Quando gli avvocati perdono prestigio

         Trovo anch’io consolante quel giudizio positivo espresso sugli avvocati in un rapporto del Censis, da cui è emerso un 60 per cento di intervistati convinti del prestigio “buono” di questi professionisti e un 20 per cento convinto che sia “ottimo”. Sarà stato magari espressa, questa opinione, da chi ha avuto la fortuna di vincere una causa in quella grande lotteria che è ormai diventata l’amministrazione della giustizia in Italia.

         Eppure mi chiedo perché mai resti un altro venti per cento di giudizi -debbo presumere- negativo, o assai negativo, sui legali ai quali, prima o dopo, può capitare a chiunque di noi di doversi rivolgere per promuovere o difendersi in una causa, o semplicemente in una indagine cosiddetta preliminare. Un venti per cento, credo, di gente sfortunata nella scelta dell’avvocato quando ne ha avuto bisogno. O di gente che, non avendo mai avuto bisogno di loro, confonde gli avvocati con gli azzeccagarbugli di memoria manzoniana. O di giustizialisti tanto incalliti, con o senza toga, da considerare gli avvocati come quelli votati a farla fare franca ai delinquenti. Vi ricorda nessuno questo modo di ragionare e di liquidare cose e persone? A me sì, ma non lo dico perché non ho soldi da buttare in una causa, trattandosi di un magistrato dalla querela facile.

         Il rapporto Censis è confortante per gli avvocati anche tenendo conto del credito decrescente o del discredito crescente, come preferite, del sistema giudiziario italiano.

         Ciò tuttavia non mi impedisce di ritenere che gli avvocati danneggino la loro immagine quando si candidano o si lasciano candidare al Parlamento dai loro clienti per difenderli meglio. E’ come quando certi magistrati si candidano o si lasciano candidare alle Camere per proseguire in altro modo le loro guerre e guerricciole. A buon indentitore poche parole, come dice un vecchio proverbio.

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Che cosa sbagliano gli avvocati

        

Le scuse mancate di Borrelli al giudice Guido Salvini

         Il magistrato Guido Salvini può ben essere considerato, per serietà e competenza dimostrate nel suo lavoro, e anche per i problemi che gli è toccato di avere con i suoi colleghi di toga, il Giovanni Falcone dell’antiterrorismo.

         La storia dei suoi rapporti con la Procura di Milano, che ha raccontato in una lunga intervista a Il Dubbio commentando l’epilogo, finalmente, delle indagini e dei processi sulla strage di Brescia, fa venire francamente i brividi.

         Quanto è stata solerte la Procura ambrosiana negli anni Novanta -gli anni “terribili” di Tangentopoli, per dirla con Matteo Feltri, che li ha scandagliati con impietosa obiettività nei riguardi dei vari Francesco Saverio Borrelli, Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo e altri- tanto è stata a dir poco zoppicante negli anni Settanta e Ottanta, quando l’emergenza era purtroppo il terrorismo.

         Ebbene, il povero Guido Salvini incontrò come giudice istruttore difficoltà indicibili più fra i colleghi magistrati, per gelosie, incompetenze e quant’altro, che fra gli inquisiti di una stagione di sangue. Che fu ben più grave e pericolosa di quella dei furti, come vennero sbrigativamente liquidati tutti gli episodi, veri ma anche presunti, del complesso e generalizzato fenomeno del finanziamento illegale della politica.

         A Salvini toccò, fra l’altro, di vedersi assegnati nella conduzione delle indagini colleghi a dir poco non sufficientemente attrezzati per competenze e carattere al compito immane di smascherare assassini e trame, e di essere alla fine costretto anche a difendersi per ben sette anni davanti al Consiglio Superiore della Magistratura per presunta incompatibilità ambientale: una vicenda che – ha giustamente osservato il giudice- avrebbe sfiancato chiunque. Un’esperienza, aggiungo, in qualche modo già provata dal povero Falcone per il suo lavoro anti-mafia a Palermo, quando fu chiamato a giustificarsi degli sciagurati sospetti di Leoluca Orlando e amici di coprire responsabilità eccellenti, cioè politiche, nelle inchieste di mafia.

         Salvini non solo è fortunatamente sopravvissuto fisicamente alle difficoltà, ma ne è uscito a testa tanto alta da potere oggi giustamente reclamare le scuse mai chiestegli da Francesco Saverio Borrelli. Che a furia di “resistere, resistere, resistere”, come disse a conclusione della sua carriera, resisterà -temo- anche a questa sacrosanta richiesta.

Il Senato scambiato per un maiale dalle opposizioni

         Come si dice di un maiale quando viene ucciso e ben bene sezionato perché nulla si sprechi, così le opposizioni hanno fatto con la seduta del Senato per rifarsi della sconfitta subita nell’assalto al governo di Paolo Gentiloni, e non solo al ministro renzianissimo e potentissimo dello Sport Luca Lotti, per l’affare -chiamiamolo così- Consip. Che, fra i vari inconvenienti, oltre alla manipolazione di intercettazioni e varie, ha quello del coinvolgimento del padre di Matteo Renzi, Tiziano, come indagato per traffico d’influenze illecite. Ed è già una fortuna, per lui e per il figlio, che non sia finito in galera prima o dopo un lungo interrogatorio subìto in Procura a Roma: in galera come lo avrebbero voluto, prima ancora degli inquirenti di Napoli, ufficiali e sottufficiali dei Carabinieri usati come polizia giudiziaria nelle indagini sino a quando nella Capitale i pubblici ministeri guidati da Giuseppe Pignatone non si sono accorti delle anomalie, chiamiamole così, e non le hanno interrotte di brutto.

