Il fortino dove Conte cerca di rinchiudersi con la sua scorta

            Più ancora dell’uso della scorta anche per proteggere la compagna dalle curiosità invadenti dei giornalisti, di cui ha finito per doversi occupare la Procura di Roma, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte comincia ad avere problemi di comunicazione politica, e di rapporti con gli alleati, per la corazza con la quale ha deciso di proteggere il suo secondo governo dalle minacce che arriverebbero dalle prospettive di un rimpasto.

            Ancora oggi, forse anche forte dei dubbi attribuiti a questo proposito al presidente della Repubblica in persona, chiamato in causa ieri dal quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda, il presidente del Consiglio ha affidato ad un “colloquio” con Monca Guerzoni, sempre del Corriere, un altro messaggio contro chi all’interno della maggioranza vorrebbe costringerlo, con tutti i problemi che ha il paese, fra emergenze sanitarie, economiche e sociali, ad assecondare le solite, meschine “ambizioni” di chi “spera in ruoli più importanti”.

            A questo punto però è sbottato a suo modo, con la calma di un mite quale generalmente è rappresentato da chi lo conosce e frequenta bene, il direttore in persona del giornale più diffuso d’Italia, Luciano Fontana, per mettere qualche puntino sulle i di questo dibattito che si sta soprapponendo a tutti gli altri e minaccia di complicare terribilmente una situazione già troppo compromessa di suo.

            Facile pure lui, per carità, a prendere i suoi abbagli ma anche lesto a non ripeterli, come quando scambiò l’allora capo del Movimento 5 Stelle Luigi Di Maio per un emulo addirittura di Giulio Andreotti, il direttore del Corriere ha preso al volo l’occasione offertagli da due lettori per trasferire ed esporre in prima pagina la convinzione che forse non basterebbe neppure più un rimpasto per rimediare ad una situazione politica diventata troppo precaria, inadeguata e quant’altro rispetto alle esigenze del Paese. “E’ possibile -ha chiesto Fontana, forse pensando rispettosamente anche a Mattarella- che la ricostruzione economica sia gestita con la confusione di questi giorni, con dispute ideologiche e ultimatum mirati solo a non disturbare la pace interna dei partiti, soprattutto del Movimento 5 Stelle) o a rilanciare ambizioni personali?”, come le chiama Conte pesando però solo a quelle che non gradisce. “Ogni scelta decisiva- ha ricordato il direttore del Corriere– è appesa a pochi voti in Senato, che possono svanire e consegnare l’esecutivo solo a infinite mediazioni e decisioni al ribasso. Non è più utile cominciare a ragionare su un coinvolgimento di gran parte delle forze politiche in uno sforzo di responsabilità nazionale indispensabile in questa situazione?”. Fa tanta paura -mi chiedo- lo spettro di Mario Draghi?

            Non meno stringente è il discorso di Fontana quando ricorda che “dobbiamo scalare una vetta altissima e non riesco a capire come si possa fare senza coinvolgere tutto il meglio dell’Italia in termini di competenza, autorevolezza, capacità di progettazione. Non ci si può chiudere in un fortino”, magari per scoprire che è come quello sardo di Bitti.

 

 

 

 

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I presunti dubbi del Colle che tanto piacciono a Conte e ai grillini

            Quei “dubbi del Colle sul rimpasto di governo” annnunciati su tutta la prima pagina del Corriere della Sera, e rilanciati con molto minore evidenza dal manifesto come “gelo” del Quirinale “sul rimpasto 2021”, atteso, temuto e quant’altro all’indomani dell’approvazione del bilancio, debbono aver fatto tirare un sospiro di sollievo sia al presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che ancora nega contro ogni evidenza che qualcuno nella maggioranza giallorossa gli abbia davvero chiesto un’operazione del genere, e al capo della delegazione grillina al governo, il guardasigilli Alfonso Bonafede. Che ha appena formalizzato, diciamo così, il suo no ad un’operazione che potrebbe peraltro comprometterne gradi e quant’altro, essendo la condizione del suo movimento alquanto volatile, quasi quanto il fumo delle sigarette elettroniche che lo ha avvolto nelle polemiche degli ultimi giorni, come un qualsiasi partitino della cosiddetta prima Repubblica che si lasciava finanziare dal petroliere di turno.

