L’inesauribile sfida di Matteo Salvini predicando addirittura la normalità

           Più della fetta di pane spalmata di nutella con cui Matteo Salvini ha voluto esibirsi al suo pubblico la mattina di Santo Stefano, colpisce la rivendicazione che ha voluto fare di questo gesto dopo le proteste levatesi per la sfortunata coincidenza fra la spensieratezza del ministro dell’Interno e l’inferno -che fa  pure rima- del suo ufficio in senso lato. Che è stato letteralmente investito da una emergenza sicuramente incolpevole come quella di Catania, scossa dal terremoto e dalle eruzioni dell’Etna, ma anche da un incidente a dir poco imbarazzante per il Viminale: l’uccisione a Pesaro, sotto casa, di un uomo sottoposto a protezione delle forze dell’ordine perché fratello di un pentito della mafia calabrese. C’è poco da discutere: di un infortunio del genere un ministro dell’Interno non può liberarsi come di una mosca fuori stagione posatasi sulla sue dita intrise di nutella.

          Invece Salvini, peraltro anche vice presidente del Consiglio per non essere, come capo leghista, da meno del capo del movimento delle 5 stelle Luigi Di Maio, ha buttato le proteste levatesi  sul piano mediatico e politico in quello che lui considera evidentemente il cestino o il cesso della “sinistra”, vantandosi quindi -debbo presumere- di essere di destra. Non a caso, del resto, dopo i suoi pur trascorsi giovanili di sinistra, egli ha strappato nelle urne del 4 marzo scorso la leadership del centrodestra a un Silvio Berlusconi evidentemente considerato anche da una parte dei suoi tradizionali elettori troppo moderato, cioè troppo poco di destra per il momento e le esigenze del Paese.

          Oltre a semplificare in questo modo condotte e schieramenti, collocandosi cioè a destra e sbattendo a sinistra tutto il resto, come si faceva col fascismo e l’antifascismo, o il comunismo e l’anticomunismo, Salvini ha voluto impartire una lezione, diciamo così, di stile e di cultura istituzionale dicendo, testualmente: “Un ministro mangia, beve, dorme, sorride. Fa quello che fanno milioni di italiani normali. Forse questo dà fastidio a tanti professoroni: avere un governo normale che fa cose normali. Se l’opposizione la fate così, non governeremo altri vent’anni ma trenta”. Chissà se il plurale del Matteo “sbagliato”, come lo chiama Renzi, è solo leghista, o comprende anche i grillini.

          A parte il fatto che il governo di cui Salvini è vice presidente del Consiglio e ministro- ripeto- dell’Interno è nato col proposito dichiarato, anzi gridato, di essere diverso, di rappresentare e promuovere il “cambiamento” come mai nessuno aveva voluto in precedenza, stupisce che il leader leghista rivendichi la “normalità” di un esecutivo come questo. Che non per caso ma per calcolo politico ha varato una legge di bilancio sfidando con un deficit del 2,4 per cento la Commissione Europea, poi ha deciso di trattarne la modifica per sottrarsi a una procedura d’infrazione e l’ha infine stravolta con un emendamento di 270 pagine. Con cui, ricorrendo alla fiducia, esso  ha sottratto ogni tempo ragionevole di esame al Senato. E si accinge a strappare con lo stesso metodo il secondo e definitivo voto della Camera, che l’8 dicembre aveva approvato tutt’altra legge.

         Se questo è o può definirsi un governo “normale”, lasciando da parte ogni altra considerazione di sostanza sul bilancio del 2019, visto anche che quasi sicuramente alcune sue disposizioni finiranno all’esame della Corte Costituzionale per la loro temerarietà, bisognerebbe riformare anche il dizionario della lingua italiana. E non solo la Costituzione, come sembra che voglia fare la maggioranza gialloverde.

       A questo punto, più che a Salvini bisognerebbe rivolgersi a chi veramente lo stima e gli vuole bene perché lo convinca a  una certa, vera normalità di ragionamento e di condotta.

La sofferenza del presidente della Repubblica in questa fine d’anno

In tanti hanno lamentato o denunciato le ferite procurate al Parlamento dal governo gialloverde e dalla sua maggioranza nella convulsa gestione della legge di bilancio al Senato. E tutto sta per ripetersi alla Camera, dove sarà ugualmente ristretto il tempo a disposizione dei deputati, fra commissione e aula, per l’esame del testo trasmesso da Palazzo Madama, costituito dalle 270 pagine e rotte del maxi-emendamento governativo al bilancio già votato a Montecitorio l’8 dicembre.