         Alle opposizioni, in particolare al principale giornale di riferimento, che è notoriamemte Il Fatto Quotidiano fondato dal buon Antonio Padellaro e diretto ora dal meno buono, inteso come carattere, Marco Travaglio, non è andata giù di quella seduta a Palazzo Madama neppure la parte iniziale dedicata alla commemorazione dell’ex ministro repubblicano delle Poste Oscar Mammì, morto recentemente a più di 90 anni senza essere riuscito a liberarsi dell’abito confezionatogli nel 1990 dalle sinistre democristiana e post-comunista di favoreggiatore del già allora odiato Silvio Berlusconi per la legge che, disciplinando il sistema radiotelevisivo, ne aveva regolarizzato le tre reti concorrenti della Rai.

         Già la celebrazione parlamentare in sé del pur scomparso Mammì ha fatto storcere il naso a quelli del Fatto. Che, con la firma di Fabrizio D’Esposito, hanno tenuto da ridire non solo e non tanto sugli elogi rivolti alla memoria del defunto dal capogruppo di Forza Italia Paolo Romani, che allora possedeva una piccola televisione privata e faceva quindi già parte della galassia berlusconiana favorita, secondo loro, dall’allora governo di Giulio Andreotti. Che per far passare quella legge ricorse al voto di fiducia. Nella redazione di Travaglio hanno tenuto da ridire soprattutto sull’intervento del capogruppo del Pd Luigi Zanda, azzardatosi a elogiare “il coraggio” dell’allora ministro, spintosi là dove non doveva -alla singolare luce degli avvenimenti politici di molto successivi- per questioni quanto meno di galateo istituzionale.

         Voi non ci crederete, ma Zanda si è preso praticamente del maleducato perché con gli elogi a Mammì avrebbe fatto uno sgarbo all’attuale presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Che 27 anni anni fa, esattamente il 26 luglio, ha certificato D’Esposito in veste non so se più di storico o di pubblico ministero ad honorem, si dimise da ministro con altri quattro colleghi di partito e soprattutto di corrente, quella guidata da Ciriaco De Mita, contro le modalità, quanto meno, di approvazione della legge Mammì.

         Le dimissioni -di Riccardo Misasi, Mino Martinazzoli, Carlo Fracanzani e Calogero Mannino, oltre all’attuale capo dello Stato- furono preparate e annunciate col proposito di provocare una crisi di governo. Ma quel diavolo di Francesco Cossiga, allora capo dello Stato, pur proveniente pure lui dalla sinistra democristiana, non ne volle sapere. E accettò invece, seduta stante, la proposta costituzionale del presidente del Consiglio di sostituire i quattro ministri dimissionari con esponenti ai quali evidentemente la legge Mammì non faceva per niente schifo, né per il contenuto né per le modalità di approvazione.

         Non so francamente se al Quirinale, sentendo magari col circuito interno televisivo la seduta del Senato, Mattarella si sia sentito offeso, o comunque a disagio, per l’intervento del pur amico Zanda. Al quale D’Esposito, visto che si trovava, avrebbe potuto anche rimproverare di avere ignorato l’apprezzamento di quelle “coerenti” dimissioni di Mattarella espresso dall’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi, oltre che segretario del Pd, per motivarne la candidatura e poi l’elezione al Quirinale due anni fa, anche a costo, o col proposito, chissà, di rompere il cosiddetto patto del Nazareno con Berlusconi sulle riforme costituzionali: una rottura che poi gli sarebbe costata carissima nel referendum costituzionale del 4 dicembre scorso. Riconoscere forse questo “merito” a Renzi, di questi tempi, deve essere apparso inopportuno a Travaglio e amici.

         Dubito, per come lo conosco, che Mattarella se la sia presa più di tanto con Zanda, anche perché nel frattempo egli ha instaurato con Berlusconi un buon rapporto istituzionale, politico e persino personale. Sono tuttavia sicuro che il presidente della Repubblica sia ancora memore del fatto che Luigi Zanda non è un omomino ma proprio lu: uno degli amici e collaboratori più stretti di Cossiga prima ancora che Francesco arrivasse al Quirinale. E rimastone amico ed estimatore anche dopo, quando il “picconatore” demolì la crisi di governo preparata o tentata dalle dimissioni dei cinque ministri della sinistra democristiana contro la legge del “coraggioso” Mammì.

Buche e monnezza bastano e avanzano contro la Raggi

Il Marco Travaglio garantista dei giorni dispari, che sono del tutto casualmente, per carità, quelli in cui hanno problemi nei tribunali anche i grillini, si è consolato degli sviluppi della vicenda giudiziaria della sindaca di Roma titolando sulla “Raggi mezza archiviata e mezza accusata”, restandole appese alla fine delle indagini preliminari solo “2 imputazioni su 5”: falso e abuso d’ufficio. E non è ancora detto naturalmente che la prima cittadina della Capitale venga rinviata a giudizio davvero, e per entrambe le imputazioni confermate dagli inquirenti.

Con i tempi abituali della giustizia -ha avvertito sul Corriere della Sera Fiorenza Sarzanini, che se ne intende- le decisioni potrebbero arrivare in autunno e la sindaca potrebbe “finire davanti ai giudici in campagna elettorale”: quella non anticipata per il rinnovo assai improbabile del Consiglio Comunale di Roma, ma quella ordinaria di fine legislatura per il rinnovo obbligato delle Camere.

Non foss’altro che per questo ruolino di marcia, un processo alla Raggi non mi piace e non mi convince. Le cronache elettorali e politiche combinate con quelle giudiziarie mi hanno sempre fatto schifo. E non me ne faranno certamente di meno solo perché il processo potrà riguardare questa volta una sindaca per la quale non ho votato e, bene o male, per un movimento che potrà pure vantarsi, a torto o a ragione, di moltiplicare prima o dopo per cento le sue cinque stelle di oggi, ma rimarrà lontano anni luce dalle mie idee e preferenze.

