Rappresentazione pirandelliana del Consiglio Europeo sui giornali italiani

Sotto un titolo che francamente non mi sembra campato in aria e riferisce di un’Europa che va “avanti sul piano” dei migranti, pur non essendo ancora arrivata al traguardo, il Corriere della Sera ha registrato anche una “Meloni soddisfatta”, riferendo delle dichiarazioni rilasciate dall’interessata ai giornalisti a Bruxelles. 

Tutt’altro spettacolo è stato raccontato da Repubblica con quella “Meloni a mani vuote” annunciata con compiacimento su tutta la prima pagina e rafforzata da “Una convitata fuori posto”, a ulteriore commento.

Ancora più negativa è la rappresentazione dello spettacolo di Bruxelles sulla prima pagina di un altro giornale, come Repubblica, del gruppo editoriale del nipote di Gianni Agnelli: Il Secolo XIX. Dove si sono risparmiati persino i titoli, offrendo ai lettori una vignetta di Stefano Rolli in cui la Meloni è davanti ad una porta sbattutale in faccia dall’Unione Europea. Sulla stessa linea naturalmente Il Fatto Quotidiano con quella “Meloni gabbata in Europa” in un “altro flop a Bruxelles”.

“E’ la stampa, bellezza”, diceva Humphrey Bogart a Casablanca in un film del 1942 che ha fatto storia. Ma dovrebbe pur esserci un limite a questa bellezza se alla Stampa, altro giornale del gruppo editoriale del nipote di Gianni Agnelli, è potuto accadere non più tardi dell’altro ieri questo episodio in fondo modesto, per carità, ma pur sempre indicativo di certi rapporti tra i fatti e le opinioni, o convenienze.

In una prima pagina dominata dal “gelo” procurato alla Meloni nell’aula del Senato dal discorso del capogruppo leghista Massimiliano Romeo sostanzialmente contrario ad altri aiuti militari all’Ucraina, pur votati poi nella mozione della maggioranza conclusiva della discussione in vista del Consiglio Europeo a Bruxelles, non poteva né doveva trovare posto il commento quotidiano dell’ex direttore Marcello Sorgi. Il cui “taccuino” è solitamente valorizzato, tanto più perché l’autore si divide col direttore in carica, Massimo Giannini, i salotti televisivi di giornata. 

Nel taccuino, appunto, dell’altro ieri 22 marzo Sorgi riduceva di parecchio il gelo della Meloni scrivendo che il capogruppo leghista al Senato aveva sì dissentito praticamente dalle armi che continuiamo a mandare agli ucraini ma “a bassa voce, per il chiaro timore di dissipare il manovratore (in questo caso la manovratrice)”. “Ed anche se i suoi sospiri -aveva scritto ancora Sorgi da Roma non immaginando evidentemente l’aria che tirava in redazione a Torino- sono bastati alle opposizioni per denunciare divisioni nella maggioranza….la distinzione voluta sui rischi del prolungamento della guerra senza credibili iniziative di pace aveva l’aria di un atto dovuto, come se il Capitano” di Romeo “non potesse far altro rispetto a elettori e osservatori esterni, ma non volesse turbare più di tanto il clima”. Per leggere tutto questo però i lettori della Stampa hanno dovuto spingersi sino a pagina 6. In prima non era stato il caso neppure di un richiamo. 

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Le vite parallele di Giorgia Meloni oggi e di Bettino Craxi quarant’anni fa…

Un pò per come stanno davvero le cose in una maggioranza salda nei numeri ma non proprio compatta nell’intimo delle componenti, un pò per come le rappresentano, forzate, gli avversari cercando di far coincidere fatti, sintomi e quant’altro con le loro speranze, Giorgia Meloni sta rivivendo a Palazzo Chigi i giorni, i mesi e gli anni -durerà, durerà anche lei- di Bettino Craxi fra il 1983 e il 1987. 

Il quadro politico, certamente, è ben diverso anche per attori, comparse e simili, ma la durezza della partita è la stessa. Non a caso, del resto, Craxi finì presto nelle vignette di Giorgio Forattini sulla Repubblica di Eugenio Scalfari con gli stivaloni ai piedi e la testa in giù, come Mussolini appeso in Piazzale Loreto, a Milano. E la Meloni è già finita con la testa  in giù, anche lei, su qualche muro di Milano. 

Non c’è nessun Matteotti rapito e ucciso di cui Meloni possa non dico vantarsi ma assumersi la “responsabilità” in un discorso di stile e contenuto mussoliniano citato di recente da un poveretto -a dir poco- che vi si era ispirato a capo di un’azienda pubblica affidatagli dal nuovo governo, e per fortuna dimessosi prima ancora che la stessa Meloni glielo chiedesse, ma Giuseppe Conte ha già avuto la poco brillante idea di tentare l’evocazione del martire socialista nell’aula di Montecitorio parlando contro la presidente del Consiglio e la sua “faccia di bronzo”. Ma, come purtroppo gli capita spesso, è caduto in un lapsus scambiando Matteotti con Andreotti, morto per fortuna nel suo letto e con abbastanza anni sulle spalle. Così è capitato al capo ora delle 5 Stelle -che continua a contendere al Pd, anche a quello di Elly Schlein, la guida dell’opposizione- di cadere in una gigantesca, metaforica, silenziosa risata nell’aula dove sta cercando di farsi le ossa anche da deputato, dopo essersele fatte, per quanto non eletto ancora al Parlamento, da presidente del Consiglio fra il 2018 e il 2021. 