Di un “bivacco di esautorati” ha parlato nella ormai ex bomboniera di Palazzo Madama, come per tanto tempo è apparsa l’aula del Senato per la sua eleganza, l’ex presidente del Consiglio Mario Monti in un tagliente intervento prima del voto. E dopo un discorso non meno duro di Emma Bonino, interrotto dall’impaziente presidente della seduta, il leghista Roberto Calderoli, ma condiviso con un comunicato dal presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano.

Non meno clamorose tuttavia sono state le ferite procurate dalla gestione governativa della legge del bilancioRichiamo sul Dubbiopg.jpg alle prerogative e funzioni del capo dello Stato. Di cui in alcuni giornali sono stati raccolti in forma troppo riduttiva le “inquietudini” solo per il rischio del ricorso al cosiddetto “esercizio provvisorio”, in caso di mancata approvazione definitiva della legge  entro il 31 dicembre.

Eppure il costituzionalista Michele Ainis ha dichiarato di considerare quel rischio “forse” meno dannoso degli strappi compiuti dal governo al tessuto parlamentare prima facendo approvare alla Camera solo per finta un bilancio destinato in partenza ad essere radicalmente cambiato al Senato, e poi limitandone a Palazzo Madama l’esame nella nuova versione, sino a strozzarlo con un voto di fiducia, e senza il preventivo giudizio della commissione competente.

Carlo Cottarelli, l’economista al quale il capo dello Stato aveva conferito nella primavera scorsa l’incarico di formare il governo dopo il fallimento del primo tentativo di Giuseppe Conte, è stato ancora più esplicito e severo di Ainis. Egli ha detto in una intervista televisiva, papale papale, che sarebbe stato meglio ricorrere all’esercizio provvisorio per il tempo strettamente necessario a un esame completo e vero del bilancio piuttosto che obbligare praticamente i senatori ad approvare il maxi-emendamento senza averlo potuto materialmente  leggere.

Se fosse stato lui insomma il presidente del Consiglio, come per qualche giorno era apparso possibile dopo le elezioni del 4 marzo, Cottarelli avrebbe risparmiato al Senato e, più in generale, alle istituzioni lo spettacolo di questa singolarissima fine d’anno.

D’altronde, mai e poi mai Cottarelli a Palazzo Chigi avrebbe sfidato la Commissione Europea con un deficit del 2,4 per cento rispetto al prodotto interno lordo, e consentito a un suo vice di festeggiarlo sul balcone. E mai e poi mai, resistendo alle sollecitazioni del presidente della Repubblica, come invece è accaduto, avrebbe lasciato praticamente passare quasi due dei tre mesi a sua disposizione per rinunciare alla sfida, aprire una trattativa con Bruxelles e chiuderla al 2,04 per cento di deficit. E per giunta in modo così concitato da fare del maxi-emendamento, per tempi e contenuto, un’avventura acrobatica tra palle e palline degli alberi di Natale degli uffici ministeriali. Dove -per inciso- è saltato anche un capo di Gabinetto fra l’indifferenza quasi generale, come se si fosse trattato di un fatto minore e scontato.

A cose fatte e gestite in questo modo, con i presidenti delle Camere e lo stesso presidente del Consiglio costretti a cercare precedenti che potessero fornire scappatoie improbabili, se non impossibili, ben difficilmente, anche se lo volesse, o ne fosse semplicemente tentato, il presidente della Repubblica dopo il voto definitivo della Camera potrebbe avvalersi del diritto molto importante riconosciutogli dall’articolo 74 della Costituzione. Che è quello di sospendere la promulgazione della legge e chiedere “con un messaggio motivato alle Camere una nuova deliberazione”.

Oltre al significato politicamente clamoroso di una sostanziale e non a caso inedita bocciatura quirinalizia del bilancio e del governo che lo ha proposto, con relative implicazioni comunitarie, Mattarella innescherebbe con un rinvio il meccanismo proprio del tanto temuto, a torto o a ragione, esercizio provvisorio. Che per quello stesso aggettivo che lo accompagna sarebbe sinonimo di crisi e instabilità. Il presidente della Repubblica insomma si trova -diciamolo del tutto francamente- con le mani legate, pur in presenza di non poche norme del bilancio destinate a finire davanti alla Corte Costituzionale. Cui peraltro c’è chi vorrebbe ricorrere persino per contestare le modalità di approvazione del bilancio, aggiungendo un inedito all’altro nella storia settantennale della nostra Repubblica parlamentare.