Considero il processo in cantiere a carico della sindaca più incidentata d’Italia, visto ciò che le è già accaduto e potrebbe ancora capitarle in Campidoglio, un inutile sovrapprezzo politico. Per i miei gusti di critico, mi bastano e avanzano le perdite di consenso che la signora ha subìto e subisce. E che peraltro sono portato ad attribuire ancora più che a lei, ai vari e sostanziali commissari politici che il suo partito, o come altro preferisce chiamarsi, le ha via via assegnati complicandole un lavoro già difficile di suo.

Delle due imputazioni rimaste addosso alla Raggi, quella di abuso d’ufficio continua a sembrarmi per un sindaco ciò che ne disse una volta, a proposito di un altro amministratore locale allora ancora grillino, Pier Luigi Bersani paragonandolo al sovraccarico contestato dalla polizia stradale all’autista di un camion e rimorchio: roba insomma da multa e non da galera. Un reato, se lo vogliamo ancora considerare tale, più professionale che altro, come una querela o denuncia per diffamazione per un giornalista che si fa prendere la mano nelle critiche. E’ un inconveniente che si aggrava quando a sentirsi colpito è un magistrato che nella reazione può oggettivamente contare su qualche vantaggio, finendo la pratica per forza in mano ad un suo collega di toga, per quanto di un distretto giudiziario diverso.

Neanche l’altra imputazione alla Raggi -il falso- mi convince più di tanto, essendosi la sindaca assunta per intero la responsabilità di una nomina alla quale poi si è scoperto che aveva contribuito non poco un suo collaboratore stretto, fratello del nominato.

Poiché poi le nomine, e i relativi trattamenti economici, sono state due, l’altra delle quali ha procurato alla sindaca l’accusa di abuso, mi sembra onesto e doveroso ricordare che entrambe le persone interessate -di cui non faccio neppure i nomi perché dovrebbero contare di più fatti- sono state rimosse senza tante storie o resistenze. Se c’è stato un danno per l’amministrazione capitolina, è stato quindi modesto. Un danno che la sindaca potrebbe sanare di tasca propria senza il sovrapprezzo -ripeto- di un processo penale mescolato ad una campagna elettorale.

Furono inutili e addirittura ingiusti sovrapprezzi, secondo me, pure a costo di far saltare sulla sedia il Marco Travaglio giustizialista dei giorni pari, anche i processi che negli anni scorsi, più che determinare, accompagnarono la perdita progressiva di consenso dell’odiato Silvio Berlusconi. Per il quale, per esempio, pur essendo fra i maggiori contribuenti -beato lui- del fisco italiano, fu scomodata una sezione feriale, cioè estiva, della Cassazione per condannarlo per frode ai limiti di una prescrizione segnalata dalla Procura di Milano con una tempestività e con modalità apparse a molti, a torto o a ragione, come improprie, se non addirittura minacciose.

Pur fatte le debite proporzioni, siamo di fronte alla stessa patologia nei rapporti fra giustizia, politica e informazione. Già, anche l’informazione, non dimentichiamolo.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio a pagina 15 dei commenti col titolo: Processo alla sindaca Raggi ? Ecco perché non mi convince

Pietà per la zarina del Campidoglio Virginia Raggi

         Di fronte al sostanziale preannuncio del rinvio a giudizio della sindaca grillina di Roma Virigina Raggi per falso e abuso d’ufficio, ora che l’inchiesta della Procura è finalmente chiusa, non riesco a riconoscermi né nel giubilo degli avversari politici del Movimento delle 5 stelle né nel sollievo dei suoi sostenitori o fiancheggiatori. Che hanno probabilmente condiviso la soddisfazione del solito Fatto Quotidiano dell’altrettanto solito Michele Travaglio perché i capi d’imputazione della sindaca sono scesi da cinque a due, dovendo probabilmente rispondere la signora solo della nomina, a suo tempo, di un Romeo a capo della sua segreteria e del fratello dell’allora suo braccio destro Marra a capo di un dipartimento comunale, essendo parsa eccessiva la sua promozione, che pure era in cantiere e sarebbe stata legittima, da vice capo a comandante dei vigili urbani: quelli che una volta a Roma si chiamavano pizzardoni. Ora quasi più nessuno li chiama così, anche perché obiettivamente presenti più negli uffici che nelle piazze e per le strade, pure in occasione dei peggiori ingorghi, quando basterebbe un vigile, un solo vigile, con tanto di fischietto, a sbloccare il traffico.

         Più banalmente o semplicemente, considero il processo in cantiere contro la Raggi una cosa superflua, inutile. Nè quel Romeo è più il capo della sua segreteria, né quel Marra è più il capo di un dipartimento. Se qualche danno è stato arrecato all’amministrazione comunale dai compensi che i due hanno per un certo tempo percepito con troppa generosità da parte della sindaca, dovrebbe bastare e avanzare, in un sistema ispirato al buon senso, una bella multa a suo carico, o una condanna amministrativa a rimetterci di suo per pareggiare i conti. Un processo penale mi sembra un’enormità, per quanto non abbia certamente votato per la vittoria della Raggi nel ballottaggio dell’anno scorso che la portò al vertice del Campidoglio.

         Per chi fa politica, a qualsiasi livello, locale o nazionale, la perdita di consenso è più che sufficiente a penalizzarlo. Più che l’imminente -credo -rinvio a giudizio e la probabile condanna, nuocciono alla Raggi, e a una sua eventuale ricandidatura a sindaco nel prossimo turno elettorale, le buche sulle strade della Capitale, ad ognuna delle quali quando uno vi cade o rompe la macchina o il motorino, corrisponde un’imprecazione, un voto in meno e spesso anche una causa con tanto di danni prima o dopo risarciti. O la “monnezza” che si spreca, col contorno di topi, cinghiali, cani, gatti e gabbiani. O i cortei quasi giornalieri che la sindaca contribuisce a rovesciare su una città esausta.