             Lesto come al solito, Aldo Grasso in fondo alla stessa prima pagina del Corriere della Sera ci ha ricamato sopra, diciamo così, chiedendo a Beppe Grillo, amici e soci di non fnire come “venditori di fumo” più ancora di quanto non abbiano già fatto con le loro mancate rivoluzioni palingenetiche, a cominciare dalla sconfitta della povertà con il cosiddetto reddito di cittadinanza. Sul quale gli esperti veri o presunti del ramo hanno ravvisato considerazioni autocritiche, tardive ma pur sempre apprezzabili, in una specie di saggio affidato dall’ex capo del movimento 5 Stelle Luigi Di Maio alla generosità ospitalità del Foglio.

Non credo tuttavia che uguale soddisfazione abbiano provato, leggendo dei “dubbi” del Colle, ai vertici del Pd, dove cronisti e retroscenisti di Repubbica, per esempio, non proprio l’ultimo giornale italiano, hanno continuato a raccogliere notizie e voci su malumori verso il presidente del Consiglio, specie dopo avere appreso che, con l’aria di non volere accentrare la preparazione dei piani d’uso dei fondi europei per la ripresa, egli sta approntando una sala di cosiddetta regìa di non meno di trecento persone. Che Il Giornale della famiglia Berlusconi, appena elogiata pubblicamente per senso di responsabilità e coraggio dal capo della delegazione del Pd al governo, il ministro della Cultura Dario Franceschini, ha già liquidato forse non a torto come “un carrozzone”.

            D’altronde, a ben leggere e rileggere l’articolo del quirinalista del Corriere Marzio Breda sui dubbi del Colle tanto utili a Conte e ai grillini si trovano più condizionali del solito, e soprattutto una contraddizione direi insolita per l’abituale puntigliosità del cronista. Il quale, in particolare, da una parte scrive che l’operazione rimpasto potrebbe complicare più che sciogliere i nodi per conciliare lotta alla pandemia e ripresa economica, ma dall’altra si chiede se le forze della maggioranza “credono fino in fondo alla formula in base alla quale hanno finora scelto di stare insieme e che mostra già parecchie fragilità”. Ma allora di che cosa parliamo, di grazia? A quali e quante altre “fragilità” dobbiamo prepararci e rassegnarci ?

 

 

 

 

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Quella banana offerta come vaccino al presidente del Consiglio

          Beh, di fronte alle paure attribuite a Giuseppe Conte dai retroscenisti di fronte alle prospettive del suo secondo governo, dopo il quasi azzeramento dei confini tra maggioranza e opposizione di centrodestra verificatosi in Parlamento sull’ultimo scostamento di bilancio, sia pure di “soli” otto miliardi di euro destinati però nella perdurante pandemia più agli elettori di Silvio Berlusconi e alleati che ad altri, ci sta tutta quella banana che il buon Francesco Tullio Altan ha offerto nella vignetta di prima pagina di Repubblica come “vaccino” al presidente del Consiglio.

            Ci sta proprio tutta anche di fronte ai risultati dell’ultimo sondaggio effettuato dall’Ipsos di Nando Pagnoncelli per il Corriere della Sera. Da cui risulta che il governo ha perso nell’ultimo mese quasi dieci punti di gradimento, scendendo al livello più basso, e che le opposizioni continuano a prevalere elettoralmente sulle forze della maggioranza, con la Lega in testa -al 25 per cento dei voti- nonostante “le pile del walkie-tallkie scariche” di Matteo Salvini certificate nell’officina del Fatto Quotidiano di Marco Travaglio. Cui fa da spalla, su un versante solo virtualmente opposto, e non per la prima volta, Il Foglio di Giuliano Ferrara e di Claudio Cerasa proponendo lo stesso Salvini ormai stanco di seguire il Cavaliere, anche nelle più sorprendenti operazioni parlamentari, e voglioso di “predellino”. Che sarebbe qualcosa di analogo a quello cu sui Berlusconi saltò negli anni passati per annettersi le altre componenti del centrodestra, senza fare i conti peraltro con la disinvoltura politicamente suicida di Gianfranco Fini. Di cui giustamente si sono perse poi le tracce, salvo che in qualche tribunale, dove proprio l’ex leader della destra pensava di poter disarmare e confinare l’ingombrante uomo di Arcore.

