Napolitano sbugiarda Occhetto su Rodotà e Craxi

         C’è forse chi è riuscito a fare peggio di Beppe Grillo col povero Stefano Rodotà, già liquidato in vita dal comico genovese come “ottuagenario miracolato dalla rete, sbrinato di fresco dal mausoleo” e ignorato da morto sui siti dello stesso Grillo e del suo movimento. Che pure quattro anni fa -mica nel secolo scorso- lo avevano candidato al Quirinale, compromettendone con ciò stesso l’elezione. Essa avrebbe infatti assunto il sapore di una scelta antipolitica, per quanto condivisa improvvidamente lì per lì dall’interessato, arrivato onestamente e coerentemente, com’era nel suo temperamento e nella sua cultura istituzionale, a riconoscere e denunciare nel giro di poco tempo la conduzione e forse anche l’essenza per niente democratica del partito grillino, procurandosi gli insulti citati con tanto di virgolette all’inizio di questa nota.

         A comportarsi peggio di Grillo, certamente sul piano politico, è stato Achille Occhetto in una intervista nella quale ha adoperato Rodotà contro un altro morto: il mai abbastanza odiato, evidentemente, Bettino Craxi. Al quale l’ultimo segretario del Pci e primo del Pds ha attribuito il colpo finale e decisivo inferto nel lontano 1992 alla candidatura di Rodotà a presidente della Camera, dopo che Oscar Luigi Scalfaro, insediatosi da poco al vertice di Montecitorio, era stato eletto al Quirinale sotto l’onda emotiva e politica della strage di Capaci, dove la mafia aveva assassinato Giovanni Falcone, la moglie e buona parte della scorta.

         Al posto di Scalfaro, e del suo vice Rodotà, che era anche presidente del Pds-ex Pci, fu eletto invece Giorgio Napolitano, per il quale, secondo la ricostruzione occhettiana dei fatti, giocò la preferenza dell’allora segretario socialista. Che pure non sarebbe stato poi tenero col nuovo presidente della Camera, avendogli dedicato negli anni della “latitanza” ad Hammamet una delle litografie contro gli “extratterestri” ignari del finanziamento illegale praticato anche dai loro partiti, e non solo dal Psi, trattato invece come capro espiatorio di una lunga stagione tangentizia.

         A smentire Occhetto, e a sbugiardarne il tentativo di fare del povero Rodotà una vittima di Craxi, ha onestamente e lealmente provveduto lo stesso Napolitano raccontando in una intervista a Repubblica, reduce da una visita alla camera ardente dello scomparso giurista, e suo amico personale, come fossero andate veramente le cose in quella stagione già troppo carica di veleni per poterne decentemente aggiungere altri dopo tanti anni.

         “Quando nel 1992 fui scelto dal partito per la presidenza della Camera -ha detto testualmente Napolitano- Stefano aveva molti titoli per ricoprire quel ruolo, ma dal canto mio godevo di un larghissimo consenso nel Pds, che voleva esprimere una sua figura. Così prevalse il mio nome”. La vicenda quindi fu tutta interna al Pds, dove Occhetto, che si è appena vantato di avere sostenuto Rodotà, fu messo evidentemente in minoranza. Craxi quindi non c’entrò per niente.

         D’altronde, quando si decise, dopo la strage di Capaci, che aveva interrotto tragicamente la corsa al Quirinale, di scegliere il capo dello Stato fra i presidenti delle due Camere il Pds preferì Scalfaro a Giovanni Spadolini, presidente del Senato, proprio per liberare il vertice di Montecitorio a beneficio di Napolitano, considerato il più rappresentativo della storia del principale partito della sinistra: più rappresentativo dello stesso Rodotà, che ne era il presidente, è vero, ma in omaggio più alla discontinuità, rappresentata dal cambio del nome e del simbolo del vecchio Pci, che alla continuità.

         Lo stesso Rodotà dovette alla fine rendersene conto se Napolitano ha potuto concludere il racconto così: “Non dubito che Stefano ne abbia tratto motivi di amarezza, ma in quei giorni avemmo modo di parlarne. E poi sul contrasto sarebbe prevalsa la collaborazione”.

 

 

 

 

        

 

 

 

         

        

        

Berlusconi vince i ballottaggi ma non gode. O finge di godere.

       Paradossalmente, ma non troppo, mai ritorno come quello appena vantato e riconosciuto a Silvio Berlusconi con le numerose e importanti vittorie nei ballottaggi conunali, a cominciare dalla Genova ex rossa, è stato così scomodo per il principale interessato. Che avrebbe avuto interesse, sempre paradossalmente ma non troppo, ad un risultato più contenuto. Come lui raccomanda di essere ai suoi avversari quando lo attaccano troppo, con sconfinamenti nelle vicende personali, anche quando non c’entrano, o c’entrano solo di striscio nella sua avventura politica ormai ultraventennale.

         Si può ben dire che l’ex Cavaliere, ancora in attesa anche di una riabilitazione giudiziaria in sede europea dopo la condanna definitiva per frode fiscale, nel 2013, e la conseguente decadenza dal Parlamento, vince ma non gode. O canta vittoria pìù per dovere di copione che per convinzione, sapendo bene che è una vittoria più di Pirro che vera, specie nel contesto di un astensionismo da capogiro. E’ infatti un successo che Berlusconi non può aggiudicarsi del tutto e che nell’ambito del centrodestra rafforza più la Lega di Matteo Salvini che la sua Forza Italia, e in Forza Italia più gli amici per disciplina che quelli per convinzione.

         La prova di questa situazione, ripeto, paradossale ma non troppo sta nella preferenza che l’ex Cavaliere continua a dare, anche dopo i vittoriosi ballottaggi comunali, ad una nuova legge elettorale più proporzionale che maggioritaria. Che pure -quella maggioritaria, di qualsiasi tipo, con o senza collegi uninominali, con o senza grandi premi di governabilità- dovrebbe essere da lui sostenuta se volesse davvero scalare il governo con una riedizione del centrodestra, capace di vincere anche in un quadro cosiddetto tripolare, prevalendo sia sull’improbabile coalizione “larga” di centrosinistra, con Matteo Renzi oggettivamente indebolito dai ballottaggi, sia sui solitari grillini, inchiodati alla loro vantata e presunta “diversità” come i comunisti degli anni peggiori, non migliori, del berlinguerismo.

         Una vera coalizione elettorale a livello nazionale con la Lega e la destra di Giorgia Meloni, più i frammenti centristi considerati perdonabili di tradimento e quant’altro, diventerebbe scomodissima per Berlusconi con l’applicazione al Senato dell’Italicum corretto dalla Corte Costituzionale. Che è notoriamente basato sul premio di maggioranza alla lista, per cui obbligherebbe il presidente di Forza Italia ad un listone unico con gli alleati, aumentando nel cosiddetto centrodestra il potere contrattuale di Salvini.

         L’ex presidente del Consiglio potrà pur continuare a vantarsi della sua collocazione “moderata”, in Italia e in Europa, dove appartiene allo stesso partito della cancelliera tedesca Angela Merkel, ma la consistenza elettorale della sua Forza Italia non è più doppia o addirittura tripla rispetto alla Lega, ma pari, o quasi. E da questa condizione ne derivano tante altre, tutte scomode per Berlusconi: a cominciare dalla cosiddetta leadership, a prescindere dalla questione pur rilevante della candidabilità ancora preclusagli per ragioni giudiziarie alla carica di parlamentare, e ancor più a quella di presidente del Consiglio.

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Ecco come e perché Silvio Berlusconi finge di festeggiare dopo i ballottaggi

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