Craxi arrivò a Palazzo Chigi all’età di 49 anni, contro i 45 della Meloni nell’ottobre scorso, a dispetto dei santi politici che erano allora Ciriaco De Mita, a capo della Dc, ed Enrico Berlinguer, a capo del Pci. Vi arrivò per le perdite elettorali di un De Mita che si era fatto eleggere segretario democristiano col proposito dichiarato proprio di impedire che il leader socialista potesse riuscire dove non era  arrivato nel 1979 con l’incarico ricevuto a sorpresa dal presidente socialista della Repubblica Sandro Pertini. Solo Arnaldo Forlani nella direzione della Dc aveva allora  cercato di lasciato uno spiraglio aperto astenendosi nella votazione con la quale lo scudo crociato ancora guidato da Benigno Zaccagnini gli aveva sbattuto invece  la porta in faccia. 

Insediatosi alla guida del governo col proposito di rimanerci il più a lungo possibile, per quanto De Mita avesse ricavato, a torto o a ragione, l’impressione di avergli strappato una promessa di staffetta con la Dc a metà legislatura, poco più o poco meno, Craxi dovette dal primo giorno guardarsi più dallo stesso De Mita, il suo principale alleato, che da Berlinguer, il suo principale e irriducibile avversario. Che non gli perdonava l’ambizione di strappare al Pci il primato nella sinistra perduto dal Psi nel 1948, quando nel cosiddetto fronte popolare la disciplina dei comunisti, a loro modo, nell’uso delle preferenze ridusse di parecchio la rappresentanza parlamentare dei socialisti. 

Per quanto aiutato a guardarsi le spalle da un discreto ma vigile Forlani in veste di vice presidente del Consiglio e presidente della Dc, Craxi dovette subire dal segretario dello scudo crociato -un pò come ora la Meloni dalla Lega di Salvini, che non a caso al Nord ha ereditato l’elettorato una volta democristiano- parecchi sgambetti. Il più clamoroso dei quali fu tentato nel 1985 con la mancata partecipazione diretta e personale del leader dc alla campagna referendaria promossa dai comunisti contro gli storici tagli alla scala mobile, grazie ai quali l’inflazione finì di galoppare a due cifre. “De Mita -si sfogò la sera dei risultati Craxi con me al telefono- è riuscito a far vincere il no ai tagli solo nella sua Nusco”. 

Ma, oltre che da De Mita -come oggi Meloni dalla Lega fra assenze  dei ministri e dello stesso Salvini nelle aule parlamentari e dichiarazioni di voto ambivalenti, a favore delle armi all’Ucraina ma anche di allarme per l’aggravanento della guerra aperta dalla Russia- Craxi dovette guardarsi anche dal suo ministro della Difesa e leader repubblicano Giovanni Spadolini. Che dopo la famosa notte di Sigonella, che aveva obbligato i comunisti ad applaudire il presidente del Consiglio nelle aule parlamentari, si dimise accusando Craxi di avere non solo contraddetto ma anche umiliato gli  alleati americani impedendo ai marines di catturare gli autori e la mente del dirottamento terroristico della nave Achille Lauro.  I cui passeggeri e il cui equipaggio, fatta eccezione per l’ebreo americano Leon Klingoffer, erano stati salvati per l’intervento strappato ad Arafat da Craxi e dal ministro degli Esteri Giulio Andreotti. 

Dopo il chiarimento intervenuto direttamente fra Craxi e l’allora presidente americano Ronald Reagan, con tanto di scambio di lettere e successivo incontro alla Casa Bianca, al dimissionario Spadolini non rimase altra scelta che rimanere al suo posto. 

Chissà se e quante sorprese è destinata a procurare ad avversari e amici, e a noi giornalisti, Meloni nella prosecuzione del suo lavoro a Palazzo Chigi, come Craxi ai suoi tempi. Si abituerà di sicuro, come il suo predecessore di tanti anni fa, così diverso per appartenenze partitiche, studi, formazione e quant’altro, ma appassionato di politica come lei, un “professionista” secondo il linguaggio un pò critico di Silvio Berlusconi, a sfogliare i giornali la mattina alzando le spalle alla lettura dei necrologi del governo o dell’annuncio del suo ricovero in qualche pronto soccorso di quella grande città ospedaliera dell’informazione.  

Pubblicato sul Dubbio

Alla Camera come al teatro, in uno spettacolo con Meloni mattatrice

Neppure alla Camera, quindi, il vice presidente leghista del Consiglio Matteo Salvini, come il giorno prima al Senato, diversamente dal collega forzista Antonio Tajani, è riuscito a trovare il tempo, o la voglia, di affiancare Giorgia Meloni ai banchi del governo nella discussione d’investitura, diciamo così, per la missione al Consiglio Europeo di oggi e domani a Bruxelles.

