Casini inciampa sul fantasma di Scalfaro nel cantiere della riforma costituzionale

Anche a costo di esporsi al sospetto di aspirare a qualche ruolo nel cantiere delle riforme allestito da Giorgia Meloni e non alluvionato, o non ancora, l’ex presidente della Camera Pier Ferdinando Casini, ospite ormai fisso del Pd per l’elezione al Senato dopo la sofferta partecipazione al centrodestra nel passaggio fra la prima e la seconda Repubblica, ha recentemente dato consigli alla prudenza per non mancare anche questa occasione di modificare finalmente la Costituzione. Ma di aggiornarla con giudizio, senza ricadere nella opinione giovanile di molti colleghi del suo passato politico che l’elezione diretta del presidente della Repubblica sia utile dopo tanti presidenti eletti dal Parlamento. Fra i quali peraltro mancò poco che ci fosse anche lui  quando Sergio Mattarella sembrò davvero irremovibile contro la propria conferma. 

      Peccato però che Casini si sia clamorosamente contraddetto in una versione sostanzialmente minimalista dei cambiamenti opportuni addossando proprio ad un predecessore di Mattarella, nell’esercizio delle sue funzioni presidenziali, la responsabilità della mancata approvazione della riforma costituzionale meglio preparata fra tutte. Essa fu, secondo lui, quella ponderatamente studiata dalla commissione bicamerale presieduta fra il 1992 e il 1993 prima dall’ex segretario della Dc Ciriaco De  Mita e poi dall’ex presidente comunista della Camera Nilde Jotti. Una commissione che, pur in una legislatura arroventata dalle esplosioni quotidiane di Tangentopoli e dal ruolo debordante del potere o ordine giudiziario, aveva saputo trovare o indicare un argine alla prospettiva della decapitazione della politica. 

Non a caso da quell’avamposto populista, quasi rivoluzionario, che era diventata la Procura della Repubblica di Milano si levarono messaggi e diffide contro quella commissione, sospettata addirittura di “ricatto” da uno di quei magistrati che sarebbe poi diventato tra i più moderati e un pò anche autocritici: Gherardo Colombo.

“Quel progetto -ha raccontato fedelmente Casini- conteneva un’ampia riforma del rapporto Stato-Regioni e la definizione di una forma di governo neoparlamentare, che contemplava l’investitura diretta, da parte del Parlamento, del primo ministro, attribuiva a quest’ultimo l’esclusiva responsabilità sulla nomina e la revoca dei ministri e introduceva l’istituto della cosiddetta sfiducia costruttiva”. Tutte cose di cui ancora si discute adesso in alternativa ad una riforma radicalmente presidenzialista caratterizzata dall’elezione diretta del capo dello Stato.

            Ebbene -ha ricordato Casini  praticamente inciampando il 13 maggio scorso in un lungo articolo sul Quotidiano Nazionale, dove confluiscono Il Giorno, La Nazione e il Resto del Carlino- quella riforma così potenzialmente risolutiva fu impedita dallo scioglimento anticipato delle Camere elette nel 1992. Cui si approdò quando il governo di Carlo Azeglio Ciampi, seguito nel 1993 a quello di Giuliano Amato, si dimise pur disponendo ancora di una maggioranza per continuare, anche dopo l’approvazione della nuova legge elettorale imposta dal referendum del 1993 antiproporzionalista. Una nuova legge elettorale grazie alla quale il Pds-ex Pci guidato da Achille Occhetto pensava di potere vincere a mani basse un immediato rinnovo delle Camere. Inutilmente l’allora capogruppo democristiano di Montecitorio, Gerardo Bianco, chiese udienza al Quirinale per scongiurare sia la rinuncia di Ciampi sia  lo scioglimento delle Camere.

Chi al Quirinale, eletto dal Parlamento,   si intromise nella lotta politica assecondan il disegno di Occhetto e della sua “giocosa macchina da guerra”, non trattenendo ma incoraggiando Ciampi sulla strada delle dimissioni, se non ordinandogliela, insofferente ormai delle Camere praticamente assediate dalle Procure? Fu il presidente democristiano Oscar Luigi Scalfaro, il primo poi sorpreso della vittoria elettorale di Silvio Berlusconi e del suo improvvisato centrodestra. E infine prodigo di apprezzamenti e incoraggiamenti rivelati da Umberto Bossi nell’operazione di sganciamento della Lega dal  primo governo del Cavaliere. Uno Scalfaro -debbo dire- di cui ricordo bene ciò che una volta dichiarò proprio Casini a proposito dei continui screzi fra  lo stesso Scalfaro e Berlusconi, o viceversa: “non riuscirete mai -avvertì- a farmi pronunciare un giudizio contro il capo dello Stato”. 

