praticati dopo che il presidente di Forza Italia, del presidente del Consiglio e di quant’altro già pagava cari i suoi errori comportamentali perdendo voti e parlamentari.

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Perchè, da non grillino, mi pare un’ermomità il processo penale contro Virginia Raggi

Lo zampino di Travaglio nella crisi del giornale l’Unità

Chi salva una vita salva il mondo intero, dice giustamente e orgogliosamente il Talmud, che anche i non ebrei hanno imparato a conoscere e ad apprezzare vedendo uno dei più celebri, se non il più celebre in assoluto dei film sulla shoah.

Ebbene, con la passione che ho per il mio mestiere e, insieme, per la democrazia credo di non esagerare parafrasando il Talmud per commentare così la riscomparsa dalle edicole, spero la più temporanea possibile, dell’Unità: chi salva un giornale salva la libertà di tutti. O di tutti gli altri giornali, come preferite.

Nonostante o proprio a causa delle polemiche che mi è capitato di avere con l’Unità dei tempi migliori, quando vendeva centinaia di migliaia di copie realizzando un po’ il sogno di Palmiro Togliatti di farne “il Corriere della Sera dei lavoratori”, intesi naturalmente come elettori reali o potenziali del suo partito, non mi dispiace soltanto ma mi offende il modo in cui è riscomparso il giornale storico non solo del Pci ma della sinistra italiana, fondato nel 1924 da Antonio Gramsci, due anni prima di essere arrestato dai fascisti, per quanto deputato in carica. Un giornale destinato ad aggiungersi per molti anni, non a sostituirsi, come altri forse avrebbero preferito, all’ancora più storico Avanti! socialista, fondato nel 1896, addirittura nella notte di Natale, da Leonida Bissolati.

Trovo non solo comprensibile, ma giustificata, per l’indubbio coinvolgimento del risegretario del Pd nella vicenda, la rabbia non dell’ultimo, spero, ma dell’uscente direttore dell’Unità Sergio Staino, che a Matteo Renzi gliene ha dette di tutti i colori in una intervista a Luca Telese. Al quale non è parso vero di raccoglierne da sinistra lo sfogo, pur su un giornale di destra come La Verità di Maurizio Belpietro, in un intreccio di contraddizioni che non mi scandalizza più di tanto, preferendo vedere una dimostrazione di libertà anche in questo.

Solo Belpietro poteva d’altronde chiamare poco conformisticamente il suo giornale di destra, nato da una scissione di Libero dopo il ritorno di Vittorio Feltri al timone editoriale, con la traduzione italiana della Pravda, la storica testata del partito comunista sovietico.

A Renzi, incapace di evitare la riscomparsa dell’Unità, un po’ per la serie di chi se le va a cercare, Staino ha dato -dicevo- direttamente di tutto, senza nascondersi dietro Bobo o altre creature delle sue inconfondibili vignette: “cafone” “ignorante”, “bugiardo seriale”, destinato a perdere facendo però perdere, con lui, tutti quelli che gli hanno creduto e lo hanno aiutato. A cominciare dallo stesso Staino, offertosi generosamente alla direzione del giornale storico della sinistra ma incaricato alla fine proprio dall’allora segretario del Pd e insieme presidente del Consiglio, l’anno scorso, a rilanciare la testata in crisi di diffusione “non schiacciandolo sul governo”. Che era peraltro alle prese, in quel momento, con la dannata –vistane la conclusione- campagna referendaria sulla riforma costituzionale. Per la quale Staino non è per niente pentito di avere votato sì, così come non è pentito di essersi scontrato per quella riforma e per altro ancora con la Cgil di Susanna Camusso, troppo “retrogada e oscurantista” per i suoi gusti. Che sono quelli, felicemente a dispetto della sua età, di un riformista spinto, convinto che la sinistra non possa sopravvivere senza mettersi al passo coi tempi, ma anche senza per questo confondersi con la destra, come un po’ apparve subito a Staino il condirettore Andrea Romano, assegnatogli in persona da Renzi: un Romano tanto deciso a “leccargli il culo”- parola di Staino- da avere cercato di impedire durante la campagna referendaria la pubblicazione di un articolo di Marcelle Padovani, mica l’ultima arrivata, favorevole alla riforma costituzionale ma contenente, all’inizio, alcune critiche all’allora presidente del Consiglio.

Quella volta fu il deputato toscano onnipresente nei salotti televisivi per conto di Renzi a prenotarsi la rimozione, seguita qualche mese dopo. Ora è toccato al povero Staino perdere il giornale per l’inerzia di Renzi di fronte al rifiuto del costruttore Massimo Pessina di continuare a finanziarlo: un rifiuto, debbo dire, anche se Staino ha omesso di precisarlo, in qualche modo incoraggiato o addirittura provocato dal concorrente Fatto Quotidiano di Marco Travaglio con una campagna sulle contropartite economiche che il capo del Pd avrebbe promesso, e non sarebbe stato quindi più in grado di assicurare di fronte al clamore di uno scandalo, vero o presunto che fosse.

Coi tempi che corrono, specie nelle Procure, solo un eroe avrebbe potuto continuare a finanziare un giornale rimettendoci dei soldi ed esponendosi contemporaneamente al sospetto di chissà quali favori avesse avuto o stesse ancora ricevendo dal socio di minoranza rappresentato da una società del Pd.

Allo sfogo forte e condivisibile di Staino contro l’abitudine, secondo lui, di Renzi di “non esserci” quando e dove occorre, è mancato solo –diciamoci la verità- un sonoro ed esplicito vaffanculo, scusatemi, alla maniera di Grillo. Che è un altro ad avere seri problemi con i giornali e, più in generale, con la libertà di stampa.

Eppure, diavolo di un uomo, il comico delle 5 stelle è riuscito a sorprendermi se ha autorizzato –e non è stato invece spiazzato pure lui- la sindaca di Roma Virginia Raggi a tentare un consuntivo accettabile del suo primo anno di esperienza alla guida della Capitale e di impegnarsi a fare meglio scrivendo una bella lettera non al Fatto Quotidiano ma al Messaggero dell’odiato editore Francesco Gaetano Caltagirone, visto che a Roma vende più copie del giornale di Travaglio. Un po’ di realismo, evidentemente, non dispiace neppure a Grillo, quando gli fa comodo.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio del 21-6-2017 a pagina 14 dei commenti

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