            Oltre alla cattiva sorpresa della conferma della prevalenza elettorale del centrodestra, nonostante una certa confusione esistente anche in questa parte dello schieramento, dove c’è qualcuno, per esempio, che ha preso sul serio una specie di manifestino di aggiornamento culturale e politico di Luigi Di Maio affidato come un inedito di Giacomo Leopardi sempre al generoso Foglio della coppia Ferrara-Cerasa, il sondaggio di Pagnoncelli ha certificato l’ormai consolidato superamento dei grillini da parte dei fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, attorno al 15 per cento dei voti. Per cui il Pd di Nicola Zingaretti, per quanto malmesso pure lui tra le indecisioni dello stesso Zingaretti, gli scavalchi e aggiramenti del mobilissimo alleato Matteo Renzi e gli oracoli altalenanti del sempre più incontenibile Goffredo Bettini, pur costretto dalle circostanze a meditare scalzo in un modesto appartamento romano del quartiere Prati, può ben sentirsi in Paradiso col suo 20 per cento e rotti di voti. E creare non pochi, direi anzi drammatici problemi a Conte in quell’operazione “rimpasto” di governo da odiatissima “Prima Repubblica” che il presidente del Consiglio teme giustamente -dal suo punto di vista- come un supplemento di pandemia pensando al magma grillino da cui è nata la sua inattesa esperienza di Palazzo Chigi.

            Che in questa situazione il dibattito politico sia segnato anche dalle polemiche sulla reale data e ora di nascita di Gesù Cristo per valutare il caso di anticiparla dai 60 ai 120 minuti la sera del 25 dicembre in funzione antipandemica, per evitare o limitare assembramenti o contagi, non può stupire più di tanto.

 

 

 

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Scappellata di Franceschini a Berlusconi tra i grillini nell’angolo

            Anche a costo -temo- di far esplodere la tazza del cesso sulla quale il suo vecchio, leale, ostinato amico Antonio Martino, intervistato per il Foglio da Carmelo Caruso, aveva cercato di dissuaderlo, o di andarci più piano, o di allungare “la limonata” in preparazione, Silvio Berlusconi è dunque riuscito a farsi obbedire dai suoi parlamentari, ma ancora più dai suoi renitenti alleati di centrodestra. E a salvare il governo di Giuseppe Conte dallo scoglio del cosiddetto scostamento di bilancio. Che con i suoi ulteriori otto miliardi di spese concordati appunto anche col Cavaliere è passato quasi all’unanimità fra Camera e Senato: alla Camera con 552 sì, nessun voto contrario e 6 astenuti, al Senato con 278 sì, 4 voti contrari e altrettanti astenuti.

            Immagino il sollievo del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, costretto in questa stranissima legislatura di emergenze sovrapposte l’una all’altra ad una supplenza che eserciterà fior di costituzionalisti e di storici. Penso anche allo scorno dei grillini duri e puri come Marco Travaglio, che alla vigilia aveva definito “concorso esterno” nella solita associazione mafiosa l’unica offerta che il sempre odiatissimo Cavaliere, da qualsiasi parte del mondo facesse giungere i suoi messaggi, poteva fare al governo che volesse chiedergli una mano. Ora Travaglio è lì a minacciare o reclamare lui le elezioni anticipate, non sapendo neppure se per ridere o piangere.

            Ma immagino soprattutto -ripeto- la delusione del pur disincantato e  liberalissimo Martino, dichiaratamente “stitico” nei rapporti con un movimento come quello delle 5 Stelle, da lui così poco sopportato da avere rinunciato a ricandidarsi nelle ultime elezioni per non incontrare neppure per caso qualche grillino in Parlamento. Anche il pentastellato che sembra essere riuscito meglio, l’attuale ministro degli Esteri Luigi Di Maio, perciò suo successore sia pure lontano alla Farnesina, è rimasto per Martino “il borracciaio del San Paolo”: lo stadio di Napoli che sta per essere intitolato alla buonanima di Maradona.

            Già sulla tazza del suo cesso, prima di vedersela e sentirsela esplodere, Martino aveva confidato al Foglio, conoscendo il sadismo politico di cui è capace l’amico, di aspettarsi ugualmente per il 22 dicembre la solita cordiale telefonata di auguri di Berlusconi per i 78 anni che l’ex ministro compirà tra le macerie del suo bagno.