Scalfaro d’altronde era stato collega di partito di Casini. E ancora lo era nella forma non già di un partito ma di un più generale, ideologico e caratteriale democristianesimo, chiamiamolo così. Cui è ascrivibile -senza offesa, per carità- anche l’ottimo Sergio Mattarella. Ma mi chiedo se questo filone potrà ancora generare altri presidenti del livello attuale. E se è più opportuno scommettervi o predisporre qualcosa di nuovo davvero nell’organizzazione dello Stato: altro che “il ferro vecchio del presidenzialismo” di cui hanno discorso ieri sulla Stampa Gustavo Zagrebelsky e Luciano Canfora.

Pubblicato sul Dubbio

La lotta continua del giornale Domani a Giorgia Meloni: dall’alluvione ai bambini per commissione

Vi è qualcosa di peggio del peggio quando madre Natura, con o senza la complicità degli uomini che ne abusano, si scatena e fa dire anche a un non credente, ora persino messianico, Achille Occhetto che “Il Signore ha mandato il diluvio” per punizione. 

Peggiore di una sciagura, come sicuramente è quella in corso in Emilia-Romagna, è l’uso che riesce a farne certa politica o certo giornalismo che se ne alimenta o, peggio ancora, la nutre. Chiamiamolo pure giornalismo politico. 

Faccio l’esempio di Domani, il quotidiano radical-elitario fondato da Carlo De Benedetti dopo avere visto trasformare dai figli e poi vendere La Repubblica, quella di carta, che egli aveva acquistato dalla buonanima del fondatore Eugenio  Scalfari.

Venerdì 19 maggio il giornale dell’ingegnere interrompe del tutto casualmente, per carità, la campagna avviata contro la premier e la sua famiglia allargata per lamentare su tutta la prima pagina “vittime e fango in Emilia Romagna ma Meloni non riunisce il governo”, né lo convoca dal Giappone, dov’è in missione non di piacere ma di Stato per il G7. Potrebbe lasciarlo presiedere a Palazzo Chigi da uno dei suoi due vice, o da un altro ancora, in caso di impedimento di entrambi. Come se il governo per il fatto stesso di riunirsi avesse potuto fermare acqua e fango. 

Sabato 20 maggio, perdurando il G7 ma anche il maltempo un pò dappertutto in Italia,  sull’Emilia Romagna in modo straordinario, Domani oppone, sempre su tutta la prima pagina, alla “emergenza infinita” la Meloni che “non torna dal Giappone”. E addirittura continua a prevedere nel programma di rientro “una tappa in Kazakistan”. Davvero sfacciata, insolente, disumana questa premier pur così solerte in Giappone a mostrare sul suo telefonino le immagini della propria terra devastata raccogliendo la comprensione, la solidarietà e la disponibilità ad ogni possibile aiuto dagli altri “Grandi”, con la maiuscola.

Domenica 21 maggio il giornale dell’ingegnere registra e riferisce, sempre su tutta la prima pagina, e con la puntualità degli orologi che si fabbricano nel Paese dove risiede e paga le tasse il suo editore, la Svizzera, che “Meloni si è accorta dell’alluvione e torna (finalmente) in Italia”. Ma -si affretta a spiegare in quello che tecnicamente si chiama sommario del titolo- “in realtà ha anticipato il rientro di qualche ora”, non di più, saltando la tappa del Kazakistan, evitando di passare per Roma e atterrando direttamente a Forlì, anzi “atterrita”, come da vignetta della Gazzetta del Mezzogiorno.

Oggi, lunedì 22 maggio, Domani salva (finalmente) la faccia riferendo on line della Meloni fra gli alluvionati che “evita la passerella”, pur contestatale da alcuni dimostranti, “e promette risposte immediate”. Le viene perdonata persino la camicia di un verde leghista. Ma nella versione cartacea il giornale dell’ingegnere apre contro la Meloni un’altra offensiva, incolpandola di essere “contro i bambini” perché non ne vuole la gestazione per altri. 

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I 45 giorni che hanno cambiato il mondo di Silvio Berlusconi

Berlusconi commosso dai sostenitori”, titola Il Giornale riferendo del suo primo giorno di nuovo a casa, dopo i 45 trascorsi nell’ospedale San Raffaele, e della voglia comprensibile di tornare alla normalità. Comprensibile, ripeto, ma destinata  a fare i conti con ciò che è cambiato nel frattempo nella politica alla quale di recente un commosso -anche lui- Claudio Martelli, ospite di un salotto televisivo di Mediaset, ha scoperto quanto si sia appassionato: lui che  pure una trentina d’anni fa la considerava un fastidioso e sotto certi aspetti anche tragico “teatrino” da chiudere. E da sostituire con un teatro, anzi un teatrone, una specie di auditorium “del fare”, in cui sostituire alle parole i fatti, alle chiacchiere le realizzazioni, ai comunisti che avevano solo cambiato i simboli e i nomi del loro partito gli anticomunisti, ai falsi o elitari liberali i veri liberali, sorprendentemente “di massa”, come li definivano, immaginavano e quant’altro i professori Antonio Martino e Giuliano Urbani.