         Non parlo poi degli inconvenienti che procurano alla sindaca di Roma le risse e le faide interne al suo movimento, dove si sprecano i commissari politici che le vengono assegnati con l’effetto spesso di complicarle la vita e di aggravare i problemi obiettivamente ereditati dalle precedenti amministrazioni.

         Pietà, quindi, per la Raggi. Così come avrebbero dovuto invocare gli avversari di Silvio Berlusconi di fronte a certi accanimenti giudiziari praticati dopo che il presidente di Forza Italia, del presidente del Consiglio e di quant’altro già pagava cari i suoi errori comportamentali perdendo voti e parlamentari.

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Perchè, da non grillino, mi pare un’ermomità il processo penale contro Virginia Raggi

Lo zampino di Travaglio nella crisi del giornale l’Unità

Chi salva una vita salva il mondo intero, dice giustamente e orgogliosamente il Talmud, che anche i non ebrei hanno imparato a conoscere e ad apprezzare vedendo uno dei più celebri, se non il più celebre in assoluto dei film sulla shoah.

Ebbene, con la passione che ho per il mio mestiere e, insieme, per la democrazia credo di non esagerare parafrasando il Talmud per commentare così la riscomparsa dalle edicole, spero la più temporanea possibile, dell’Unità: chi salva un giornale salva la libertà di tutti. O di tutti gli altri giornali, come preferite.

Nonostante o proprio a causa delle polemiche che mi è capitato di avere con l’Unità dei tempi migliori, quando vendeva centinaia di migliaia di copie realizzando un po’ il sogno di Palmiro Togliatti di farne “il Corriere della Sera dei lavoratori”, intesi naturalmente come elettori reali o potenziali del suo partito, non mi dispiace soltanto ma mi offende il modo in cui è riscomparso il giornale storico non solo del Pci ma della sinistra italiana, fondato nel 1924 da Antonio Gramsci, due anni prima di essere arrestato dai fascisti, per quanto deputato in carica. Un giornale destinato ad aggiungersi per molti anni, non a sostituirsi, come altri forse avrebbero preferito, all’ancora più storico Avanti! socialista, fondato nel 1896, addirittura nella notte di Natale, da Leonida Bissolati.

Trovo non solo comprensibile, ma giustificata, per l’indubbio coinvolgimento del risegretario del Pd nella vicenda, la rabbia non dell’ultimo, spero, ma dell’uscente direttore dell’Unità Sergio Staino, che a Matteo Renzi gliene ha dette di tutti i colori in una intervista a Luca Telese. Al quale non è parso vero di raccoglierne da sinistra lo sfogo, pur su un giornale di destra come La Verità di Maurizio Belpietro, in un intreccio di contraddizioni che non mi scandalizza più di tanto, preferendo vedere una dimostrazione di libertà anche in questo.

Solo Belpietro poteva d’altronde chiamare poco conformisticamente il suo giornale di destra, nato da una scissione di Libero dopo il ritorno di Vittorio Feltri al timone editoriale, con la traduzione italiana della Pravda, la storica testata del partito comunista sovietico.

A Renzi, incapace di evitare la riscomparsa dell’Unità, un po’ per la serie di chi se le va a cercare, Staino ha dato -dicevo- direttamente di tutto, senza nascondersi dietro Bobo o altre creature delle sue inconfondibili vignette: “cafone” “ignorante”, “bugiardo seriale”, destinato a perdere facendo però perdere, con lui, tutti quelli che gli hanno creduto e lo hanno aiutato. A cominciare dallo stesso Staino, offertosi generosamente alla direzione del giornale storico della sinistra ma incaricato alla fine proprio dall’allora segretario del Pd e insieme presidente del Consiglio, l’anno scorso, a rilanciare la testata in crisi di diffusione “non schiacciandolo sul governo”. Che era peraltro alle prese, in quel momento, con la dannata –vistane la conclusione- campagna referendaria sulla riforma costituzionale. Per la quale Staino non è per niente pentito di avere votato sì, così come non è pentito di essersi scontrato per quella riforma e per altro ancora con la Cgil di Susanna Camusso, troppo “retrogada e oscurantista” per i suoi gusti. Che sono quelli, felicemente a dispetto della sua età, di un riformista spinto, convinto che la sinistra non possa sopravvivere senza mettersi al passo coi tempi, ma anche senza per questo confondersi con la destra, come un po’ apparve subito a Staino il condirettore Andrea Romano, assegnatogli in persona da Renzi: un Romano tanto deciso a “leccargli il culo”- parola di Staino- da avere cercato di impedire durante la campagna referendaria la pubblicazione di un articolo di Marcelle Padovani, mica l’ultima arrivata, favorevole alla riforma costituzionale ma contenente, all’inizio, alcune critiche all’allora presidente del Consiglio.

Quella volta fu il deputato toscano onnipresente nei salotti televisivi per conto di Renzi a prenotarsi la rimozione, seguita qualche mese dopo. Ora è toccato al povero Staino perdere il giornale per l’inerzia di Renzi di fronte al rifiuto del costruttore Massimo Pessina di continuare a finanziarlo: un rifiuto, debbo dire, anche se Staino ha omesso di precisarlo, in qualche modo incoraggiato o addirittura provocato dal concorrente Fatto Quotidiano di Marco Travaglio con una campagna sulle contropartite economiche che il capo del Pd avrebbe promesso, e non sarebbe stato quindi più in grado di assicurare di fronte al clamore di uno scandalo, vero o presunto che fosse.

Coi tempi che corrono, specie nelle Procure, solo un eroe avrebbe potuto continuare a finanziare un giornale rimettendoci dei soldi ed esponendosi contemporaneamente al sospetto di chissà quali favori avesse avuto o stesse ancora ricevendo dal socio di minoranza rappresentato da una società del Pd.

