
Pietro Metastasio è tornato fra noi dopo trecento anni, se mai se n’è davvero andato, con la sua araba fenice, l’uccello sacro e favoloso degli antichi egiziani: “che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa”. Alludo naturalmente al Centro, con la maiuscola, che -rappresentato allora dal Ppi-ex Dc di Mino Martinazzoli- il bipolarismo improvvisato da Silvio Berlusconi nel 1994 sconfisse ancor più della “carovana” di sinistra guidata dal segretario del Pds-ex Pci di Achille Occhetto.
Il Centro tuttavia fu sconfitto per modo di dire perché a rimpiangerlo e a tentare di rianimarlo cercarono subito in tanti muovendosi sia all’interno del centrodestra sia all’interno del centrosinistra riesumato con lo sfaldamento del Ppi, l’invenzione dell’Ulivo, la sua trasformazione nell’Unione, la fusione nel Pd tra gli avanzi comunisti, quelli della sinistra democristiana e cespugli liberali e verdi. La voglia di centro è cresciuta via via che il bipartitismo è andato affievolendosi, sino a sembrare sepolto dal tripolarismo sognato dai grillini in una breve stagione.
E’ un sogno quello di un Centro autonomo, a dispetto di una legge elettorale ancora in vigore con una sua parte maggioritaria che molti sono tentati di abolire, magari momentaneamente, solo per il prossimo passaggio, ma nessuno ha la forza per ora di rimuovere. E’ un sogno che i sismografi elettorali, come potrebbero essere definiti i sondaggi, stentano a registrare con una certa evidenza reale ma che almeno i giornali avvertono per i tanti che aspirano a raccoglierlo e a rappresentarlo. E ciò a partire da Silvio Berlusconi rimanendo però a custodire il centrodestra, almeno sino alla partita del Quirinale dalla quale egli ha appena dichiarato di “non tirarsi indietro”, così come Enrico Letta rimanendo a custodire il centrosinistra “largo” e continuando a pensare a Matteo Renzi e Carlo Calenda.
Non dimentichiamoci infine di Clemente Mastella, appena esaltatosi con la conferma “contro tutti” a sindaco di Benevento, e per niente trattenuto dallo scherno di Calenda. Che, attestatosi sul 4,5 per cento accreditatogli dal recentissimo sondaggio di Alessandra Ghisleri, più del doppio del partito di Renzi, ritiene di essere ormai il vero protagonista di quest’area pur ancora gassosa, per presidiare la quale egli, già eurodeputato, ha rinunciato al seggio troppo riduttivo e fastidioso di consigliere comunale di Roma.

Se vi è uno specialista del Centro, quasi la sua rappresentanza fisica, per averne per primo tentato la riesumazione dall’interno del centrodestra, infastidendo nei giorni pari Berlusconi, costretto a tenerselo per un po’ a Palazzo Chigi come vice presidente del Consiglio, e nei giorni dispari il suo amico e collega di partito Pierferdinando Casini, questi è Marco Follini. Che dalla postazione che ha ormai scelto di politologo, deluso da entrambi i poli del bipartitismo da lui vissuto del resto con scetticismo, sa descrivere come pochi gli spettacoli della politica. dividendosi fra giornali e libri.


E’ ancora in edicola il numero dell’Espresso in cui Follini, includendo nel paesaggio del centro anche l’amico Totò Cuffaro, tornato a fare politica in Sicilia, dove peraltro è metaforicamente risbarcato anche Marcello Dell’Ultri -tutti sbeffeggiati in un fotomontaggio di qualche giorno fa dal Fatto Quotidiano- incoraggiando il fedele Gianfranco Miccichè a sperimentare un’alleanza con Renzi l’anno prossimo nelle elezioni comunali a Palermo, ha condizionato la nascita o rinascita del Centro a questa possibilità: che diventi “un luogo nel quale la passione politica si accompagna alla prudenza, il protagonismo delle prime file si coniuga con la militanza delle file assai più indietro e il carattere forte, ma non troppo del leader di turno si stempera nella pluralità delle opinioni e delle ambizioni di quanti gli tengono compagnia”.

Quello di Follini è un ritratto, diciamo così, del Centro coerente con la sua formazione e militanza nella irripetibile Dc, di cui non a caso è stato lo storico più acuto scrivendone; coerente col punto di riferimento da lui scelto durante quell’esperienza in Aldo Moro, ripiegando dopo la sua morte su Tony Bisaglia, che lo preferiva per intelligenza a Casini il bello; coerente infine con le dure prove vissute nella cosiddetta seconda Repubblica, ma sinceramente lontano da ciò che l’araba fenice centrista offre oggi. Ve lo immaginate un Renzi o un Calenda, o gli stessi Berlusconi ed Enrico Letta ora custodi del centrodestra e del centrosinistra, capaci di considerarsi soltanto “leader di turno”, come ha scritto Follini? Sì, anche Enrico Letta ormai mi è parso un po’ troppo sopra le righe scambiando addirittura per “trionfo” la vittoria conseguita nelle elezioni amministrative di questo ottobre.
Gioca in fondo contro il Centro giustamente inteso come lo ha descritto Follini quel “codice della nostra modernità politica”, come lui stesso lo ha chiamato avendolo provato sulla propria pelle, che “reclama un capo e si aspetta incisività, temperamento, leadership, fin quasi alle soglie del culto della personalità”. E invece “il valore di una forza intermedia”, come il Centro deve essere, “sta nella pazienza con la quale la si intesse, nell’ospitalità che riserva a chi vi affluisce, nel riguardo che porta a chi canta nel coro in un modo tutto suo”, o aspettando il segnale del “direttore d’orchestra” per suonare al momento opportuno lo “squillo di tromba”.

Temo che da questo Centro siamo ancora lontani. Lo temo anche a costo di rischiare la condivisione del giudizio di Conte quando, non riconoscendosi nelle critiche rivolte anche a lui non sempre a torto, denuncia il rischio, come ha detto ieri al Corriere della Sera, di finire “ostaggio”, con il Centro, “di chi vive la politica come dimensione personalistica in base a slanci narcisistici”.
Pubblicato sul Dubbio
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