Tanto è cambiato non solo nella politica interna, con una premier alleata ma sempre più sicura di sé, tanto da avere già imposto un cambiamento di rotta a Forza Italia, non del tutto eseguito, per non disturbare la guida del governo, ma anche o soprattutto nella politica internazionale. Di cui Berlusconi ha continuato a sentirsi non dico protagonista ma quanto meno attore anche dopo che, dismessi i panni e il ruolo del presidente del Consiglio, non ha potuto più partecipare ai summit internazionali. Che spesso   egli agitava  più del dovuto o del desiderato da parte di altri. Persino la compianta Regina Elisabetta d’Inghilterra s’infastidì del suo entusiasmo mentre chiamava il presidente americano Obama in un salone di Backingham Palace. Non parliamo poi dell’allora cancelliera tedesca Angela Merkel stanca di aspettare su un prato ch’egli smettesse di parlare al telefono col lontano Erdogan, sia pure per convincerlo a dire o a fare una cosa che alla stessa Merkel in fondo premeva in quel momento. 

Prima di quei 45 giorni trascorsi in ospedale Berlusconi non si lasciava scappare occasione, pubblica o privata che fosse, per dolersi di “quel signore”, come lui chiamava il presidente ucraino Valdymir Zelensky, troppo ascoltato, protetto, inseguito e preferito al suo vecchio amico Putin. Che, per quanto avesse potuto esagerare  e farsi prendere la mano da qualche imprudente consigliere, in fondo voleva chiudere la partita ucraina in pochi  giorni e senza tante vittime, forse senza neppure uccidere Zelensky e qualcuno dei suoi ministri troppo “nazificati”, come si diceva a Mosca, bastandogli sostituirli con un pò di “persone perbene”. Ora Zelensky di qua e di là, vola dalla terrazza romana del Vittoriano al G7 in Giappone. Dove è stato “incoronato”, ha titolato il manifesto, ed è passato dalle braccia di Biden a quelle della Meloni. Che probabilmente lo ha già invitato al prossimo G7 che le toccherà organizzare in Italia l’anno prossimo, in Puglia.

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Silvio Berlusconi è tornato a casa, attrezzata come una mezza clinica

Silvio Berlusconi è dunque tornato a casa, nella sua villa di Arcore nel frattempo attrezzata come una mezza clinica per tenerlo in sicurezza, come nell’ospedale milanese dove è rimasto ricoverato per 45 giorni, alcuni dei quali in terapia intensiva. E, appena tornato, come nelle sue abitudini si è messo a diffondere compiacimento e ottimismo. “Dopo il buio ho vinto ancora”, ha annunciato. Al Tempo di Roma, quello degli Angelucci che hanno appena comperato anche Il Giornale acquistato in anni ormai lontani dal Cavaliere giusto per avere la soddisfazione, l’orgoglio e anche l’ansia di essere l’editore di un mostro sacro e imprevedibile come Indro Montanelli, gli hanno addirittura fatto promettere in una specie d vignetta fotografica in prima pagina di riportare “il sole” ovunque. Anche nell’Emilia-Romagna sommersa dall’acqua, che continua a cadere, e dal fango. Magari, gliene sarebbero grati davvero da quelle parti, non tanto da sommergerne poi il partito di voti alla prima occasione ma sicuramente per contribuire a quella mezza beatificazione in vita che l’ex presidente del Consiglio si è procurato nell’ultimo ricovero al San Raffaele, facendo dichiaratamente commuovere anche vecchi avversari e critici. 

Solo Il Fatto Quotidiano, il solito giornale di Marco Travaglio, ha cercato di guastare al Cavaliere la festa del ritorno a casa con quel titolo, nascosto però all’interno in un sussulto di generosità del direttore, in cui a “Silvio dimesso dall’ospedale”  si accompagnano i “forzisti in lotta tra correnti”. Le quali certamente esistono nel partito della monarchia pur assoluta e irripetibile del Cavaliere, ma francamente non ne sono l’esclusiva, visti la confusione, i litigi, le risse e simili che si vedono e si sentono nelle altre formazioni politiche. E ciò a cominciare naturalmente dall’aspirante terzo polo di Carlo Calenda e Matteo Renzi, che avrebbe dovuto essere la più lunga spina nel fianco sia del Partito Democratico sia e forse ancor di più di Forza Italia.

Il primo, anzi la prima, che ha voluto rallegrarsi pubblicamente del ritorno di Berlusconi a casa è stata dal lontanissimo Giappone Giorgia Meloni, partecipe del G7 fra uomini che la sovrastano fisicamente in quelle immagini impietose dei summit internazionali ma cominciano ad abituarsi a considerare una “grande” anche lei, Che è ben salda alla guida di un governo destinato a durare per tutta la lunghezza ordinaria della legislatura. In passato ciò è toccato a pochi presidenti del Consiglio, fra i quali Aldo Moro e proprio Berlusconi nella cosiddetta seconda Repubblica. 