Allo sfogo forte e condivisibile di Staino contro l’abitudine, secondo lui, di Renzi di “non esserci” quando e dove occorre, è mancato solo –diciamoci la verità- un sonoro ed esplicito vaffanculo, scusatemi, alla maniera di Grillo. Che è un altro ad avere seri problemi con i giornali e, più in generale, con la libertà di stampa.

Eppure, diavolo di un uomo, il comico delle 5 stelle è riuscito a sorprendermi se ha autorizzato –e non è stato invece spiazzato pure lui- la sindaca di Roma Virginia Raggi a tentare un consuntivo accettabile del suo primo anno di esperienza alla guida della Capitale e di impegnarsi a fare meglio scrivendo una bella lettera non al Fatto Quotidiano ma al Messaggero dell’odiato editore Francesco Gaetano Caltagirone, visto che a Roma vende più copie del giornale di Travaglio. Un po’ di realismo, evidentemente, non dispiace neppure a Grillo, quando gli fa comodo.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio del 21-6-2017 a pagina 14 dei commenti

Meglio le bugie che le bombe, ma ci vorrebbe un limite

         Più si allunga la campagna elettorale -non quella ormai alla fine per le amministrative con i ballottaggi di domenica prossima, ma quella per le politiche di fine legislatura- più il dibattito politico diventa una maionese. Si spargono veleni, bugie, manovre sotterranee, rivelazioni sospette: tutta roba preferibile, per carità, agli attentati terroristici in Gran Bretagna e in Francia di questa torrida e incipiente estate, ma ugualmente tossica per il disorientamento che crea.

         Non si sa, francamente, se ridere o piangere di fronte alla disinvoltura con la quale Massimo D’Alema, per esempio, confessa al Manifesto, di avere trovato troppo “estremismo” e troppe “calunnie” anche nei suoi riguardi nel raduno di domenica al teatro Brancaccio di Roma, dove sedeva in prima fila per godersi una delle tante isole della sinistra che vorrebbero costituire l’arcipelago di una riedizione dell’Ulivo o dell’Unione dei tempi di Romano Prodi. Le “calunnie” di cui l’ex presidente del Consiglio si è sentito personalmente colpito sono quelle dell’oratore principale del raduno, che lo ha accusato di avere violato la Costituzione ogni volta che da presidente del Consiglio nel 1999 partecipò in qualche modo alla guerra della Nato nei Balcani, contro la Serbia. La “Cassazione” addirittura –ha assicurato e rivelato D’Alema- lo ha assolto.

         Sempre al Brancaccio, il professore e senatore Miguel Gotor, bersaniano doc, ha finto di non prendersela per i fischi che si è guadagnato tentando di coniugare la parola magica “insieme” con la scissione del Pd consumatasi qualche mese fa per iniziativa proprio dei suoi compagni di corrente o di area.

         Romano Prodi fa intanto incetta di Vinavil ed altre colle in tutti i negozi della penisola per averne abbastanza da usare nella missione che si è data di rimettere insieme i cocci dei suoi passati governi e far decollare, magari, per Palazzo Chigi la candidatura dell’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia. Il quale per prudenza si è tenuto lontano dal Brancaccio, dove ne hanno fischiato lo stesso il none quando qualcuno lo ha citato.

         A destra, o al centro, come preferite, lo spettacolo non è migliore. Il senatore fiorentino Denis Verdini, per esempio, si è appena esibito sul Corriere della Sera vantando le sue radici addirittura risorgimentali e mazziniane, al netto naturalmente dei problemi che ha oggi con la giustizia, e tessendo gli elogi del suo amico e corregionale Matteo Renzi, che sarebbe “ancora l’unica speranza di questo Paese”. Ma al tempo stesso gli ha dato praticamente del falso e del doppiogiochista rivelando di essere stato da lui invitato nello scorso mese di dicembre a rimanere fuori dal governo di Paolo Gentiloni per renderlo il più “fragile” possibile, aggredibile politicamente e fisicamente- presumo- come il governo di Enrico Letta rimosso dallo stesso Renzi appena dopo esser diventato segretario del Pd, quasi tre anni e mezzo fa.

         “E io l’ho fatto senza problemi”, ha assicurato Verdini parlando dell’astinenza governativa ordinatagli dal suo amico Matteo, ma dimenticando lo spettacolo del tutto diverso -e quindi falso, debbo presumere- offerto da lui e dai suoi amici nei giorni della formazione del Gabinetto Gentiloni, quando i verdiniani minacciavano l’ira di Dio se non avessero avuto uno strapuntino, almeno di sottosegretario.

         Potrei continuare, ma non lo faccio per carità di patria, con la minuscola, o di quel poco che ancora resta della politica, sempre con la minuscola.

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Vi racconto gli ultimi petardi di Massimo D’Alema, Romano Prodi e Denis Verdini

Clamoroso vaffanculo di Staino a Matteo Renzi

         Fa purtroppo parte della serie “se la va a cercare” anche la faccia che il risegretario del Pd Matteo Renzi ha perso -inesorabilmente perso, credo- con la riscomparsa dalle edicole dell’Unità, il giornale storico non solo del Pci, fondato da Antonio Gramsci nel 1924, due anni prima di essere arrestato dai fascisti, ma di tutta la sinistra italiana. Che già dal 1896 poteva contare sull’altrettanto storico giornale socialista Avanti!, fondato da Leonida Bissolati.

         Definirei un atto impietoso di accusa quello strappato da Luca Telese al vecchio, arrabbiatissimo Sergio Staino, chiamato dallo stesso Renzi l’anno scorso alla direzione del giornale per rivitalizzarlo -gli disse- “non schiacciandolo sul governo”, che lo stesso Renzi allora dirigeva, impegnatissimo nella campagna referendaria sulla riforma costituzionale. Che Staino, dividendosi da appassionato militante della sinistra fra le vignette e gli editoriali, sostenne con coraggio e insieme astuzia, scontrandosi duramente peraltro con l’allora vice direttore Andrea Romano, contrario alla pubblicazione di un articolo di Marcelle Padovani -mica l’ultima arrivata- per un sì alla riforma preceduto però da qualche critica al presidente del Consiglio e segretario del partito.