            Non so se e quanta fatica politica sia costata al capo della delegazione del Pd al governo, il ministro della Cultura e del Turismo Dario Franceschini, la scappellata che ha tenuto a fare a Berlusconi. Di cui  ha apprezzato la “scelta di responsabilità, che ha politicamente costretto tutte le forze di centrodestra a cambiare linea e ad adeguarsi”. Chapeau”, ha detto, Franceschini fra le proteste di Giorgia Meloni, che voleva forse anche lei qualche riconoscimento. Dell’ormai ex trainante  Matteo Salvini mancano notizie certe.

            Abituato, anche per le sue origini democristiane e una certa sintonia con l’esperienza, gli insegnamenti, la storia di Aldo Moro, a proiettarsi più sul domani che sull’altro ieri, a parte qualche ricorrente tentazione opportunistica di derivazione dorotea, Franceschini ha mandato un segnale che potrebbe rivelarsi per i grillini persino assordante. Ed  aprire davvero nel Pd una nuova stagione. Non ha forse torto Stefano Folli a scrivere su Repubblica che “cambia la scena” e “nulla è come prima”. Travaglio ne deriderà, al solito, il riporto capelluto.

 

 

 

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In memoria di Diego Armando Maradona, mille volte preferibile a Beppe Grillo

            Giustamente, molto giustamente, il buon Emilio Giannelli non ha saputo resistere nella sua vignetta di prima pagina sul Corriere della Sera alla tentazione di accoppiare a suo modo il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, e i suoi eterni problemi di composizione dei contrasti nella eterogenea maggioranza di governo, al rimpianto dell’appena scomparso Diego Armando Maradona, con tanto di pochette del campione infilata nel taschino della giacca.

            Certo, il salto da Aldo Moro, più volte evocato da Conte come suo ispiratore, a Maradona è un po’ acrobatico. Ma dà in qualche modo l’idea della disperata situazione politica in cui versa un presidente del Consiglio al quale non bastano più neppure le preghiere a Moro per uscire dalla paralisi in cui si è cacciato. Ora è il turno delle doti magiche di genio e sregolatezza  di Maradona per cercare di far quadrare, si fa per dire,  i conti di scostamento del bilancio di governo.

            “Giocatore onirico e circense”, ha scritto di Maradona sul Corriere della Sera Walter Veltroni, finalmente restituitoci alle sue migliori e più simpatiche dimensioni di scrittore, saggista, giallista ed altro ancora, dopo una lunga esperienza politica nella quale -lo confesso- fui ad un certo punto tentato anche di condividerne le scelte. Accadde, in particolare, quando egli fondò il Pd a vocazione cosiddetta maggioritaria, salvo affondarlo all’istante con l’apparentamento elettorale con l’allora Italia dei Valori più o meno bollati di Antonio Di Pietro. Dio mio, Walter, che errore.

            Aldo Cazzullo invece ha ricordato di Maradona, sempre sul Corriere,  perdonandogliene tutte, le sfuriate contro i giornalisti, sino alla promessa -non so sino a che punto davvero mantenuta, di non “sparare più loro addosso”. Ma poi egli sarebbe stato superato da un emulo di teatro prestatosi alla politica italiana con tutti gli effetti che conosciamo: tale Beppe Grillo. Che dei giornalisti, senza rimediarsi quello che meritava, anzi spingendo ancora di più il suo movimento verso la maggioranza relativa dei seggi parlamentari, disse di volere fare un solo boccone  per il gusto poi di “vomitarlo” su qualcuno dei piatti  o delle sputacchiere al ristorante dell’albergo romano dove soleva soggiornare con vista sui fori imperiali.

            Ne abbiamo viste e sentite, in Italia, negli ultimi anni, dopo che avevamo pensato di avere visto e sentito il peggio ai tempi del terrorismo.

            Anche per questo, pensando alla morte di Maradona, mi riconosco nel felicissimo titolo di Repubblica sul “calcio che va in Paradiso”, e nella vignetta di Stefano Rolli sul Secolo XIX col campione che invoca simpaticamente la misericordia di Dio per avere abusato della sua mano spingendo la palla in rete. E mi spiace non poter dire né sperare, al momento, che possa andare in Paradiso, o all’Inferno, come preferite, e sempre al maiuscolo, questa specie di politica con cui siano costretti a convivere ormai da troppo tempo.