All’inizio proprio di questa legislatura il Cavaliere apparve insofferente per lo spazio saputosi conquistare nel suo centrodestra dalla Meloni, sino a rovesciarne il nome in destra-centro. Ma poi, notoriamente concavo e convesso, si è abituato pure lui ai nuovi equilibri, pur vantandosi di rimanere “la spina dorsale” della coalizione, come dice ogni volta che registra un videomessaggio.

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La famiglia allargata di Giorgia Meloni tra il fango e l’ironia politica

Fra tutti i giornali italiani, quello più imbarazzato di fronte a Gorgia Meloni e al suo governo è Il Foglio fondato a suo tempo da Giuliano Ferrara e ancora da lui ispirato, pur diretto da Claudio Cerasa.

Parlo del giornale più imbarazzato, non imbarazzante perché questo titolo spetta, in ordine  non solo alfabetico, a Domani e a Repubblica, il nuovo e l’ex quotidiano di Carlo De Benedetti: il primo avendo cominciato, e il secondo inseguendolo, una minuziosa esplorazione della famiglia della premier, fra tutte le pieghe e le piaghe, vere o presunte, dei suoi vari rami originari o derivati. Non è ancora uscito nulla di tanto rilevante o sospetto da avere incuriosito qualche Procura, ma su questo terreno le speranze degli interessati alla rottamazione di turno -si sa- sono sempre le ultime a morire.

Dicevo del Foglio fondato e ancora ispirato da Giuliano Ferrara, dichiarato elettore -almeno l’anno scorso, in occasione del rinnovo delle Camere- del Pd di Enrico Letta successivamente passato di mano, e di genere, a Elly Schlein. 

Anche a costo di allarmare l’amico e in qualche modo anche collaboratore di gala Carlo Rossella, recentemente compiaciuto della “Ducia” data ogni tanto alla Meloni da un Ferrara  insoddisfatto delle versioni sempre più a destra dell’originario centrodestra improvvisato da Silvio Berlusconi nel 1994, Giuliano ha fatto il suo “strappo” lunedì scorso, 15 maggio. “Il miracolo di questa Roma gialloazzurra”, ha titolato in prima pagina un commento alla visita appena compiuta sulle due rive del Tevere dal presidente ucraino Vladymir Zelenscky. E subito sotto, spiegando bene la sua pur disincantata soddisfazione : “La capitale dell’ambiguità trasformata nella capitale della controffensiva politica, militare e diplomatica degli ucraini. Complimenti a Meloni, e al bisogno di legittimazione che ci ha dato una destra euroatlantica”. Aggettivo, quest’ultimo, molto caro al fondatore del Foglio, che imparò da bambino col fratello Giorgio, che purtroppo è appena scomparso, a diffidare di Mosca crescendovi con la famiglia mandata lì dal Pci con la nomina del papà Maurizio Ferrara a corrispondente dell’Unità, prima di farne il direttore e di promuoverlo ad una carriera più interamente politica di amministratore locale e poi di parlamentare. La gradualità in quel partito era una regola assai difficilmente aggirabile. Solo ad Enrico Berlinguer sarebbe stato consentito di nascere -diceva  scherzando Emanuele Macaluso- membro della direzione nazionale del Pci.

Il “miracolo” della Meloni contemplato e descritto il 15 maggio è stato compensato tre giorni dopo, sempre in prima pagina, da una partecipazione ironica alla campagna di Domani e Repubblica sulla famiglia dei “Meloni serpenti”, protagonista di “una straordinaria commedia all’italiana, anzi italo-spagnola”, fatta di “intrighi”, di un “moroso della mamma che diventa moroso della figlia”, e via sbertucciando nella prospettiva di un film alla Virzì del 1996 titolato “Ferie d’agosto”.

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Due sindaci sprecati: Sgarbi sogna il Quirinale e Mastella la foresta per fare il leone

E io, povero ingenuo, sprovveduto al pari di altri che mi sono venuti dietro di recente a sospettare, immaginare e quant’altro Vittorio Sgarbi tentato, quanto meno, dalla successione all’amico e mentore Silvio Berlusconi alla guida di Forza Italia, il più tardi possibile naturalmente. E ciò spiazzando tutti, fuori e dentro il partito fondato dal Cavaliere una trentina d’anni fa anche per consentire al già famoso critico d’arte di tornare in Parlamento pur senza la presenza del Partito Liberale che ve lo aveva portato per la prima volta. 

Ma che Forza Italia e Forza Italia, come per il Psi ad un certo punto aveva pensato Bettino Craxi immaginando di affidarne la sorte a Giuliano Ferrara, dissuaso da Berlusconi dall’accettare per potergli fare da ministro per i rapporti col Parlamento nel suo primo e davvero imprevisto governo, nel 1994. Vittorio Sgarbi -appena eletto sindaco di Arpino, nel Frusinate, in continuità ideale con la memoria di Cicerone, il figlio più illustre di quella terra- sogna a suo modo il Quirinale per elezione diretta dei cittadini: gli unici, in effetti, a poterlo mandare lì, potendosi o dovendosi escludere che nel Palazzo, con l’elezione indiretta, potranno mai fidarsi di lui tanto da mandarlo sul colle più alto di Roma.  Sì, d’accordo, con questo metodo di elezione voluto dai Costituenti i signori, padroni e quant’altro della Politica, al maiuscolo che meritava un tempo, riuscirono a mandarvi, uno dopo l’altro fra il 1978 e il 1985, due campioni della imprevedibilità e popolarità insieme come Sandro Pertini e Francesco Cossiga. Che stavano ai loro partiti -il Psi e la Dc- e alle rispettive correnti come due cerini a cinque centimetri da altrettante polveriere. Ma erano altri tempi. Di politici così coraggiosi, o pazzi, secondo le preferenze, si sono perdute le tracce.