         Allora fu il deputato Andrea Romano, onnipresente nei salotti televisivi per conto di Renzi, a prenotarsi la rimozione, seguita qualche mese dopo. Ora è toccato al povero Staino, andato e tornato alla direzione nella nuova, ciclica crisi dell’Unità, ad avere perduto il giornale per il rifiuto del costruttore Massimo Pessina di continuare a finanziarlo: un rifiuto, debbo dire, in qualche modo incoraggiato o addirittura provocato anche dal concorrente Fatto Quotidiano di Marco Travaglio con una campagna sulle contropartite economiche che Renzi avrebbe promesso, e non sarebbe stato quindi più in grado di assicurare di fronte al clamore dello scandalo, vero o presunto che fosse.

         Per nulla pentito del suo sì alla riforma costituzionale bocciata nel referendum del 4 dicembre scorso, e neppure delle critiche mosse in quella e anche in altre, più recenti occasioni al maggiore sindacato italiano, la Cgil, troppo “retrogrado e o oscurantista” per difendere davvero i lavoratori, Staino non perdona a Renzi di averlo lasciato solo nell’ultima crisi dell’Unità, di essersi comportato anche con lui come “un bugiardo seriale”, di averne tradito la buona fede, di privilegiare chi “gli lecca il culo” –chiedo scusa dell’espressione per lui- e di essere votato, per la sua mania di grandezza e la mancanza di cultura, specie politica, alla sconfitta. Che sarà però -ha ammonito Staino recitando in prima persona e direttamente il Bobo delle sue argute vignette- “la sconfitta di tutti”, intendendo per tali quanti davvero credono alla capacità della sinistra di essere al passo coi tempi senza confondersi con la destra, o perdersi nel rimpianto delle cose che furono. E che, peraltro, non furono sempre belle per la stessa sinistra, anche se Staino si è dimenticato di aggiungerlo, o il suo intervistatore di registrarlo.

         Pur al netto degli elementi certamente personali della polemica, essendosi Staino sentito offeso da quel “gran cafone” che del resto ha dato direttamente e impietosamente a Renzi, è francamente difficile dare torto, spero, non all’ultimo direttore dell’Unità, convinto come sono che la scomparsa di un giornale è sempre una brutta, anzi una pessima notizia per la democrazia. Così come lo è il boicottaggio di un ritorno o di ogni nuova testata che si affaccia sul panorama della stampa, fra edicole che chiudono insieme con i giornali e con il calo progressivo delle vendite di chi ancora resiste alla crisi.

         Scusate se scomodo addirittura il Talmud con l’emozionante richiamo al dovere di salvare una vita per salvare il mondo intero, ma pure chi salva un giornale salva la libertà, anche quando quel giornale non gli dovesse piacere. Ma a me l’Unità di Staino francamente piaceva, a dispetto di tutte le polemiche che ho potuto fare o subire dal giornale dell’allora Pci negli anni della sua maggiore diffusione.

         Pure i grillini, che insensatamente processano i giornali che non ne condividono le iniziative, tutte o in parte, finiscono sempre col contraddirsi, fortunatamente, e per riconoscerne l’utilità. Lo ha appena fatto, con una svolta una volta tanto positiva, la sfortunata sindaca di Roma Virginia Raggi affidando ad un giornale come Il Messaggero, con i cui redattori e il cui editore il movimento delle 5 stelle ha avuto polemiche furibonde, una lettera di consuntivo del suo primo anno alla guida della città e di impegno, diciamo così, perché quelli successivi siano migliori: cosa che ovviamente dipenderà solo dalla sindaca e dal movimento che le è alle spalle, o di lato, spesso aiutandola purtroppo più a sbagliare che a correggersi. Ma questa, naturalmente, è un’altra storia.

Quando Guido Quaranta multava Giulio Andreotti

         Dei 90 anni che oggi compie felicemente Guido Quaranta, almeno 57 sono stati per me di colleganza e di amicizia fraterna. Abbiamo battuto come cronisti parlamentari, informatori, cacciatori di notizie e di teste da strapazzare, analisti, anche se lui odia sentirsi definire così per una modestia o una civetteria che non condivido, le stesse strade, le stesse piste, gli stessi corridoi, le stesse anticamere, gli stessi sgabuzzini. Come quello delle scope ed altri attrezzi per le pulizie nella sede della Dc all’Eur, dove c’infilammo per origliare una riunione della corrente di Carlo Donat-Cattin che si svolgeva in uno stanzone attiguo. Era il giorno in cui il Consiglio Nazionale dell’allora partito di maggioranza fu chiamato ad eleggere il successore di Mariano Rumor alla segreteria, dopo che questi aveva sostituito Aldo Moro a Palazzo Chigi, al termine di una pausa estiva gestita nel 1968 da un governo “balneare” di Giovanni Leone.

         Donat-Cattin non voleva saperne di votare il candidato della maggioranza, che era Flaminio Piccoli, considerandolo per i suoi gusti troppo di destra ma soprattutto troppo disinvolto, avendo messo in croce Moro per cinque anni con l’accusa di arrendevolezza verso gli alleati socialisti di governo ed avendo poi aiutato Rumor ad offrire agli stessi socialisti molto più di quanto non fosse stato permesso al povero Moro, pur di ricostituire dopo le elezioni di quell’anno il centrosinistra. Che divenne con Rumor addirittura “più aperto e coraggioso”.