 

 

 

 

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L’irrinunciabile ricorso di Travaglio alla clava contro Berlusconi

            Non  occorre scomodare i terroristi sanguinari per capire i guai di cui è capace certa satira gestita con la leggerezza, la disinvoltura e addirittura la dichiarata, compiaciuta “cattiveria” di una rubrichetta presuntivamente felice di giornata di un foglio che vorrebbe essere un giornale ma non riesce a liberarsi della gabbia di un’officina. Dove tutto viene pensato e modellato con la fiamma ossidrica in mano, fino a quando l’oggetto non diventa l’arma desiderata.

            Prendete Il Fatto Quotidiano di oggi e il modo in cui ha tenuto ad occuparsi di uno degli argomenti politici sul tappeto, cresciuto non certo come un fungo nel bosco dopo una giornata di pioggia: il ruolo che è tornato ad avere dietro le quinte Silvio Berlusconi, alla sua età e con i suoi guai, nello scenario a dir poco confuso della maggioranza di governo. Dove non vi è più un argomento, dico uno, né epidemico né ordinario, a mettere veramente d’accordo le varie e scombinatissime componenti: forse neppure più la paura di una vittoria elettorale di Matteo Salvini, pur evocata ancora un giorno sì e l’altro pure per seminare il panico.

            Anche fra i venditori di castagne nelle strade di Roma, al netto dei divieti di Palazzo Chigi e dintorni,  si parla, si sussurra e quant’altro dei posti più svariati dove si incontrano con finta segretezza emissari più o meno fidati di Berlusconi e maggiordomi con pari grado del campo vagamente governativo per saltare il fosso di giornata ed evitare che qualcuno vi finisca dentro con una crisi dalla quale non poter essere salvato neppure ricorrendo ad una gru.

            Ormai non dico Giuseppe Conte, con quel nome quasi nobiliare che porta, ma neppure certi grillini dall’antico e sprezzante linguaggio antiberlusconiano, a cominciare da Luigi Di Maio, ora alla scoperta anche del pianeta Baden dopo gli studi sprecati appresso a Donal Trump,  parlano più di Berlusconi come una volta. Un tocco di umanità lo riconoscono anche a lui, pensando che sotto sotto, in fondo in fondo, qualcosa di buono potrebbe arrivare anche a loro da un gesto di attenzione, specie parlamentare, o anche di distrazione.

            Invece quel guardiano impertinente e arcigno dell’ordine sovran-grillino Marco Travaglio che ti fa? T’infila nella “cattiveria” di giornata  del suo rasoio di carta la traduzione di un’offerta di Berlusconi e Forza Italia alla maggioranza giallorossa in difficoltà in un “aiuto” giudiziariamente classificabile come “concorso esterno”, naturalmente in associazione mafiosa.

            Poiché Travaglio ha notoriamente estimatori e tifosi anche a destra, persino nel centrodestra, il quotidiano Libero di Vittorio Feltri, Renato Farina e amici gli è corso appresso riaccoppiando in prima pagina Silvio Berlusconi e Angelino Alfano, richiamato quest’ultimo non so da quale legione straniera fosse finito dopo la fallita esperienza prima di delfino e poi di concorrente del Cavaliere, ai tempi ormai preistorici di Enrico Letta e di Matteo Renzi.

 

 

 

 

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Purchè Bebbe Grillo non aspiri adesso a diventare Nerone

            Ho letto da qualche parte, in questi giorni di forzato e maggiore distacco dagli eventi, che Beppe Grillo sarebbe tentato dal ritorno al teatro. E ciò non solo per bisogno di denaro, anche se questi sono diventati tempi cupi pure per questo settore, tra divieti e paure di contagi. Ci sarebbe in Grillo anche una certa stanchezza o delusione di chi aveva pur investito tanto, direi tutto, sulla capacità di accoppiare politica e spettacolo, facendo letteralmente saltare il banco già compromesso, diciamo la verità, da un ventina d’anni di grande confusione, fra Repubbliche che si inseguivano e si passavano la staffetta di effimeri cambiamenti.

            I conti, sia quelli numerici, sia al plurale dei successori arrivati più o meno a caso ai vertici di governo grazie alla fantasia proprio di Grillo e del Movimento da lui guidato nelle diverse modalità suggeritegli dalle circostanze, sono arrivati a zero. O allo zero virgola qualcosa utile chissà a chi negli sviluppi di questa incredibile legislatura che in tempi normali si sarebbe aperta solo per essere chiusa e per restituire la parola agli elettori.

