Il Senato scambiato per un maiale dalle opposizioni

         Come si dice di un maiale quando viene ucciso e ben bene sezionato perché nulla si sprechi, così le opposizioni hanno fatto con la seduta del Senato per rifarsi della sconfitta subita nell’assalto al governo di Paolo Gentiloni, e non solo al ministro renzianissimo e potentissimo dello Sport Luca Lotti, per l’affare -chiamiamolo così- Consip. Che, fra i vari inconvenienti, oltre alla manipolazione di intercettazioni e varie, ha quello del coinvolgimento del padre di Matteo Renzi, Tiziano, come indagato per traffico d’influenze illecite. Ed è già una fortuna, per lui e per il figlio, che non sia finito in galera prima o dopo un lungo interrogatorio subìto in Procura a Roma: in galera come lo avrebbero voluto, prima ancora degli inquirenti di Napoli, ufficiali e sottufficiali dei Carabinieri usati come polizia giudiziaria nelle indagini sino a quando nella Capitale i pubblici ministeri guidati da Giuseppe Pignatone non si sono accorti delle anomalie, chiamiamole così, e non le hanno interrotte di brutto.

         Alle opposizioni, in particolare al principale giornale di riferimento, che è notoriamemte Il Fatto Quotidiano fondato dal buon Antonio Padellaro e diretto ora dal meno buono, inteso come carattere, Marco Travaglio, non è andata giù di quella seduta a Palazzo Madama neppure la parte iniziale dedicata alla commemorazione dell’ex ministro repubblicano delle Poste Oscar Mammì, morto recentemente a più di 90 anni senza essere riuscito a liberarsi dell’abito confezionatogli nel 1990 dalle sinistre democristiana e post-comunista di favoreggiatore del già allora odiato Silvio Berlusconi per la legge che, disciplinando il sistema radiotelevisivo, ne aveva regolarizzato le tre reti concorrenti della Rai.

         Già la celebrazione parlamentare in sé del pur scomparso Mammì ha fatto storcere il naso a quelli del Fatto. Che, con la firma di Fabrizio D’Esposito, hanno tenuto da ridire non solo e non tanto sugli elogi rivolti alla memoria del defunto dal capogruppo di Forza Italia Paolo Romani, che allora possedeva una piccola televisione privata e faceva quindi già parte della galassia berlusconiana favorita, secondo loro, dall’allora governo di Giulio Andreotti. Che per far passare quella legge ricorse al voto di fiducia. Nella redazione di Travaglio hanno tenuto da ridire soprattutto sull’intervento del capogruppo del Pd Luigi Zanda, azzardatosi a elogiare “il coraggio” dell’allora ministro, spintosi là dove non doveva -alla singolare luce degli avvenimenti politici di molto successivi- per questioni quanto meno di galateo istituzionale.

         Voi non ci crederete, ma Zanda si è preso praticamente del maleducato perché con gli elogi a Mammì avrebbe fatto uno sgarbo all’attuale presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Che 27 anni anni fa, esattamente il 26 luglio, ha certificato D’Esposito in veste non so se più di storico o di pubblico ministero ad honorem, si dimise da ministro con altri quattro colleghi di partito e soprattutto di corrente, quella guidata da Ciriaco De Mita, contro le modalità, quanto meno, di approvazione della legge Mammì.

         Le dimissioni -di Riccardo Misasi, Mino Martinazzoli, Carlo Fracanzani e Calogero Mannino, oltre all’attuale capo dello Stato- furono preparate e annunciate col proposito di provocare una crisi di governo. Ma quel diavolo di Francesco Cossiga, allora capo dello Stato, pur proveniente pure lui dalla sinistra democristiana, non ne volle sapere. E accettò invece, seduta stante, la proposta costituzionale del presidente del Consiglio di sostituire i quattro ministri dimissionari con esponenti ai quali evidentemente la legge Mammì non faceva per niente schifo, né per il contenuto né per le modalità di approvazione.

         Non so francamente se al Quirinale, sentendo magari col circuito interno televisivo la seduta del Senato, Mattarella si sia sentito offeso, o comunque a disagio, per l’intervento del pur amico Zanda. Al quale D’Esposito, visto che si trovava, avrebbe potuto anche rimproverare di avere ignorato l’apprezzamento di quelle “coerenti” dimissioni di Mattarella espresso dall’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi, oltre che segretario del Pd, per motivarne la candidatura e poi l’elezione al Quirinale due anni fa, anche a costo, o col proposito, chissà, di rompere il cosiddetto patto del Nazareno con Berlusconi sulle riforme costituzionali: una rottura che poi gli sarebbe costata carissima nel referendum costituzionale del 4 dicembre scorso. Riconoscere forse questo “merito” a Renzi, di questi tempi, deve essere apparso inopportuno a Travaglio e amici.

         Dubito, per come lo conosco, che Mattarella se la sia presa più di tanto con Zanda, anche perché nel frattempo egli ha instaurato con Berlusconi un buon rapporto istituzionale, politico e persino personale. Sono tuttavia sicuro che il presidente della Repubblica sia ancora memore del fatto che Luigi Zanda non è un omomino ma proprio lu: uno degli amici e collaboratori più stretti di Cossiga prima ancora che Francesco arrivasse al Quirinale. E rimastone amico ed estimatore anche dopo, quando il “picconatore” demolì la crisi di governo preparata o tentata dalle dimissioni dei cinque ministri della sinistra democristiana contro la legge del “coraggioso” Mammì.

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