La maledizione di diventare anziani in questo Paese di matti

            Non da ultrasettantenne ma addirittura da ultraottantenne, quasi 82 anni, premetto di essere in cosiddetto conflitto di interessi scrivendo ancora dell’idea partorita dal governatore della Liguria Giovanni Toti di confinare gli anziani in modo cautelativo, come con la detenzione che viene chiamata appunto così in attesa degli sviluppi delle indagini. In questo caso dovremmo aspettare negli armadi di casa -come ha osservato con sarcasmo un  giornale non certo ostile al centrodestra in cui milita Toti, cioè Libero- che passi la seconda e magari anche la terza e chissà quante altre di Covid, senza finire dall’armadio in una bara.

            Non è la prima volta, peraltro, che scrivo in conflitto d’interessi. E potrebbe anche essere l’ultima, visto che sono ricoverato per un intervento di by pass al cuore, avendo una coronaria otturata ed essendosi il chirurgo incaponito a cercare di salvarmi la vita.

              Questa storia degli anziani da guardare a vista, vuoi per prolungarne la vita ma quasi in segregazione, perché non diano fastidi ai nipoti o non ne ricevano, vuoi per accorciargliela e contribuire alla soluzione finale del problema della spesa pensionistica, mi sta sugli zebedei, direbbe l’anziano -pure lui- Vittorio Feltri, meno misurato di me nel linguaggio e anche nelle espressioni facciali.

            E’ da almeno una trentina d’anni -per caso dalla fine della cosiddetta Prima Repubblica in poi, quando cominciò a crescere la voglia di rottamazione, ben più di quanto non fosse avvenuto negli anni 68 del secolo scorso- che gli anziani danno fastidio. Se continuano a lavorare rubano i posti, anzi l’avvenire, ai giovani. Se hanno smesso di lavorare e sono andati in pensione lla regolare scadenza delle leggi in vigore, alcune delle quali oggettivamente balorde, ma pur sempre modificabili, hanno lo stesso rubato l’avvenire ai giovani percependo trattamenti privilegiati, col sistema retributivo, rispetto  a quello meno  vantaggioso del contributivo. Per cui maggioranze di tutti i colori si sono rincorse nei tentativi di tagliare le pensioni con imposte travestite da contributi di solidarietà, anche a costo di risparmiare nel complesso poche centinaia di milioni di euro l’anno e ridurre di molto di più le entrate fiscali. Non parliamo poi delle riduzioni imposte a quel sistema di assistenza o aiuto sociale che gli anziani con pensioni non da fame hanno potuto per anni garantire ai loro figli e nipoti, supplendo allo Stato sempre a corto di soldi per sprechi e simili.

            Ora è arrivato anche il Covid di prima, seconda ed altra ondata o edizione per sentirsi dire da un poco più che cinquantenne portato in politica da un generoso suo datore di lavoro che se si è anziani, e per giunta “non produttivi”, bisogna sparire dalla circolazione.

            Personalmente accetto lezioni di altruismo e simili da una sociologa -anziana pure lei- come Chiara Saraceno, della quale ho letto due volte un’intervista a Repubblica condividendone gli argomenti, anche quelli adoperati contro Toti. Ne accetto da un sociologo e statistico ancora più anziano come Giuseppe De Rita. E tento magari di convincere il chirurgo a risparmiarsi la fatica e a farmi morire in anestesia, senza farmene accorgere. Ma da Toti, da questo presunto politico e persino “governatore” di una regione importante come la Liguria, no. Non accetto lezioni, consigli, proposte e quant’altro. Gli chiedo solo di abbassare la cresta e chiedere scusa, ma chiaramente, non con frasi ambigue come ha fatto, a tutti gli anziani che ha offeso, sorpassando persino la recente  proposta di Beppe Grillo di privarli del diritto di voto.

 

 

 

 

 

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Tutte le colpe della sinistra nei conflitti fra lo Stato e le Regioni

Fra gli effetti di questa maledetta pandemia virale c’è il fallimento che più clamoroso non poteva rivelarsi della riforma del titolo quinto della Costituzione voluto nel 1999, in vista delle elezioni ordinarie del 2001, dal centrosinistra d’edizione ulivista. Che aveva avuto in quella legislatura ben quattro edizioni, in barba alla semplificazione, maggiore governabilità e altre meraviglie ancora promesse al popolo con l’avvento della cosiddetta Seconda Repubblica. Il cui esordio tuttavia non era spettato al centrosinistra ma, a sorpresa, al centrodestra improvvisato da Silvio Berlusconi, con la sua Forza Italia, alleandosi al Nord con la Lega di Umberto Bossi e al Centro-Sud col Movimento Sociale di Gianfranco Fini. in evoluzione verso Alleanza Nazionale.

Rottosi subito il rapporto fra Berlusconi e Bossi, basatosi sull’idea di trasformare in senso federale la Repubblica aumentandone le autonomie locali come antidoto alla secessione padana, quei geni della sinistra trascorsero il loro tempo, mentre Lamberto Dini guidava un governo simil-tecnico per portare avanti il più possibile una legislatura azzoppata, a studiare il modo in cui rendere la rottura nel centrodestra la più profonda e meno recuperabile possibile. Come? Facile: inseguendo Bossi sulla strada del federalismo, ciò promettendogli più di quanto Berlusconi avesse potuto e voluto fare.