Non è bastata la presenza, a turno, di un ministro leghista organizzata all’ultimo momento dal gruppo del Carroccio a placare sospetti, polemiche, accuse in sede politica e mediatica. “La Lega lascia sola Meloni in aula e alza la tensione nel governo”, ha titolato su tutta la prima pagina Domani, il giornale dell’ingegnere Carlo De Benedetti nella sua ultima versione di “radicalità”, necessaria a rinvigorire un Pd che all’indomani della sconfitta elettorale del 25 settembre gli sembrava ormai perduto, solo da sciogliere e liquidare, per le condizioni alle quali lo aveva ridotto il pur amico Enrico Letta. Che non aveva voluto sentirne i consigli telefonici di non lasciare la porta vuota della sinistra alla destra della Meloni rompendo con i grillini. 

Proprio i grillini, dal canto loro, ieri alla Camera non hanno saputo profittare della “tensione”, vera o presunta, nel governo per prendersi la scena dell’opposizione, vista anche la rinuncia della nuova segretaria del Pd ad intervenire nella discussione. A dispetto dell’enfasi con la quale il solito Fatto Quotidiano ha sparato sulla “faccia di bronzo” gridata personalmente da Giuseppe Conte alla Meloni, l’ex presidente del Consiglio è finito rovinosamente, in aula e sui social, per l’ennesima gaffe oratoria della sua carriera politica. In particolare, egli ha immerso il biscotto del governo di destra-centro nella melma del fascismo all’indomani non del delitto Matteotti ma del “delitto Andreotti”. Che col martire del socialismo italiano fa solo rima. 

Si chiede oggi il buon Massimo Gramellini sulla prima pagina del Corriere della Sera, offrendo il suo quotidiano caffè ai lettori, se “può bastare un lapsus a impiccare un uomo, un politico, uno statista”. Si, ormai può bastare, credo, considerando la frequenza -documentata poi dallo stesso Gramellini- con la quale anche da capo del governo il presidente attuale del Movimento 5 Stelle storpiava la realtà, persino parlando una volta del capo dello Stato per ricordarne il fratello ucciso  dalla mafia. 

Non migliore fortuna ha avuto, sempre nella discussione di ieri a Montecitorio, il verde  Angelo Bonelli con i sassi prelevati dal letto asciutto dell’Adige e ostentati in aula per denunciare la crisi della siccità. La Meloni gli ha efficacemente chiesto se non l’avesse scambiata per Mosè, che fu capace di prosciugare addirittura il mare. Tutta l’aula ha giustamente riso, con la Meloni, del deputato di opposizione. Forse ne avranno riso anche al Quirinale, dove poi la Meloni si è recata con un bel pò di ministri in vista della missione a Bruxelles. 

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Meloni infreddolita, fuori stagione, dagli alleati leghisti sulla guerra in Ucraina

Spero che, fragile come lei stessa una volta  si dichiarò al freddo o ai colpi d’aria, Giorgia Meloni non debba disertare il Consiglio Europeo di domani per il “gelo” che -stando ai titoli e titoletti sulle prime pagine della Stampa e di Repubblica– le ha procurato ieri al Senato la Lega. Che prima non ha trovato un ministro, dico uno, che potesse  raggiungere i banchi del governo nella discussione sul vertice di Bruxelles. Il vice presidente del Consiglio Matteo Salvini, recentemente festeggiato dalla premier in persona per il cinquantesimo compleanno con tanto di karaoke in coppia, è stato trattenuto altrove chissà da quali impegni più urgenti: magari la contemplazione del plastico del ponte sullo stretto di Messina. Poi La Lega  ha  ritenuto di intervenire nella discussione con un discorso del capogruppo Massimiliano Romeo a dir poco distonico rispetto alla linea esposta dalla presidente del Consiglio sulla guerra in Ucraina, di cui si occuperà il Consiglio Europeo con altri temi. 

Poi ancora, è vero, i senatori leghisti -come ha tenuto a ricordare il ministro meloniano dei rapporti col Parlamento, Luca Ciriani- hanno votato con gli alleati di centrodestra, o di destra-centro, e col cosiddetto terzo polo, la mozione di sostegno, indirizzo e quant’altro al governo per il vertice di Bruxelles, dove è scontata la conferma degli aiuti militari all’Ucraina aggredita dalla Russia di Putin. Ma quelle assenze leghiste dai banchi del governo e le parole del capogruppo del Carroccio rimangono certamente una macchia vistosa, anche per il sarcastico invito dell’oratore ai colleghi del partito della Meloni di “non distrarsi” durante il suo intervento, cioè di starlo a sentire ben bene. E di cose a sorpresa, diciamo così, Romeo ne aveva in mente: per esempio, l’avvertimento che “la corsa ad armamenti sempre più potenti” all’Ucraina “porta al rischio di un incidente da cui non si può tornare indietro”. 

