Quando Guido Quaranta multava Giulio Andreotti

         Dei 90 anni che oggi compie felicemente Guido Quaranta, almeno 57 sono stati per me di colleganza e di amicizia fraterna. Abbiamo battuto come cronisti parlamentari, informatori, cacciatori di notizie e di teste da strapazzare, analisti, anche se lui odia sentirsi definire così per una modestia o una civetteria che non condivido, le stesse strade, le stesse piste, gli stessi corridoi, le stesse anticamere, gli stessi sgabuzzini. Come quello delle scope ed altri attrezzi per le pulizie nella sede della Dc all’Eur, dove c’infilammo per origliare una riunione della corrente di Carlo Donat-Cattin che si svolgeva in uno stanzone attiguo. Era il giorno in cui il Consiglio Nazionale dell’allora partito di maggioranza fu chiamato ad eleggere il successore di Mariano Rumor alla segreteria, dopo che questi aveva sostituito Aldo Moro a Palazzo Chigi, al termine di una pausa estiva gestita nel 1968 da un governo “balneare” di Giovanni Leone.

         Donat-Cattin non voleva saperne di votare il candidato della maggioranza, che era Flaminio Piccoli, considerandolo per i suoi gusti troppo di destra ma soprattutto troppo disinvolto, avendo messo in croce Moro per cinque anni con l’accusa di arrendevolezza verso gli alleati socialisti di governo ed avendo poi aiutato Rumor ad offrire agli stessi socialisti molto più di quanto non fosse stato permesso al povero Moro, pur di ricostituire dopo le elezioni di quell’anno il centrosinistra. Che divenne con Rumor addirittura “più aperto e coraggioso”.

         Cì infilammo in quello sgabuzzino -Guido scriveva per Paese sera e io per il Momento sera, entrambi giornali di Roma- perché un’intemerata di Donat-Cattin avrebbe potuto riaprire la partita della segreteria per un’altra corrente della stessa maggioranza. I concorrenti non mancavano di certo: fra questi, l’allora giovane e già guardingo Arnaldo Forlani, delfino di Amintore Fanfani, che già lo sfotteva chiamandolo “una mammoletta timorosa di essere colta per non appassire”.

         Fummo tanto presi dall’origliamento da non accorgerci che qualcuno degli addetti alle pulizie era passato a chiudere dall’esterno la porta, per cui alla fine della riunione dei forzanovisti, come si chiamavano gli amici di Donat-Cattin, ci scoprimmo prigionieri. Ce la passammo di brutto prima che qualcuno provvidenzialmente passasse di lì, sentisse i nostri colpi alla porta con i pugni e si prodigasse per rintracciare chi fosse in grado di liberarci.

         Vi lascio immaginare l’imbarazzo che provammo ad uscire tra gli sguardi generali di disapprovazione, per niente di divertimento. In compenso avevamo avuto un’occasione irripetibile di capire i meccanismi interni della Dc, e soprattutto di valutare la sottigliezza e preveggenza di Moro. Alle cui confidenze Donat-Cattin si era richiamato per convincere i suoi che convenisse astenersi su Piccoli e farlo passare perché sarebbe durato poco. Durò infatti solo nove mesi, trascorsi i quali fu eletto segretario Forlani. Che avrebbe gestito sì la fase della “centralità”, per non chiamarla centrismo, con l’uscita dei socialisti dal governo e il ritorno dei liberali, ma alla lunga si sarebbe rivelato il più moroteo dei fanfaniani, o il più fanfaniano dei morotei, sino a rompere con il suo capocorrente e ad essere chiamato ironicamente, e al tempo stesso affettuosamente, da Donat-Cattin, sempre lui, “il Moro dei poveri”. Il Moro vero era stato purtroppo assassinato dalle brigate rosse. Eravamo ormai agli anni dell’uscita dalla fase della maggioranza di “solidarietà nazionale” col Pci e della ripresa della collaborazione di governo col Psi, nel frattempo passato dalla guida di Francesco De Martino a quella di Bettino Craxi. Di cui Forlani fu l’unico nella Dc ad accettare nel 1979, dopo un incarico conferitoa sorpresa da Sandro Pertini, l’ipotesi di gudare un governo di coalizione. Che si realizzò però solo dopo quattro anni, con lo stesso Forlani vice presidente del Consiglio.

         Un’altra volta in cui mi trovai con Guido dove non dovevamo esserci fu al Cairo, a metà degli anni Settanta, al seguito dell’allora presidente della Repubblica Giovanni Leone, di ritorno da una visita ufficiale in Persia.