Vinte le elezioni politiche anticipate del 1996 grazie alla rottura del centrodestra, provò la svolta federalista per primo Romano Prodi da Palazzo Chigi, ma “quell’altro geniaccio di Fausto Bertinotti lo fece cadere a metà legislatura. Ci provò allora non con uno ma con due governi Massimo D’Alemain persona, che era considerato il più abile, il più furbo, il più tutto della coalizione ulivista. Ma non ci riuscì neppure lui perché commise l’imprudenza di scommettere su un turno elettorale regionale che perse, dimettendosi con un sentimento di orgoglio di cui va ancora fiero. E passò la mano a Giuliano Amato, sfidando a suo modo quella parte dell’ex Pci e, più in generale, della sinistra che non perdonava allo stesso Amato di essere stato il braccio destro, il “dottor Sottile”, il grande consigliere dell’odiatissimo Bettino Craxi, nel frattempo liquidato giudiziariamente dalla scena politica e costretto alla fuga, o addirittura latitanza, o all’esilio, secondo le preferenze, nella sua casa delle vacanze in Tunisia, finendo lì i suoi giorni amari.

Toccò dunque al povero, sventurato Amato improvvisare una riforma costituzionale del titolo V per aumentare le competenze regionali, trattenere Bossi sulla strada che aveva già intrapreso di ritorno all’alleanza con Berlusconi, a dispetto delle resistenze di Fini, e rivincere le elezioni ordinarie del 2001, come quelle anticipate del 1996. L’operazione fu di tale spregiudicatezza politica e parlamentare che lo stesso Amato dopo qualche anno se ne sarebbe pubblicamente pentito, soffrendo soprattutto dei pochi voti di scarto con cui la legge passò soprattutto al Senato, alla faccia delle larghe convergenze auspicate a parole quando si mettono le mani sulla Costituzione.

Da quella legge, che superò lo scoglio referendario tra l’indifferenza generale, e col centrodestra nel frattempo tornato al governo, fece le spese a tal punto lo Stato che l’attività della Corte Costituzionale s’intasò con un’infinità di ricorsi, o di inseguimenti fra le regioni che volevano sempre di più e il governo di turno che voleva dare sempre di meno, pur con i leghisti e il loro federalismo dentro. Fu insomma un pasticcio, dal qale peraltro il povero Amato non era riuscito a ricavare nel 2000 neppure l’investitura a candidato, per l’anno dopo, a Palazzo Chigi. La sempre troppo composita coalizione di cosiddetto centrosinistra gli aveva preferito Francesco Rutelli. Che avrebbe poi avuto l’onore, orgogliosamente rivendicato, di perdere onorevolmente col Cavaliere, tanto preoccupato  in effetti della concorrenza del giovane “Cicciobello” da negargli alla fine della campagna elettorale un confronto diretto.

Ai guasti creati da quella sciagurata riforma voluta solo per motivi di concorrenza o inseguimento politico, non certo per definire con la necessaria chiarezza i nuovi, maggiori poteri delle Regioni e la sopravvivenza dello Stato, il centrosinistra cercò nel 2005-2006 di rimediare con una nuova riforma. Che ebbe la sola sfortuna, o il solo inconveniente di portare il nome di Matteo Renzi.Il quale  di suo aggiunse quel tantino di esuberanza e impazienza, volontà di sfida e quant’altro, da perdere il referendum confermativo. E così, oltre alla salvezza della già fallita riforma del titolo V si aggiunse quella dell’ormai quasi defunto Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro. E fu perduta anche l’occasione di una riduzione dei parlamentari abbinata ragionevolmente ad una modifica del cosiddetto, paralizzante e ripetitivo bicameralismo perfetto, come lo definiscono i costituzionalisti.

Ora che con la pandemia i conflitti di ogni giorno, di ogni notte, di ogni ora e di ogni minuto fra il governo e le Regioni, sempre al plurale per carità, si sono rivelati rovinosi come più chiaramente non poteva apparire e avvenire, c’è anche chi vorrebbe addirittura non riformare davvero e finalmente il titolo V ma tornare ancora più indietro e chiudere l’istituto regionale, di cui tutti hanno peraltro scoperto i costi cresciuti a dismisura, assieme alle spartizioni partitiche, correntizie e quan’altro di ogni angolo di potere e sottopotere.

Speriamo che a pandemia sconfitta, chissà a quale prezzo, si capisca anche l’opportunità di rinunciare a Regioni e relativi governatori, ha titolato in prima pagina uno dei giornali più filogovernativi e filogrillini del mercato editoriale profittando del gigantesco errore -va riconosciuto- compiuto da Giovanni Toti in Liguria, Che è stato quello di proporre, pur a titolo “protettivo”, gli anziani anche perché “non produttivi” Un giornale di centrodestra come Libero, non di sinistra, ha tradotto l’idea nella rovinosa, drammatica immagine dei vecchi chiusi negli armadi, non si sa se più per allontanarli o avvicinarli alla destinazione finale delle bare.

 

 

 

 

Pubblicato sul Subbio, 3 novembre

 

Blog su WordPress.com.

Su ↑