“Mi sto allenando, il mio obiettivo è il Colle nel 2029”, alla scadenza -bontà sua- del secondo mandato in corso di Sergio Mattarella, ha detto lo stesso Sgarbi, scherzando ma chissà sino a quanto, o gli ha fatto dire Libero nel titolo, fra virgolette, intervistandolo dopo l’ennesimo Comune conquistato anch’esso per gioco, o quasi, dall’attuale sottosegretario alla Cultura. “Vorrei ricordare -ha aggiunto o precisato, spiegando la sua preferenza per l’elezione diretta del capo dello Stato- che “in tutti i Pesi civili c’è l’elezione diretta”, appunto. “O c’è il Re o l’elezione diretta”, come almeno negli Stati Uniti, in Francia, in Brasile. Dai, Giorgia, Meloni naturalmente, riprenditi la vecchia idea cara anche ai leghisti del presidente della Repubblica e non del presidente del Consiglio eletto direttamente. 

E l’eredità di Berlusconi a Forza Italia, sempre il più tardi possibile?, è tornato a chiedergli Libero? E lui, sempre mescolando ironia e serietà, gioco e lavoro: “Magari l’eredità materiale, i denari, quelli sì, ma l’eredità spirituale preferisco la mia alla sua”. Grandissimo Sgarbi, a parte gli altrettanto grandi insulti che dispensa al malcapitato di turno. “La mia condizione naturale – ha detto- è essere vittorioso. Il destino è segnato nei nomi”, come quello appunto di Vittorio assegnatogli dai genitori ma forse assegnatosi da sé, precoce com’è stato in tutto, anche nella parola e nella firma, per quanto in fasce. 

Sia pure di tutt’altra provenienza e cultura, senza volere offendere né l’una né l’altra, a Sgarbi fa concorrenza per fantasia, gusto della sfida, prontezza di riflessi, donchisciottismo e simili il leggermente più anziano o meno giovane -cinque anni solo di differenza- Clemente Mastella, forte anche per questo di un curriculum politico più nutrito, essendo stato non solo sottosegretario ma, diversamente da Sgarbi, pure ministro, e più volte: al Lavoro, con Berlusconi a Palazzo Chigi, e alla Giustizia con Romano Prodi.

Provocato dal Corriere della Sera perché sconfitto -sempre in questo turno di elezioni amministrative- nella sua mitica Ceppaloni avendo inutilmente sostenuto il sindaco uscente Ettore De Blasio, l’inclemente Clemente ha risposto dal suo ufficio peraltro di sindaco di Benevento: “Io una cosa non riuscirò mai a capirla: se Boschi perde nella sua città nessuno dice niente; se a Brescia perde Meloni nessuno dice niente; se invece perde Mastella a Ceppaloni”, peraltro non in prima persona, “tutti a chiedersi perché. Solo con me prevale l’elemento mediatico, eppure non risiedo manco più lì”, anche se continua a possedervi la famosa villa con l’altrettanto famosa piscina a forma di cozza, descritta con dovizia, ironica e non, di particolari dai tanti giornalisti che vi accorrevano da invitati nei tempi d’oro dall’uomo di Ciriaco De Mita emancipatosi poi da solo. 

Dopo aver tenuto a precisare che “in provincia di Benevento”, dove appunto si trova la sua Ceppaloni, “abbiamo vinto in otto Comuni su tredici”, Mastella se n’è uscito con questa davvero epica rappresentazione di se stesso e dei suoi avversari, vecchi e nuovi: “I cani giocavano sui corpi dei leoni immaginando di aver vinto. Ma i cani restano cani e i leoni sono sempre pronti a ruggire”.    Se non è Sgarbi pure lui, poco ci manca. E pensare che a me, con tutti gli scongiuri che immagino fra le mani di Mastella, l’ultima idea di leone in una foresta umana rimasta fino a ieri in testa era quella di Ahmad Massud, l’afgano famoso come “il leone del Panshir”, morto nel 2001 in un attentato propedeutico a quello di due giorni dopo alle lontanissime Torri Gemelle di New York.  