Peccato, per lui, che a distrarsi in quel momento non erano gli alleati meloniani ma gli oppositori grillini, ai quali è sfuggita pertanto l’occasione di un applauso che avrebbe soddisfatto quanto meno la vanità del capogruppo leghista.  O lo avrebbe ringiovanito, riportandolo all’anno o poco più della maggioranza grigioverde della scorsa legislatura. Non si è distratta invece la capogruppo del Pd, che poi ha rilasciato dichiarazioni per chiedere, praticamente, a che titolo la Lega faccia ancora parte del governo e della maggioranza,  

Fuori dall’aula del Senato non si sarà certamente distratto -se non era dentro in qualche tribuna riservata agli ospiti- l’attivissimo ambasciatore russo a Roma Sergej Razov. Che conosca bene i leghisti italiani e il loro capo, cui anticipò i soldi per un viaggio non proprio turistico  a Mosca, l’anno scorso, annullato all’ultimo momento. Razov fa rima col nome assegnato al capogruppo della Lega oggi dal Foglio in un titolo di prima pagina a titolo di aggiornamento anagrafico di tipo rigorosamente politico: Romeozov. 

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Giuseppe Conte cade subito nella trappola del presunto asse Mosca-Pechino

Temo, almeno per chi l’ha usata con una certa enfasi non so se più compiaciuta o fiduciosa, che l’immagine dell’asse Mosca-Pechino sia un pò esagerata per rappresentare quella specie di incontro invece di terzo tipo che mi sembra svoltosi al Cremlino fra il cinese Xi Inping, reduce da una conferma a Pechino che sembra averlo ulteriormente impettito, e il russo Vladimir Putin ricercato peggio di un criminale comune dalla Corte Internazionale dell’Aja per ciò che ha combinato in Ucraina. Un incontro di terzo tipo, dicevo, per le tante ambiguità che coprono o caratterizzano intenzioni, progetti, interessi dei due interlocutori. Uno dei quali, il cinese, si considera -o viene considerato- portatore di un piano di pace così poco convincente nella dichiarata difesa della “sovranità” anche dell’Ucraina da essere stato trovato interessante, degno di attenzione dall’altro che considera il paese limitrofo un’escrescenza tardo-nazista da eliminare, cominciando col distruggerne il territorio e deportare i bambini per rieducarli alla civiltà russa. 

Non può stupire di certo che in Italia siano subito caduti nella trappola della recita moscovita i soliti pacifisti rossi, cespugli cui il Pd di Enrico Letta e ora anche di Elly Schlein consente di arrivare col suo aiuto in Parlamento e poi di muoversi in piena libertà e rrilevanza, e i pacifisti di nuovo conio, chiamiamoli così, quali sono i grillini di Giuseppe Conte. Il quale prima da presidente o ex presidente del Consiglio e ora da capo del Movimento 5 Stelle, come con i porti chiusi di fatto ai migranti nel suo primo governo con i leghisti e riaperti nelle successive alleanze politiche, anche con le armi d’aiuto all’Ucraina aggredita dai russi è passato disinvoltamente dal si al no, per giunta nell’arco di una stessa esperienza o parentesi politica quale la partecipazione al governo di Mario Draghi, nella scorsa legislatura. Figuriamoci adesso, all’opposizione del governo di Giorgia Meloni, che già quando contrastava, quasi unica in Parlamento, il governo Draghi ne condivideva però la linea di difesa militare dell’Ucraina. 

“Conte va alla guerra contro Schlein” sugli aiuti militari appunto agli ucraini condivisi dalla nuova segretaria del Pd, annuncia oggi in prima pagina Repubblica riferendosi ai voti parlamentari imminenti in vista dei vertici europei ai quali sta per partecipare la presidente del Consiglio. “L’Ucraina detonatore dello scontro tra M5S e Pd”, scrive e commenta realisticamente Massimo Franco sul Corriere della Sera. 

Voi pensate che a Mosca il cinese e il russo dell’asse decantato dal Fatto Quotidiano, e di così funesta memoria ricordando quello del secolo scorso fra Roma, Berlino e Tokio, abbiano trovato o troveranno il modo, la voglia, l’interesse di occuparsi, a proposito della guerra in Ucraina, anche di Giuseppe Conte come sponda su cui contare per dividere il fronte occidentale? Ne dubito assai. 

Il sequestro politico di Moro continua anche da morto coprendolo di falsità

Peggio, francamente, non potevano essere ricordati i 45 anni trascorsi dal sequestro di Aldo Moro, rapito fra il sangue della sua scorta mentre si recava alla presentazione parlamentare del quarto governo di Giulio Andreotti Che lui da presidente della Dc aveva contribuito a far formare, interamente composto da democristiani e con un programma concordato anche con i comunisti per ottenerne la fiducia, non più l’astensione, o “non fiducia”, di quello precedente. 

A Palazzo Chigi si sono addirittura dimenticati il 16 marzo scorso della ricorrenza  lasciando soli in via Fani il sindaco di Roma e il presidente della regione.  La corona di fiori del governo è arrivata a cerimonia quasi ultimata, come ha raccontato il Corriere della Sera.