            Ora, con tutto il rispetto, la pazienza, la tolleranza e quant’altro imposto dalle buone maniere, o dalla disperazione, si potrebbe persino comprendere la delusione attribuita a Grillo e il desiderio di essere restituito al suo teatro. Mi chiedo tuttavia se ci sia da fidarsi perché temo il passaggio da Grillo a Nerone, viste le debolezze, a dir poco, dei suoi interlocutori.  

 

 

 

 

 

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I sassolini che Renzi forse non potrà mai togliersi dalle scarpe

            Prolifico com’è nei libri, nelle lettere più o meno settimanali ai militanti e nelle interviste con le quali si racconta politicamente, Matteo Renzi una cosa sicuramente non riuscirà mai a diventare, come d’altronde non è riuscito alla maggior parte dei politici: uno storico della brevità o laconicità quasi scultorea di Tacito. Né gli piacerebbe solo tentare di provare ad esserlo, tanto egli è così poco distaccato, giustamente e naturalmente, da quello che fa.

            Il racconto recentemente affidato a Tommaso Labate del suo ritorno a Palazzo Chigi come ospite di Giuseppe Conte, quasi ammirato dall’ordine del nuovo presidente del Consiglio, che pure francamente non viene molto percepito così all’esterno, non foss’altro per le critiche mossegli spesso dallo stesso Renzi nella gestione della Cavalleria Rusticana succeduta l’anno scorso a quella di colore gialloverde, ha qualcosa di stucchevole che accentua e non riduce la sensazione di una certa reticenza politica del senatore di Scandicci, pur a tanto tempo ormai dai fatti che portarono ad un traumatico passaggio politico come quello delle elezioni ordinarie del 2018. Che dopo la sconfitta referendaria della riforma costituzionale del governo Renzi, pur avvenuta col decoroso distacco di un 60 contro il 40 per cento dei voti, avrebbe portato alla demolizione di ogni equilibrio politico e ad un azzeramento delle prospettive democratiche che fa ancora più paura di fronte alle sopraggiunte emergenze epidemiche e alla sempre più evidente debolezza del rapporto fra potere centrale e poteri regionali.

            Da nessuna crisi si esce nascondendo la verità, o la sua origine. Ebbene, è ora che Renzi si decida a raccontare la verità, appunto, di chi e perché gli impedì, al vertice del  partito dove egli aveva deciso di restare, limitandosi a dimettersi dal governo, per gestire un turno di elezioni anticipate capace di fermare la corsa verso il precipizio rappresentata dalla combinazione fra la scissione e il crollo del Pd e l’avanzata del movimento grillino. Che neppure andando al governo nel modo fortunoso del 2018 è riuscito a far capire cosa volesse essere e far diventare quella specie di teatro elettorale sperimentale diretto, aizzato e quant’altro da Beppe Grillo.

            Posso sbagliare, per carità, e non mi aspetto di certo di sentirmi dare ragione prima o poi da Renzi, ancora convinto com’è, come ha raccontato a Labate, della scelta compiuta nel 2013 per l’ascesa al Quirinale di Sergio Mattarella, preferendolo a Giuliano Amato anche a causa di una certa disinvoltura dimostrata da Silvio Berlusconi nella gestione di una partita delicatissima come quella apertasi per il Colle,  forse scambiata dal Cavaliere per una partita di calcio. Posso sbagliare, ripeto, ma credo che Amato non avrebbe negato a Renzi il diritto alle elezioni anticipate dopo la sconfitta del  referendum costituzionale e il così chiaro esaurimento, ormai, di una legislatura tirata avanti solo con quella finalità. Per l’Italia sarebbe stata tutt’altra storia, e per tanti altri versi.

 

 

 

 

 

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Ci ripenso: tenete lontanisssimo Matteo Renzi da Roma

            Come le cose piccole, di noi presi singolarmente con un nostro problema imprevisto, moltiplicato solo dagli accidenti per chissà quante altre volte, per esempio uscire da una sola operatoria apparentemente come si era entrati, storditi ma col cuore salvato, ci fanno perdere davvero la bussola e renderci inconsapevoli della nostra intrinseca, umana e incommensurabile debolezza.

            Ha avuto coraggio Emilio Giannelli a subire ed esprimere nella sua vignetta di prima pagina sul Corriere della Sera la tentazione di un nuovo avvio. Ed è fuggito dal disordine del Covid, delle loro morti, della nostra spavetuosa inadeguetezza a tutto, aggravata dalla solita presunzione di sapere tutto e di poterne uscire con  le solite operazioni da rammendo, immaginando un nuovo, possente Mihelangelo a resistituirci la nuova vita.