Pubblicato sul Dubbio

Renzi infilza Conte per l’Emilia Romagna travolta dall’acqua e dal fango

Pur preso dalla guerra -si fa per dire- con Carlo Calenda all’interno di quello che doveva essere il “terzo polo” della politica italiana, e senza tornare a distrarsi come gli è capitato nei giorni scorsi non facendo mettere in prima pagina sul “suo” Riformista la clamorosa tirata d’orecchie del presidente della Repubblica ai magistrati che abusano dei processi, Matteo Renzi è stato assai tempestivo a cogliere l’occasione offertagli dalla tragedia dell’Emilia Romagna, travolta dalle acque e dal fango, per infilzare Giuseppe Conte. Che, fra tutti gli uomini politici sul mercato, è quello che forse gli è più antipatico, più ancora di Calenda, pur avendolo salvato nel 2019 dall’affondamento tentato da Matteo Salvini. Poi il toscano si è rifatto, com’è noto, affondandogli lui stesso il secondo governo e creando l’occasione buona perché Mattarella mandasse a Palazzo Chigi Mario Draghi.

E’ a Conte, pur non indicandolo con nome e cognome in un inconsapevole moto di signorilità, considerandone forse le difficoltà in cui già si dibatte sotto le 5 stelle per l’esito disastroso delle elezioni amministrative di domenica scorsa; è a Conte, dicevo, che Renzi si è riferito scrivendo oggi sul Riformista, a proposito della tragedia in Emilia Romagna: “Da anni il Parlamento chiede di riaprire l’unità di missione Italia sicura che con il mio Governo avevamo costituito con Renzo Piano e che lo sciagurato governo gialloverde ha chiuso nel 2018”. Quel governo -con la minuscola opposta alla maiuscola di quello da lui guidato fra il 2014 e il 2016- era presieduto appunto da Conte. Che dovrebbe ora battersi il petto con le mani, come a messa, e chiedere perdono a Dio e agli italiani.

“Come diceva il cardinale Martini commentando la parabola del Buon Samaritano -ha infierito Renzi in un editoriale scritto e titolato fra “lacrime e leggi”- non bastano i volontari che si prendono cura delle persone in difficoltà. Serve la politica, cioè la capacità di prevenire e ridurre i rischi per le comunità cittadine”. E’ ciò che fece lui, appunto, con l’Italia sicura soppressa da Conte , ripeto, considerandola meno utile delle pochette infilate nei taschini delle sue giacche. 

Se Renzi se l’è presa con Conte, il vignettista del Fatto Quotidiano Mario Natangelo se l’è presa con Giorgia Meloni, denudata – diversamente dalla sorella Arianna qualche tempo fa, disegnata sotto le lenzuola con un negro- e messa su un gommone per rappresentare un’Italia che un pò se la sarebbe cercata e meritata votando così tanto la destra da mandarne la leader a Palazzo Chigi. Dove, considerate le condizioni sempre più critiche delle opposizioni, doverosamente al plurale, e nonostante tutto il rovistamento di certi giornali fra le immondizie vere o presunte del padre defunto, sorellastre e madre viventi, la premier sembra proprio destinata a rimanere per tutta la durata ordinaria della legislatura. E magari essere confermata anche dopo, o trasferirsi chissà dove fra i piani alti della politica. 

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Diluvia sul bagnato della (in)giustizia: dopo il monito di Mattarella le motivazioni dell’assoluzione di Berlusconi

Se nella incolpevole Emilia Romagna “diluvia sul bagnato”, come ha titolato il manifesto e tante foto documentano sui giornali, per non parlare delle immagini televisive in diretta e in differita, diluvia anche sul bagnato della (in)giustizia. Il giorno dopo il monito del presidente della Repubblica contro l’abuso dei processi, peraltro a scapito della durata ragionevole che dovrebbero avere per dettato costituzionale, è uscita la motivazione dell’assoluzione di Silvio Berlusconi a Milano per il cosiddetto “Ruby ter”, dal nome dell’allora minorenne marocchina che frequentava le sue personalissime serate. 

Nella sentenza i giudici hanno avvertito e denunciato “l’inutile dispendio di attività processuale” contro l’ex presidente del Consiglio, già assolto -lo ricordo- dall’accusa addirittura di induzione alla prostituzione minorile e ora anche da quella di corruzione in atti giudiziari. L’accusa cioè di avere pagato il silenzio e simili di testimoni peraltro interrogati come tali pur essendo imputati anch’essi, quindi senza il rispetto delle garanzie processuali cui avevano diritto. 

Come sul monito di Mattarella applaudito a Napoli dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, è caduta sulla motivazione dell’assoluzione di Berlusconi -peraltro in uno dei tanti processi disseminati in Italia pur dopo che l’ex presidente del Consiglio era stato discolpato in via definitiva dall’accusa primigenia, chiamiamola così- la distrazione o la censura dei giornaloni. Che hanno preferito guardare dall’altra parte dopo avere contribuito alla reclamizzazione delle pratiche processuali denunciate finalmente da giudici onesti e dal capo dello Stato. Solo Il Giornale, in parte ancora della famiglia Berlusconi, e Il Dubbio hanno trovato per la notizia uno spazio adeguato, col primo prevalente sul secondo nella denuncia dell’”imboscata al Cav” e del processo che “non andava neppure fatto”. 