Maria Fida Moro, una dei figli dello statista ucciso dalle brigate rosse dopo 55 giorni di drammatica prigionia, ha voluto ricordare a suo modo il padre lamentando ch’egli a 45 anni dalla sua morte non risulti ancora ufficialmente, a termini di legge con relativo indennizzo, una vittima del terrorismo, pur  coincidendo con la ricorrenza del suo assassinio il giorno della memoria delle vittime, appunto, del terrorismo. Quanto meno “vi chiedo di cambiare data”, ha chiesto Maria Fida. Che oggi ha 76 anni e non ha ancora chiuso i suoi conti evidentemente con uno Stato che non seppe -per alcuni addirittura non volle- difendere davvero suo padre, proteggendolo con un’auto blindata di ben scarsa qualità e con una scorta che -pace all’anima di chi ci rimise la vita- usava viaggiare con i mitra nel bagagliaio, anziché fra le mani. 

Sempre nella ricorrenza dei 45 anni dalla più grande tragedia politica della Repubblica i giornali del gruppo Riffeser Monti –Il Giorno, il Resto del Carlino e la Nazione- hanno pubblicato come uno scoop il testo di un articolo polemico con gli Stati Uniti scritto da Moro per Il Giorno allora di proprietà dell’Eni, e diretto da Gaetano Afeltra, durante le trattative per la formazione del quarto governo Andreotti. Nel quale il Dipartimento di Stato americano aveva espresso il timore, diciamo così, che potessero entrare i comunisti, o nei rapporti col quale il Pci allora guidato da Enrico Berlinguer potesse acquistare più peso. 

L’articolo di Moro, in cui si sospettava  sostanzialmente che fra i destinatari delle pressioni americane ci fosse l’Unione Sovietica, come per sollecitarne l’intervento sul Pci per non compromettere gli equilibri politici concordati per l’Europa tra i vincitori della seconda guerra mondiale, non sarebbe stato pubblicato -sempre secondo lo scoop dei giornali summenzionati- per un rifiuto di Afeltra, e forse anche dell’editore. 

Da questo scoop ha voluto cogliere l’occasione Achille Occhetto per sostenere, in una intervista del 17 marzo a quei giornali titolata in prima pagina “Moro ostacolato da Usa e Urss”, che se quell’articolo -il cui originale era fra i documenti sequestrati con lo stesso Moro dai brigatisi rossi- fosse stato diffuso prima del rapimento la linea della famosa “fermezza” del Pci contro i terroristi avrebbe potuto cambiare. Dal rifiuto di ogni forma di trattativa, e di riconoscimento delle brigate rosse, il Pci avrebbe potuto passare alla ricerca di ogni mezzo possibile per salvare  la vita dell’ostaggio in quanto campione della “sovranità nazionale”. Come se Moro, cinque volte presidente del Consiglio, ministro degli Esteri, segretario prima e presidente poi del maggiore partito italiano avesse avuto bisogno di quell’articolo polemico col Dipartimento di Stato americano -e nascosto da sostanziali “depistatori”, secondo Occhetto,  dell’informazione e del potere- per essere considerato un uomo fedele alla Costituzione e difensore quindi dell’indipendenza nazionale. Roba semplicemente da matti, con tutto il rispetto per un vecchio e provato militante della sinistra italiana come Occhetto. Che purtroppo è caduto semplicemente in un infortunio, a sua insaputa, perché non è per niente vero che quell’articolo – “la scatola nera del caso Moro” l’ha definita Marcello Veneziani sulla Verità- fu rifiutato. Figuriamoci il mio compianto amico Afeltra, che semplicemente lo venerava, nei panni di censore verso il suo più illustre e autorevole collaboratore.

Quell’articolo non fu pubblicato semplicemente per decisione dello stesso Moro. Che vi “rinunciò più che altro per evitare di aprire una polemica personale con gli Stati Uniti”, è scritto a pagina 136 in un libro documentatissimo di Andrea Ambrogetti su “Aldo Moro e gli americani”, pubblicato nel 2016 per le edizioni Studium di Roma e ristampato nel 2018.  

In una nota a margine di quel passaggio sulla mancata pubblicazione dell’articolo da cui Occhetto si è mostrato così sorpreso, si indica la fonte del testo “completo” ma parzialmente riportato e commentato dall’autore del libro.  Si tratta di un altro libro -pagina 144- pubblicato nel 1999 dagli Editori Riuniti a firma dello stesso Moro, contenendo  scritti e discorsi del compianto presidente della Dc, titolato “La democrazia incompiuta”.

Povero Moro. Quanti torti, o abusi, come preferite, deve ancora subire a 45 anni dalla sua tragica fine, bloccato dall’assalto brigatista anche nella sua seconda scalata al Quirinale, dopo quella fallita nel 1971 per l’opposizione congiunta dei dorotei e fanfaniani nella Dc e dei repubblicani di Ugo La Malfa all’esterno. Anche questo, per favore, va ricordato di Moro, mancato successore di Giuseppe Saragat prima e di Giovanni Leone poi. 