Ma, ponendosi in un’ottica quirinalizia esasperata, diciamo così, oltre all’articolo 74 è apparso ferito l’articolo 87 della Costituzione. Che nel quarto comma conferisce al capo dello Stato il diritto di “autorizzare la presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa del Governo”, compreso quindi quello del bilancio. E’ proprio l’articolo che non a caso, per la prima volta dopo gli anni lontani di Luigi Einaudi, evocandone la figura in una cerimonia pubblica, Mattarella evocò dopo le elezioni del 4 marzo, quando nacque la prospettiva di un governo non paragonabile ad alcun altro nella storia repubblicana. E apparve perciò ancora più decisivo il ruolo di garanzia del capo dello Stato configurato nella Costituzione.

Una volta autorizzata la presentazione alle Camere, magari dopo averne più o meno pazientemente atteso per settimane il testo vero -non quello genericamente annunciato dal Consiglio dei Ministri “salvo verifiche”, secondo una formula di cui il meno che si possa dire è che è stata ormai abusata- il capo dello Stato deve limitarsi a seguire a distanza il percorso parlamentare del disegno di legge.

“Fino a quando parla il Parlamento,  il presidente della Repubblica tace”, ha detto una volta lo stesso Mattarella, che peraltro è stato professore di diritto parlamentare prima di arrivare al governo come vice presidente del Consiglio o ministro, alla Corte Costituzionale come giudice  e infine al Quirinale come capo dello Stato.

Al massimo, il presidente della Repubblica può limitarsi, nella sua attività di cosiddetta “persuasione morale”, a far conoscere con sapiente discrezione le sue perplessità al governo e alle stesse Camere per qualcosa che di una legge potrebbe metterlo in difficoltà nell’atto della promulgazione, ma oltre non può certamente andare. E ciò specie in tempi e con partiti e uomini di governo come questi, che non hanno e non praticano riguardi a nessuno. Basterà ricordare, a questo proposito,  l’impeachment minacciato proprio contro Mattarella dal non  ancora vice presidente grillino del Consiglio Luigi Di Maio in occasione della mancata nomina di Paolo Savona a Ministro dell’Economia. Cui poi è seguita una sceneggiata televisiva dello stesso Di Maio per un decreto che sarebbe stato manomesso nel percorso fra Palazzo Chigi e il Quirinale: un decreto invece che era ancora in qualche cassetto ministeriale, dove avrebbe dovuto cercarlo la Procura di Roma cui lo stesso Di Maio aveva minacciato di rivolgersi.

Una volta approdata in Parlamento, la legge di bilancio del 2019 non è stata modificata in qualche sua parte, nel percorso  fra la Camera e il Senato, per effetto di un naturale confronto fra maggioranza e opposizioni, o all’interno della stessa maggioranza. Essa è stata letteralmente riscritta dal governo col già ricordato maxi-emendamento, in esecuzione degli accordi raggiunti con la Commissione Europea, ma anche per effetto dei ripensamenti e dei negoziati fra i due partiti della maggioranza sviluppatisi sino all’ultimo istante, anche dopo la cosiddetta bollinatura della Ragioneria Generale dello Stato.

A rigor di logica, e forse anche di galateo istituzionale, quella legge di bilancio  riscritta daccapo avrebbe dovuto paradossalmente ripassare dal Quirinale per l’autorizzazione prevista dall’articolo 87. Ma solo a pensarlo, non dico a reclamarlo, il capo dello Stato si sarebbe ritrovato come in quella notte di maggio del minacciato impeachment, rimosso dal percorso della crisi -ricordiamolo- solo per un intervento telefonico di Grillo, mai smentito, su Di Maio.

Le peripezie della legge di bilancio del 2019 moltiplicano le mie personali curiosità sul messaggio televisivo di Capodanno del capo dello Stato. Cui basterebbe una citazione letteraria, come quella manzoniana e felicissima del buon senso appannato dal senso comune, per lasciare intuire il disagio, diciamo pure la sofferenza che egli ha dovuto provare in questi giorni pur di festa.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it e policymakermag.it

Blog su WordPress.com.

Su ↑