         Scambiammo, nell’albergo dove alloggiavamo, una festa nuziale addirittura per un funerale, viste le corone di fiori allineate lungo le pareti di un salone e su un palco. E c’infilammo fra i presenti per curiosare. Quando ci rendemmo conto, con l’arrivo degli sposi, che era appunto una festa, vi partecipammo a modo nostro facendoci una scorpacciata di datteri, sino a quando qualcuno non si rese conto che eravamo degli infiltrati e non ci allontanò. Di notte ebbi una colica che obbligò il povero Guido a cercare un dottore e a rifornirmi dei medicinali necessari a rimettermi in sesto in tempo per tornare il giorno dopo a Roma con i colleghi sull’aereo del presidente Leone. Con il quale peraltro, sempre in quel viaggio, ma in Persia, avevamo avuto con Guido un’esperienza di una comicità assoluta.

         Eravamo, in particolare, a Persepoli, di cui giustamente lo Scià era fiero con tutti gli ospiti che gli capitavano a tiro. Di mattina presto davanti all’albergo dove eravamo ospitati arrivò un’imponente auto Rolls Royce di colore marrone scuro, senza scorta e con un solo uomo visibile a bordo: l’autista. Pensammo che la macchina fosse arrivata per prelevare proprio Leone, e quindi ci bloccammo dove eravamo per aspettare il presidente e strappargli qualche notizia. Ma Leone era già lì, nell’auto, sprofondato nel sedile posteriore. Lo vedemmo solo quando un inserviente aprì la portiera per farlo scendere. Guido ed io ci guardammo in faccia attoniti e scoppiammo a ridere. Beh, Leone si rese conto della situazione, saltò giù dal sedile e si unì alla nostra risata rammaricandosi con un gesto della sproporzione fra le sue dimensioni fisiche e l’auto che gli era stata assegnata. Una risata, la sua, che naturalmente mandò in vacca ogni idea di chiedergli qualcosa a proposito della visita e degli affari politici ed economici che potevano derivarne.

         Nei palazzi romani del potere i più indulgenti con quel mastino che era Guido, col taccuino sempre in mano per prendere appunti, imitato per stile e perseveranza negli anni successivi, fra gli altri, da Ezio Mauro e dal povero Walter Tobagi, quando il Corriere della Sera lo mandava a Roma per qualche inchiesta, erano Moro e Giulio Andreotti.

         Come ha già raccontato il vice direttore dell’Espresso Marco Damilano, che ha avuto Guido per qualche anno come collega di stanza nel famoso settimanale, Moro nelle riunioni di partito o di corrente si preoccupava sempre di accertarsi che Quaranta non si fosse intrufolato fra gli ospiti. Gli era accaduto anche in qualche Consiglio Nazionale del partito partecipando persino alle votazioni. Ma la diffidenza di Moro -posso assicurarlo, avendo avuto Guido e io la stessa simpatia e gli stessi rapporti con Moro- era più ironica che effettiva. Egli tollerava, per esempio, che ogni tanto il suo caposcorta, il povero maresciallo dei Carabinieri Oreste Leonardi, morto nell’agguato e nel sequestro in via Fani la mattina del 16 marzo 1978, ci rifilasse qualche notizia su di lui, che non usava mai darne direttamente.

         Andreotti quando vedeva Guido avvicinarglisi con quel taccuino in mano e la biro aperta si bloccava, rassegnato, e gli chiedeva, sornione: “Mi vuoi fare una multa?”. E cercava poi di sottrarsi alla sua curiosità con le solite battute, con cui spesso riusciva tuttavia anche a lanciare messaggi agli avversari di turno, che non mancavano mai, fuori e dentro il suo partito. Come quando avvertì un Ciriaco De Mita polemico e smanioso della crisi di governo che fosse “meglio tirare a campare che tirare le cuoia”.

         Auguri, carissimo Guido, per i tuoi 90 anni, meravigliosamente portati. E complimenti per l’umanità e la signorilità con le quali hai sempre svolto il tuo lavoro: mai una scorrettezza. Non ti perdono solo una cosa, di cui però non hai colpa: la paura che mi hai fatto prendere una quindicina di giorni fa, alla notizia della morte di un tuo omonimo, uomo d’ordine della sede del Pci e di tutti i partiti che ne sono derivati. Mi è venuto un colpo, quel giorno. Ci eravamo appena salutati 48 ore prima alla Camera per la festa dei 90 anni di un altro nostro collega e amico: Pasquale Laurito, autore della Velina rossa, anzi rossissima: una o due paginette di notizie o solo di commento che l’esigentissimo amico e suo compagno di partito Massimo D’Alema riesca a leggere senza arrabbiarsi, anche se qualche volta possono procurargli qualche imbarazzo per il modo troppo schietto col quale ne raccolgono e persino anticipano gli umori.

         Non male, anche per resistenza fisica o longevità, come preferite, questi vecchi cronisti di strada, come spesso ci siamo definiti scherzando, ma non troppo.

        

 

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