Pubblicato sul Dubbio

La contesa letteraria, ma non solo, di Giorgia Meloni con Corrado Augias

Più che lo scandalo, l’incidente, o come altro volete chiamarlo, di Lucia Annunziata che prende praticamente a parolacce davanti alle telecamere di Stato la ministra della famiglia Eugenia Roccella sollecitandola, con tutto il governo, a fare “finalmente questa legge del cazzo” chiesta dalle coppie omosessuali a tutela dei figli procuratisi con la pratica dell’utero in affitto, in un mercato ancora proibito in Italia; più che questo scandalo o incidente, ripeto, mi interessa oggi la polemica che Giorgia Meloni ha voluto avere con Corrado Augias, su Repubblica. 

Senza distrarsi più di tanto con la festa del papà, lasciandosi ritrarre davanti ad una foto che  la riprende col compagno e con la figlia Ginevra, la premier ha contestato con tempestività il “nazionalista” dato dal collaboratore di Repubblica al filosofo francese dell’Ottocento Ernest Renan. Dal quale tuttavia Augias aveva invitato la Meloni a “mettere giù le mani”, avendone lei citato con compiaciuta condivisione la definizione di Nazione. Che -scrisse Renan- “è una grande solidarietà, un plebiscito che si rinnova ogni giorno e si fonda sulla dimensione dei sacrifici compiuti e di quelli che siamo disposti a compiere insieme”. 

Nella replica alla lettera di contestazione  mandata dalla premier a Repubblica Augias, da galantuomo com’è, ha riconosciuto di essersi fatto prendere la mano, per cosiddetta “concisione”, definendo Renan “alfiere del nazionalismo”: meno, certamente, di Wikipedia. Che per i naviganti internettiani  colti in flagranza dalla Meloni ha preso il posto della Treccani ed ha  condannato il filosofo francese come “teorico della razza ariana”, un precursore insomma di Hitler. Un curioso razzista questo Renan letto e apprezzato, fra gli altri, come ha ricordato la Meloni, da uomini come Antonio Gramsci, Giovanni Spadolini e Francois Mitterrand, “non esattamente personalità di estrema destra”, ha osservato la premier italiana. 

Non credo proprio che la Meloni abbia voluto solo fare sfoggio di cultura cogliendo in fallo Corrado Augias, e sorprendendo ancora una volta quanti cercano di liquidare il suo passaggio a Palazzo Chigi come un incidente,  il capriccio di un elettorato andato via di testa e un pericolo per la democrazia da troppi sottovalutato. No. Giorgia Meloni ha voluto compiere un altro passo, diciamo pure un passetto, nella gradualità della sua marcia non su Roma, come quella di Mussolini di più di un secolo fa riavvertita dagli avversari, ma verso la modernizzazione della destra: quella mancata alla sinistra lapidando Bettino Craxi anche da morto e scambiando Matteo Renzi, per la riforma costituzionale del 2016, per un attentatore alla Costituzione repubblicana “più bella del mondo”, come diceva a nome della sua “ditta” politica quel simpaticone, nonostante tutto, di Pier Luigi Bersani. Che con Massimo D’Alema ed altri, fra i quali addirittura Silvio Berlusconi, contribuirono alla bocciatura referendaria del progetto renziano. O renzista.

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I bambini da cui si debbono guardare -pensate un pò- Putin e la Meloni

I bambini ucraini sequestrati, credo senza distinzioni tra figli di coppie etero o omosessuali, sono costati un mandato di cattura internazionale a Putin. Che se ne sbatte  ma potrebbe subire dall’iniziativa della Corte Internazionale dell’Aja più danni ancora che dalla resistenza armata degli ucraini, spalleggiati dall’Occidente, alla sua politica aggressiva e tardo-imperialistica, sulle orme di Pietro il Grande più ancora che di Stalin, successori e attigui, compreso Hitler.

Altri bambini, figli di copie omosessuali che se li sono in genere procurati con uteri in affitto, in un mercato consentito all’estero, guardano invece più che a tutti noi, come vorrebbe un titolo del manifesto sovrapposto alla piazza “arcobaleno” di Milano sedotta dalla nuova segretaria del Pd Elly Schlein e, a sorpresa, da Francesca Pascale, l’ex fidanzata di Silvio Berlusconi; altri bambini, dicevo, figli di coppie omosessuali guardano impauriti nell’immaginario di certa sinistra elitaria a Giorgia Meloni. Che una vignetta sulla prima pagina della Stampa ha proposto nella versione di una premier di destra disposta al riconoscimento solo dei “figli della lupa”. Ah, che cosa non si riesce a pensare, immaginare, dire, scrivere e disegnare avvolti nella nuvola della politica. 