         Cì infilammo in quello sgabuzzino -Guido scriveva per Paese sera e io per il Momento sera, entrambi giornali di Roma- perché un’intemerata di Donat-Cattin avrebbe potuto riaprire la partita della segreteria per un’altra corrente della stessa maggioranza. I concorrenti non mancavano di certo: fra questi, l’allora giovane e già guardingo Arnaldo Forlani, delfino di Amintore Fanfani, che già lo sfotteva chiamandolo “una mammoletta timorosa di essere colta per non appassire”.

         Fummo tanto presi dall’origliamento da non accorgerci che qualcuno degli addetti alle pulizie era passato a chiudere dall’esterno la porta, per cui alla fine della riunione dei forzanovisti, come si chiamavano gli amici di Donat-Cattin, ci scoprimmo prigionieri. Ce la passammo di brutto prima che qualcuno provvidenzialmente passasse di lì, sentisse i nostri colpi alla porta con i pugni e si prodigasse per rintracciare chi fosse in grado di liberarci.

         Vi lascio immaginare l’imbarazzo che provammo ad uscire tra gli sguardi generali di disapprovazione, per niente di divertimento. In compenso avevamo avuto un’occasione irripetibile di capire i meccanismi interni della Dc, e soprattutto di valutare la sottigliezza e preveggenza di Moro. Alle cui confidenze Donat-Cattin si era richiamato per convincere i suoi che convenisse astenersi su Piccoli e farlo passare perché sarebbe durato poco. Durò infatti solo nove mesi, trascorsi i quali fu eletto segretario Forlani. Che avrebbe gestito sì la fase della “centralità”, per non chiamarla centrismo, con l’uscita dei socialisti dal governo e il ritorno dei liberali, ma alla lunga si sarebbe rivelato il più moroteo dei fanfaniani, o il più fanfaniano dei morotei, sino a rompere con il suo capocorrente e ad essere chiamato ironicamente, e al tempo stesso affettuosamente, da Donat-Cattin, sempre lui, “il Moro dei poveri”. Il Moro vero era stato purtroppo assassinato dalle brigate rosse. Eravamo ormai agli anni dell’uscita dalla fase della maggioranza di “solidarietà nazionale” col Pci e della ripresa della collaborazione di governo col Psi, nel frattempo passato dalla guida di Francesco De Martino a quella di Bettino Craxi. Di cui Forlani fu l’unico nella Dc ad accettare nel 1979, dopo un incarico conferitoa sorpresa da Sandro Pertini, l’ipotesi di gudare un governo di coalizione. Che si realizzò però solo dopo quattro anni, con lo stesso Forlani vice presidente del Consiglio.

         Un’altra volta in cui mi trovai con Guido dove non dovevamo esserci fu al Cairo, a metà degli anni Settanta, al seguito dell’allora presidente della Repubblica Giovanni Leone, di ritorno da una visita ufficiale in Persia.

         Scambiammo, nell’albergo dove alloggiavamo, una festa nuziale addirittura per un funerale, viste le corone di fiori allineate lungo le pareti di un salone e su un palco. E c’infilammo fra i presenti per curiosare. Quando ci rendemmo conto, con l’arrivo degli sposi, che era appunto una festa, vi partecipammo a modo nostro facendoci una scorpacciata di datteri, sino a quando qualcuno non si rese conto che eravamo degli infiltrati e non ci allontanò. Di notte ebbi una colica che obbligò il povero Guido a cercare un dottore e a rifornirmi dei medicinali necessari a rimettermi in sesto in tempo per tornare il giorno dopo a Roma con i colleghi sull’aereo del presidente Leone. Con il quale peraltro, sempre in quel viaggio, ma in Persia, avevamo avuto con Guido un’esperienza di una comicità assoluta.

         Eravamo, in particolare, a Persepoli, di cui giustamente lo Scià era fiero con tutti gli ospiti che gli capitavano a tiro. Di mattina presto davanti all’albergo dove eravamo ospitati arrivò un’imponente auto Rolls Royce di colore marrone scuro, senza scorta e con un solo uomo visibile a bordo: l’autista. Pensammo che la macchina fosse arrivata per prelevare proprio Leone, e quindi ci bloccammo dove eravamo per aspettare il presidente e strappargli qualche notizia. Ma Leone era già lì, nell’auto, sprofondato nel sedile posteriore. Lo vedemmo solo quando un inserviente aprì la portiera per farlo scendere. Guido ed io ci guardammo in faccia attoniti e scoppiammo a ridere. Beh, Leone si rese conto della situazione, saltò giù dal sedile e si unì alla nostra risata rammaricandosi con un gesto della sproporzione fra le sue dimensioni fisiche e l’auto che gli era stata assegnata. Una risata, la sua, che naturalmente mandò in vacca ogni idea di chiedergli qualcosa a proposito della visita e degli affari politici ed economici che potevano derivarne.

         Nei palazzi romani del potere i più indulgenti con quel mastino che era Guido, col taccuino sempre in mano per prendere appunti, imitato per stile e perseveranza negli anni successivi, fra gli altri, da Ezio Mauro e dal povero Walter Tobagi, quando il Corriere della Sera lo mandava a Roma per qualche inchiesta, erano Moro e Giulio Andreotti.

         Come ha già raccontato il vice direttore dell’Espresso Marco Damilano, che ha avuto Guido per qualche anno come collega di stanza nel famoso settimanale, Moro nelle riunioni di partito o di corrente si preoccupava sempre di accertarsi che Quaranta non si fosse intrufolato fra gli ospiti. Gli era accaduto anche in qualche Consiglio Nazionale del partito partecipando persino alle votazioni. Ma la diffidenza di Moro -posso assicurarlo, avendo avuto Guido e io la stessa simpatia e gli stessi rapporti con Moro- era più ironica che effettiva. Egli tollerava, per esempio, che ogni tanto il suo caposcorta, il povero maresciallo dei Carabinieri Oreste Leonardi, morto nell’agguato e nel sequestro in via Fani la mattina del 16 marzo 1978, ci rifilasse qualche notizia su di lui, che non usava mai darne direttamente.