Si è vendicato della verità il solito Fatto Quotidiano dando la sua altrettanto solita lettura dell’assoluzione, distorcendone cioè significato e portata con questo titolo posizionato -spero per un soprassalto di pudicizia- in fondo alla sua prima pagina. Per il cosiddetto Ruby ter la corruzione sarebbe stata “provata” ma Berlusconi sarebbe “salvo” solo “per un errore”, com’è stato definito quello che invece per i giudici di primo grado -e prevedo anche per quelli successivi- è stato “un ordine di garanzie violato e ripristinato” appunto con l’assoluzione. Per fortuna Il Fatto Quotidiano è e continuerà naturalmente ad essere solo un giornale, con tutto il rispetto per questa parola, e non un tribunale di prima e ultima, cioè unica istanza. Sul cui sostegno potranno contare certi magistrati che tuttavia hanno finalmente trovato col ministro della Giustizia Carlo Nordio pane per i loro denti, per non parlare del presidente della Repubblica e insieme, per dettato costituzionale,  del Consiglio Superiore della Magistratura.

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Il Mattarella frainteso o censurato nei suoi richiami alla magistratura

Visto anche che si è concluso solo il primo turno di queste elezioni amministrative di maggio, caricate forse di eccessive attese per ricavarne chissà quali letture politiche a livello nazionale, non starò a perdermi appresso ai soliti giochi e giochetti di giornali apparentemente o dichiaratamente indipendenti ma in realtà sostituitisi in gran parte a quelli che erano una volta, e con una certa loro dignità, i giornali ufficiali di partito. 

In attesa dei non pochi ballottaggi comunali fra quindici giorni, dai quali forse si potrà capire meglio e di più, astensionismo permettendo naturalmente, non starò a perdermi in particolare fra “l’onda di destra fermata” secondo Repubblica, che spera in un secondo turno migliore per l’esordio elettorale della nuova segretaria dell’amato o preferito Pd, e la più realistica, distaccata, rassegnata ammissione della Stampa, peraltro dello stesso gruppo editoriale, che “la destra avanza”. 

Preferisco perdermi piuttosto, a modo mio, fra le distrazioni, omissioni, censure -chiamatele come volete dopo avere letto di che cosa si tratta- che hanno accompagnato sui giornali -i pochi peraltro che hanno portato l’argomento in prima pagina- il discorso fatto dal presidente della Repubblica e anche del Consiglio Superiore della Magistratura, Sergio Mattarella, alla scuola di formazione delle toghe, a Napoli.

“Prevenire il malcostume” è la frase o il concetto, l’indicazione, la raccomandazione e quant’altro con cui il Corriere della Sera da Milano e Il Messaggero da Roma hanno scelto per i loro titoli, entrambi sostanzialmente contenuti nella grafica. 

“Toghe, rispettate gli altri poteri”, ha preferito invece titolare su quasi tutta la prima pagina un giornale specialistico -potreste dire- come quello degli avvocati che ha nella testata Il Dubbio, al maiuscolo, questa volta rimosso con un convinto e gridato “altolà di Mattarella” ai magistrati troppi o troppo tentati dal fare dei processi anche ciò che non sono. Cioè contestazioni alla politica e alla presunzione pur sancita dalla Costituzione che la sovranità spetti al popolo, non alle toghe. Le quali non possono legiferare più o meno sotterraneamente con le loro sentenze, non sempre smentite dalla Corte di Cassazione. 

Ma anche il manifesto, che non è il giornale degli avvocati e non si può neppure definire prevenuto verso la magistratura, ha colto nel discorso di Mattarella un richiamo tradotto così: “Toghe, rispettate la vostra funzione”. Che non è quella, ripeto, di fare le leggi, spettanti al Parlamento eletto dai cittadini, o di impedire di farle minacciando scioperi e simili, ma solo di rispettarle e applicarle. 

Di tutto questo -ahimè- non si è minimamente accorto oggi in prima pagina un giornale come Il Riformista, con la R inclinata in omaggio all’iniziale del cognome del nuovo direttore, sia pure solo editoriale, Matteo Renzi. Un infortunio, direi, per l’ex presidente del Consiglio appena prestatosi anche al giornalismo. 

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La festa alla mamma della Meloni tentata dal nuovo e dal vecchio giornale di Carlo De Benedetti

Ho avuto a suo tempo l’esperienza, tutto sommato divertente, di lavorare in un Giornale, con la maiuscola, che creava più problemi che altro ad un suo acquisito e rampantissimo editore, a lungo incapace di lamentarsi pubblicamente, o comunque con l’interessato, delle licenze che si permetteva un direttore forte solo dei propri lettori e del suo nome. Che era Indro Montanelli. Forse avrò voglia un giorno di dare qualche testimonianza precisa di quegli anni, quando e se me ne verrà in tempo l’occasione, ormai avanti nell’età come sono.