Più che Maurizio Landini, il segretario generale della Cgil che dopo averla invitata e scortata al congresso del suo sindacato, proteggendola da chi aveva deciso di trattarla come ospite “sgradita”, ha festeggiato la propria conferma al vertice dell’organizzazione proponendosi uno sciopero generale contro la riforma fiscale che si è proposta il governo; più che Maurizio Landini, dicevo, più che gli scafisti decisi a sfuggire alla sua caccia in tutto il “globo terracqueo”, più che i due Mattei, Piantedosi e Salvini, all’opera non sempre felice al Ministero dell’Interno e a quello delle Infrastrutture, più di quell’anguilla politica che è Giuseppe Conte, per niente intenzionato a mettersi ai suoi ordini oggi all’opposizione e domani., chissà, al governo, la premier italiana di destra deve quindi guardarsi dalle coppie omosessuali tentati dalla voglia di scambiarla per un’emula di Putin con i loro bambini. 

Personalmente- perché non ci siano ambiguità o equivoci- sono favorevole alla causa della coppia. chiamiamola così, Schlein-Pascale. Non mi strapperei le vesti e i capelli se in Parlamento si riuscisse a trovare una maggioranza in grado di liberare il sindaco di Milano Giuseppe Sala, per esempio, dai lacci e lacciuoli che gli impediscono di trascrivere all’anagrafe, non importa in quale modo., i figli che le coppie omosessuali sono riuscite a procurarsi e che sicuramente amano come ogni altro genitore. Ma mi permetto di chiedere alla nuova segretaria del Pd e amici o simpatizzanti vecchi e novi, temo tutti residenti in zone a traffico limitato, se questa sia davvero la priorità assoluta dell’Italia: una priorità capace di accendere il fuoco anche di rivolte sociali.

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Se occorre coraggio invitare la premier al congresso della Cgil e accorrervi

Nel giorno peraltro di un evento internazionale come il mandato di cattura emesso dalla Corte Internazionale dell’Aja contro Putin,  quanto meno ladro di bambini nella sua guerra all’Ucraina, a casa nostra si sono un pò tutti interrogati, fra giornali e salotti televisivi, chi abbia avuto più coraggio fra il segretario della Cgil  Maurizio Landini e la presidente del Consiglio Giorgia Meloni: l’uno invitandola al congresso del suo sindacato, aperto da lui stesso con una relazione dura contro il governo, e l’altra accettando di andarvi interrompendo un’assenza quasi trentennale di premier, di centrodestra e di centrosinistra, da incontri di questo genere. 

Di coraggio, in effetti, ne hanno avuto l’uno e l’altra. Il primo ha sfidato una dissidenza interna per fortuna contenuta nelle proteste, nelle uscite dalla sala, in qualche fischio e nel solito canto partigiano di Bella ciao, metaforicamente ricambiato dalla Meloni in una felice vignetta di Stefano Rolli sul Secolo XIX. L’altra, al di fuori di quella vignetta, ha realmente sfidato i contestatori esponendo la linea del governo sui temi del lavoro, e altro, con una nettezza riconosciuta da tutti, anche dalle testate giornalistiche più ostili alla premier più a destra di tutti quelli che l’hanno preceduta alla guida di un governo nella Repubblica, anche più del democristiano Fernando Tambroni nel lontano 1960 appoggiato dai missini. “Reazionaria, come sempre, ma coraggiosa”, ha titolato il Riformista di Piero Sansonetti, che sta per riportare nelle edicole la “sua” Unità, condiretta quando era l’organo ufficiale del Pci e delle edizioni successive. 

“Meloni al congresso Cgil tira dritto”, le ha riconosciuto Repubblica. Addirittura “Meloni doma la Cgil, tana dei comunisti”, ha titolato il Giornale ormai in transito dalla piena proprietà della famiglia Berlusconi al controllo degli Angelucci, già editori di Libero e interessati anche all’acquisto della Verità fondata e diretta da Maurizio Belpietro. 

Ma più che interrogarsi su chi dei due -Landini e Meloni, in ordine alfabetico- abbia avuto più coraggio, invitando e accettando l’incontro, sarebbe forse il caso di chiedersi che razza di Paese sia diventato il nostro, o che razza di democrazia si sia riusciti a realizzare in Italia 75 anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, se occorre del coraggio, appunto, per promuovere e realizzare eventi del genere. Sarebbe il caso, ripeto, di chiedersi questo e di condividere con Bertold Brecht nella vita di Galileo le famosissime parole  “Beato un popolo che non ha bisogno di eroi”.

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L’indimenticabile giornata nera del Pd dell’esordiente Schlein alla Camera

Per quanto coperto da ciò che rimane -“il carico residuale”, direbbe il prefetto e ministro dell’Interno Matteo Piantedosi- dell’articolo 68 della Costituzione, secondo il quale “i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”, il 31 gennaio scorso non si sapeva di quante cose avrebbe dovuto rispondere il giovane deputato della destra Giovanni Donzelli. Che, già colpevole di suo agli occhi degli avversari di essere collega di fiducia e di partito di Giorgia Meloni, rimasto fuori dal governo perché potesse occuparsi a tempo pieno dell’organizzazione dell’ormai prima forza politica d’Italia, aveva osato rivelare veri o presunti segreti d’ufficio, o d’altro tipo, e offendere l’onore del Pd criticandone vivacemente una visita in delegazione compiuta in carcere al detenuto anarchico Alfredo Cospito. Di cui persiste tuttora lo sciopero della fame contro l’assegnazione al carcere duro istituito con l’ormai famoso articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, riservato ai detenuti più pericolosi, o temuti, di mafia e poi anche altro, per i loro collegamenti con l’esterno. 