         Andreotti quando vedeva Guido avvicinarglisi con quel taccuino in mano e la biro aperta si bloccava, rassegnato, e gli chiedeva, sornione: “Mi vuoi fare una multa?”. E cercava poi di sottrarsi alla sua curiosità con le solite battute, con cui spesso riusciva tuttavia anche a lanciare messaggi agli avversari di turno, che non mancavano mai, fuori e dentro il suo partito. Come quando avvertì un Ciriaco De Mita polemico e smanioso della crisi di governo che fosse “meglio tirare a campare che tirare le cuoia”.

         Auguri, carissimo Guido, per i tuoi 90 anni, meravigliosamente portati. E complimenti per l’umanità e la signorilità con le quali hai sempre svolto il tuo lavoro: mai una scorrettezza. Non ti perdono solo una cosa, di cui però non hai colpa: la paura che mi hai fatto prendere una quindicina di giorni fa, alla notizia della morte di un tuo omonimo, uomo d’ordine della sede del Pci e di tutti i partiti che ne sono derivati. Mi è venuto un colpo, quel giorno. Ci eravamo appena salutati 48 ore prima alla Camera per la festa dei 90 anni di un altro nostro collega e amico: Pasquale Laurito, autore della Velina rossa, anzi rossissima: una o due paginette di notizie o solo di commento che l’esigentissimo amico e suo compagno di partito Massimo D’Alema riesca a leggere senza arrabbiarsi, anche se qualche volta possono procurargli qualche imbarazzo per il modo troppo schietto col quale ne raccolgono e persino anticipano gli umori.

         Non male, anche per resistenza fisica o longevità, come preferite, questi vecchi cronisti di strada, come spesso ci siamo definiti scherzando, ma non troppo.

        

 

Attenti agli stress da campagna elettorale

         Per far capire i danni già procurati e quelli che ancora più gravi potrà procurare questa lunghissima, interminabile campagna elettorale in corso ormai da più di un anno, da quando cominciò praticamente la campagna referendaria sulla riforma costituzionale, incattivita nella sua prosecuzione dalla bocciatura del governo, ci sono voluti i disordini scoppiati nell’aula del Senato per l’esame della legge chiamata impropriamente “ius soli”. Impropriamente, perché la legge tanto contestata da grillini, leghisti ed altri non assegna automaticamente la cittadinanza a chi nasce in Italia da genitori stranieri, come accade negli Stati Uniti e in tutti gli altri paesi dove vige appunto lo “ius soli”, ma comporta un certo corso di formazione e di studi. Purtroppo da noi, si sa, si scopiazzano allegramente leggi e nomi, magari latinizzandoli, come accade con le norme elettorali. E chi cerca di farlo notare, com’è accaduto qualche sera fa in televisione a Vittorio Zucconi polemizzando col risegretario del Pd Matteo Renzi proprio sullo “ius soli” di casa nostra, viene trattato e liquidato come un rompiscatole.

         In questa interminabile- ripeto- campagna elettorale, finalmente lamentata anche dall’amico Marcello Sorgi su La Stampa, dopo le botte e gli insulti nell’aula di Palazzo Madama, ne abbiamo viste e ne vedremo ancora di tutti i colori, per cui continuo a considerare insensata la resistenza -al minuscolo, molto minuscolo- alla fine di questa disgraziata legislatura. Disgraziata anche nel numero che porta: il 17. Una resistenza insensata -ripeto- qualunque sia la motivazione: dalla più nobile, come il rispetto quasi della buona educazione istituzionale invocato dal presidente, a questo punto, fortunatamente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano, o come l’opportunità -invocata questa volta dal presidente effettivo, Sergio Mattarella- di “omogeneizzare” le due leggi diverse, per la Camera e per il Senato, confezionate con le forbici, l’ago e il filo dei giudici della Corte Costituzionale, o come la necessità di non lasciare incompiuti i percorsi parlamentari di tanti provvedimenti, alla più miserabile delle ragioni. Che è naturalmente quella di non far perdere qualche mese d’indennità e rimborsi spese ai parlamentari eletti, cioè nominati dai loro partiti, nel 2013 e ad una buona parte di essi, essendo di prima nomina, anche il diritto al cosiddetto vitalizio, o come altro si voglia o si debba ora chiamare la pensione dell’ex onorevole.

         Tutto in campagna elettorale diventa non caldo, ma caldissino, anzi rovente. Ogni pretesto è buono per drammatizzare un problema e cercare di ricavare qualche voto in più per sé o toglierne ad altri. Poi si lamentano, questi strateghi da strapazzo delle legislature da portare alla scadenza ordinaria ad ogni costo, che gli elettori non li capiscano e vadano infine a votare sempre meno numerosi, quando finalmente sono chiamati alle urne. C’è notoriamente uno stress anche da ansia.

         Fra gli inconvenienti delle campagne elettorali interminabili c’è pure il mercato, diciamo così, delle candidature, in qualche modo paragonabile al mercato dei calciatori, che pure ha una sua stagione ben regolata. Particolarmente solerte, in questa materia, si sta mostrando Silvio Berlusconi, al quale se ne attribuiscono ogni giorno di tutti i colori e sapori, dagli aspetti talora più comici che drammatici. E sempre nella presunzione, favorita dalle leggi elettorali, sia quelle in vigore sia quelle in cantiere, che un candidato possa già considerarsi eletto perché unto dal signore, con la minuscola naturalmente, per non fare torto all’altro, con la maiuscola, che deve avere da tempo voltato lo sguardo dall’altra parte del nostro infelice Paese per non arrabbiarsi.

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