Dubito tuttavia di poter paragonare quel Giornale, sempre con la maiuscola, ad un altro con la minuscola che ha avuto peraltro l’idea curiosa di assumere come nome della testata il giorno successivo a quello in cui esce: Domani. Il cui editore è notoriamente un signore molto avanti negli anni, ancora più di me, e assai pugnace, che si chiama Carlo De Benedetti, entrato in una fase dichiaratamente e orgogliosamente “radicale” del suo impegno pubblico: tanto pugnace da avere accusato pubblicamente i figli di non aver saputo gestire e mantenere la proprietà di Repubblica obbligandolo di fatto ad allestire un altro quotidiano che ne prendesse in qualche modo il posto nella sua mente, o nelle sue viscere, come preferite. 

Questo nuovo giornale -non so se più assecondando o oltrepassando idee e sentimenti  dello stesso editore come quello da me avuto a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso- ha partecipato domenica scorsa alla festa della mamma facendola a suo modo, su tutta la prima pagina, fra editoriale e articolo di cronaca e inchiesta, alla madre della premier Giorgia Meloni. Una premier, madre anch’essa già prima di diventare presidente del Consiglio, che col suo arrivo a Palazzo Chigi ha politicamente contrariato pure “l’ingegnere”, come Carlo De Benedetti viene comunemente chiamato alla maniera in cui del compianto Gianni Agnelli si scriveva “l’avvocato”. 

In particolare, Domani ha pizzicato in fallo, diciamo così, Giorgia Meloni in un passaggio della biografia che l’ha aiutata a crescere anche elettoralmente in cui ha scritto in passato della pur vivente mamma Anna Paratore che “lavorava sempre”, dopo essere stata abbandonata dal marito, “inventandosi mestieri ogni volta diversi” ma “sempre un pò sfortunata”, perché “di soldi non ce n’erano mai abbastanza”. Neppure quando la signora scriveva, anzi sfornava romanzi con lo pseudonimo Josie Bell. A me, purtroppo, non è mai capitato di leggerne neppure uno, per cui temo di avere contribuito all’insufficienza delle entrate lamentate dalla figlia. 

“Di sicuro” -ha scritto maliziosamente il giornale dell’ingegnere- la Meloni figlia “non si riferiva all’operazione Raffaello, l’ultimo fortunato colpo di Paratore”. Un’operazione costituita -per sintetizzare al massimo la lunga e un pò troppo complicata storia raccontata dal giornale di Carlo De Benedetti, in cui la mamma figura per un certo tempo socia in affari in Italia di un socio dell’ex marito perseguito in Spagna come narcotrafficante- dall’acquisto per 2000 euro di una quota azionaria di una società organizzatrice di eventi fruttati in quattro anni, fra il 2012 e il 2016, qualcosa come 48 mila euro, attribuibili però non tutti alla vendita della quota ma anche a un recupero di crediti. S’intrecciano in questa storia -dalle dimensioni economiche non credo comunque rilevanti, specie se confrontate alle cifre cui è abituato l’editore di Domani nella sua legittima e lunga esperienza di imprenditore e finanziere- personaggi alquanto minori del partito di Giorgia Meloni negli anni in cui la leader della destra italiana ebbe anche l’idea di candidarsi al Campidoglio. 

Ad occhio e croce -con la mia modesta esperienza giornalistica, anche di cosiddetto inchiestista, per esempio negli anni lontanissimi di cronista capitolino in un giornale romano della sera a proposito delle speculazioni immobiliari sulle due rive del Tevere negli anni Sessanta- mi sento di prevedere e di scrivere che non sarà questa storia a compromettere la sorte del governo in carica e ,più in particolare o in generale, come preferite, la carriera politica di Giorgia Meloni. Della quale pertanto, sempre ad occhio e croce, mi sento di condividere la conclusione di una lunga postilla da lei posta alle risposte che ha voluto concedere ad un questionario inviatole dagli inquirenti di scrivania di Domani: “Se gli illeciti non ci fossero, come io sono certa che sia, allora quale è l’obiettivo di questo presunto scoop? Ve lo dico io. Mettere un pò di fango nel ventilatore e accenderlo, sperando che, comunque vada, un pò di fango rimanga attaccato…….Farmi perdere la calma, la lucidità, nella speranza che faccia qualche passo falso. Ma non accadrà, perché io sono una persona onesta e libera, e mi sono convinta che sia proprio questo a farvi impazzire”. Cosa che il direttore di Domani ha contestato il giorno dopo in un editoriale, dopo averci riflettuto ben bene, assicurando praticamente di essere completamente lucido e di volerlo rimanere a guardia della solita, vecchia vocazione del giornalismo a “fare le pulci ai potenti” di turno. Si spera, naturalmente per il giornalismo tout court, senza rimanerne vittima. 

Gli è andato dietro il giorno dopo ancora, sempre in prima pagina e pur con minore evidenza, il giornale che fu di Carlo De Benedetti, cioè Repubblica. Anche ai fantasmi evidentemente accade di tornare sui luoghi dei delitti.

Pubblicato sul Dubbio

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