Il fatto, appreso dal collega di partito, coinquilino e sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, che la delegazione del Pd andata a visitare Cospito avesse ritenuto di contattare anche detenuti d’altro tipo segnalati dallo stesso Cospito e interessati al successo della sua causa, aveva indotto Donzelli a interrogarsi e interrogare i colleghi parlamentari sulla posizione del partito del Nazareno di fronte alla tematica sollevata dalla protesta dell’anarchico. Lo avrei fatto modestamente anch’io nel mio campo, se informato di quelle circostanze, chiedendo al direttore di questo giornale di scriverne, anche a costo di ripetere una brutta esperienza giudiziaria, in materia di presunta violazione di segreto di Stato, già raccontata ai nostri lettori e vissuta fra il 1983 e il 1985, chiusa per intervento del governo Craxi col proscioglimento perché “il fatto non sussiste”.

Le reazioni del Pd a Donzelli, a cominciare dalla capogruppo Debora Serracchiani e dagli altri componenti della delegazione, fra i quali l’ex guardasigilli Andrea Orlando, per finire con l’allora segretario del partito Enrico Letta, furono di una forza politica e verbale tale che persino la Meloni s’impressionò chiedendo all’amico per telefono “che cazzo” -letteralmente- avesse combinato. Per loro fortuna il Pd commise anche l’autorete di chiedere un’indagine interna col ricorso al giurì d’onore, formato sotto la presidenza dall’ex ministro grillino e generale dei Carabinieri Sergio Costa, rigorosamente dell’opposizione. 

Ebbene, questa commissione di onorevoli giurati, grazie al fatto di non essere magistrati ordinari, con ciò che l’esperienza ci ha insegnato a ritenere che cosa sia l’ordine di tempo e di modo nei tribunali, ha concluso in meno di 40 giorni il suo lavoro assolvendo l’imputato, diciamo così. Che è stato sentito al pari di tutti gli  altri interessati alla diatriba. 

Donzelli secondo il verdetto dei giurati poteva avere sbagliato, anzi aveva sbagliato di sicuro nei toni, troppo “aspri”, ma non aveva voluto disonorare i pur offesissimi esponenti del Pd esprimendo le sue opinioni e dubbi. In più, con l’aria di volere ribadire l’ovvio, il giurì d’onore ha ricordato che le legittime visite di parlamentari, singoli o in delegazione, ai detenuti non vanno confuse per condivisioni di loro eventuali lotte, proteste e simili. Se qualcuno quindi di quella delegazione del Pd -sembra il sottinteso del verdetto- aveva pensato di  visitare Cospito per condividerne richieste e proteste, semplicemente aveva sbagliato. O si era esposto a legittime critiche.

In una stessa giornata, quella del 15 marzo, il Pd -sia quello della passata gestione Letta sia quello della gestione Schlein fresca d’avvio- ha subìto alla Camera due colpi a firma, diciamo, grillina. Questo della conclusione della vicenda Donzelli è solo il secondo, considerando l’appartenenza politica di Sergio Costa. Il primo è quello segnalato qui, sul Dubbio, dal buon Giacomo Puletti riferendo dell’intervento “appassionato” della nuova segretaria del Pd contro il governo, accusato di “incapacità, approssimazione e insensibilità”. Il discorso ha raccolto l’applauso del solo gruppo del Pd e della sostanziale appendice dei verdi e sinistra.”Dai banchi del Movimento 5 Stelle e terzo polo nessuno si alza, gli applausi si contano sulle dita di una mano”, ha raccontato Puletti. Così anche Maria Teresa Meli sul Corriere della Sera   e altri sui loro giornali. Eppure la povera Schlein aveva scelto come tema del primo scontro diretto con la Meloni alla Camera, nella cornice del cosiddetto “question time”, un tema carissimo ai grillini come il salario minimo. 

E’ dura evidentemente per il movimento guidato dall’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte l’idea di mettere nel conto la sola possibilità che la Schlein guidi l’opposizione dal vertice di un partito non più sorpassato nei sondaggi dai grillini, peraltro in una fase pentastellare  ridimensionata dallo stesso fondatore con gli spettacoli della serie “Io sono il peggiore”, con tanto di magliette bianche con scritta nera o nere con scritta bianca vendute al pubblico. Più che un alleato oggi all’opposizione e domani -chissà- di nuovo al governo, come fra il 2019 e il 2022, il Pd della Schlein è avvertito da Conte come “un concorrente”, o addirittura “un usurpatore”, ha scritto con realismo sulla Stampa Annalisa Cuzzocrea, smentendo impressioni e speranze altrui. 

Pubblicato sul Dubbio

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