            Ad averlo un nuovo Michelangelo, portarlo nella Cappella Sistina da Papa Bergoglio con quel nome miracoloso di Francesco.

            Se in un attimo di sbandamento, quasi ancora sotto i ferri, con le ultime cose sentite e lette della nostra quotidianità, sono stato così mallacorto da recuperare la riforma costituzionale di Matteo Renzi sventatatamemte bocciata cinque anni fa dagli italiani e restitituire  un ordine alle competenze locali capaci di sopravvavivere a una pandemia sciaguratamente lasciata alle competenze regionali, provate ad immaginare davvero, essendo peraltro di quelle parti, il senatore di Scandicci sotto i soffitti della Sistina tornare a proporci la “nuova vita”, come l’ha chiamata Giannelli.

            Che altri guai riuscirebbe a combinare Renzi portando alla dannazione stavolta Bergoglio. Altro che le mie ingenue aperture di credito, nonostante tutti i casini combinati l’anno scorso -scusate la parolaccia- spingendo all’alleanza di governo il suo Pd e i grillini. E ritrovandosi adesso insieme col rottamato più storico della sua covata -Massimo D’Alema- su una strada che farebbe trabocccare gli ospedali come le discoteche dell’estate scorsa, nella rappresentazione fatta sul Secolo XIX da Stefano Rolli. Per carità, non facciamone niente.

 

 

 

 

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Ridateci la riforma costituzionale di Renzi e facciamola finita

           Scampato il pericolo Trump e uscito dall’officina indenne col mio cuore rimesso a posto, vedo che i signori della nostra maggioranza giallorossa stanno dando i numeri, al solito, immaginando una Quarta Repubblica di Bengodi.

            Si, avremo ancora un po’ di guai col Covid, Giuseppe Conte continuerà a perdere un po’ della popolarità guadagnata a buon mercato nella prima parte dell’anno e ora grazie ai fondi europei da investire in Italia Sergio Mattarella ce la farà a migliorare il clima nelle Camere perché maggioranza e opposizioni si diano una mano, o una manina. Non vorranno essere così fessi quelli del centrodestra di non partecipare al banchetto di 209 miliardi di ripresa, di nuova generazione e qualcosina anche alle casse di Rousseau e Davide Casaleggio per vivere la decrescita felice del loro partito dimezzato.

            Ma pensano davvero che gli europei ci faranno spendere tutti quei soldi  per rimpinguare le nostre regioni e finire di non accorgersi del loro dissesto? Pensano davvero che le regioni siano state affondate nel 2016 dalla fallita riforma della Costituzione di Matteo Renzi, scambiato per un pazzo che voleva finalmente mettere ordine nelle loro competenze e non trasformare la Corte Costituzionale nel  manicomio di manutenzione delle autonomie locali.

            Grillini e soci di governo non  hanno ancora capito che la riforma Renzi dovrà essere ritirata fuori dalle casse, riportata in Palamento per rifare più semplicemente l’Italia e finalmente governarla. Altro che le fesserie del centrosinistra per regalare ai leghisti il presunto federalismo e impedirne una nuova intesa con Berlusconi nel 2011. Va rifatta l’Italia daccapo e governarla. Bisogna finirla con le feste celebrate, peraltro anche al Quirinale, paghi di avere sconfitto la riforma costituzionale di Renzi, avere restituito il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro ad una seconda giovinezza, avere negato il rimedio delle elezioni anticipate ed avere avviato quella legislatura ad una Cavalleria Rusticana recitata in tutta Italia da Beppe Grillo e comparse.  Ora i giochi sono a zero, e si ricomincia daccapo. E Nicola Zingaretti, se vuole avere finalmente un’idea buona, rifondi il Pd, si riprenda Renzi indietro, con gli interessi, e faccia gli Stati Generali, non quelle finzioni dei mesi scorsi.

            La scelta del nuovo Capo dello Stato nel 2022 non  sia occasione anche questa solo  per trovare un presidente della Repubblica. E non faccia morire tutti di Covid.

            Lo spettacolo, signori, è finito. I comici tornino in teatro, i lavoratori nelle fabbriche e gli studenti a scuola.

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