Per avere un’idea della svolta che può rappresentare ciò che è appena accaduto al Senato, prima con la sfiducia negata al ministro dello sport Luca Lotti e poi, nel giro di meno di 24 ore, con la decadenza negata al senatore forzista Augusto Minzolini, vorrei raccontarvi ciò che accadde alla Camera e dintorni 24 anni fa, in piena epoca di Mani pulite: la stagione giudiziaria e politica che segnò la fine della cosiddetta prima Repubblica.
E’ il 28 aprile del 1993. Carlo Azeglio Ciampi, trasferitosi dalla Banca d’Italia a Palazzo Chigi su disposizione del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, condivisa dai maggiori partiti, ha appena formato il suo governo. Che è succeduto a quello del socialista Giuliano Amato, dimessosi dopo meno di un anno di vita ritenendo concluso il suo compito col referendum elettorale che, sia pure riguardante solo la legge elettorale del Senato, ha archiviato il sistema proporzionale.
Al nuovo governo, di cui fanno parte anche tre ministri del Pds, discendente dal Pci estromesso dall’esecutivo nazionale nel lontano 1947, spetta il compito soprattutto di gestire l’approvazione di una nuova legge elettorale, valida sia per il Senato sia per la Camera e coerente con il verdetto referendario. Poi potrà essere rinnovato il Parlamento, nel frattempo affollatosi di inquisiti dalla Procura di Milano e da altre per finanziamento illegale dei partiti, corruzione, concussione, ricettazione ed altro ancora.
Il vecchio articolo 68 della Costituzione, che non permette ai magistrati di proseguire nelle indagini a carico dei parlamentari senza l’autorizzazione della Camera di appartenenza, è ai suoi ultimi mesi di applicazione, prima della riforma che limiterà da ottobre in poi la necessità del permesso ai casi di arresto, perquisizione e intercettazione, salvo abusi dei magistrati, come poi si è scoperto.
In vista della discussione e delle votazioni nell’aula di Montecitorio di sei “autorizzazioni a procedere” contro l’ormai ex segretario socialista Bettino Craxi, dimessosi in febbraio dalla guida del Psi, il segretario del Pds Achille Occhetto chiede un incontro al segretario della Dc Mino Martinazzoli. Che riceve la richiesta mentre discorre con il capogruppo democristiano della Camera, Gerardo Bianco, della curiosa coincidenza di giornata, decisa dal presidente di Montecitorio Giulio Napolitano, fra presentazione del nuovo governo, proprio a Montecitorio, e le votazioni su Craxi, seppure in due sedute separate.
La richiesta di Occhetto viene immediatamente accolta dal segretario della Dc, che chiede a Bianco se gli può prestare l’ufficio di capogruppo per l’evenienza. Ma quando Occhetto si presenta con il capogruppo del Pds a Montecitorio, Massimo D’Alema, anche Bianco rimane. E il suo l’ufficio diventa la sede di un vero e proprio vertice politico.
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Occhetto chiede a Martinazzoli, senza perdere tempo con diversivi di alcun tipo, ”un segno concreto di cambiamento politico”, come dopo qualche anno mi racconterà Bianco, consentendomi anche di scriverne.
Il segno del cambiamento atteso dal principale partito della ex opposizione consiste nella concessione delle sei autorizzazioni a procedere per via giudiziaria contro Craxi, delle quali quattro giunte dalla Procura di Milano e due dalla Procura di Roma.
Martinazzoli, peraltro di professione avvocato, già ministro della Giustizia, fa osservare a Occhetto che l’abitudine del proprio partito è di lasciare libertà di coscienza ai parlamentari quando sono chiamati a pronunciarsi su vicende come quelle di Craxi.
Occhetto ci resta un po’ male, guarda D’Alema, muto come un pesce, e torna alla carica. Ma Martinazzoli non molla e, quasi per sottolineare l’importanza che dà alla sua linea garantista, fa presente che essa sarà illustrata nell’aula di Montecitorio proprio dal capogruppo Bianco in sede di dichiarazione di voto.
In effetti, la sera del 29 aprile Bianco interviene in aula ricordando la lunga alleanza politica con i socialisti e lasciando i deputati del suo gruppo liberi di votare come riterranno, secondo coscienza.
Le sei votazioni a scrutinio segreto si risolvono in modo diverso. Nelle quattro riguardanti le richieste della Procura milanese la difesa di Craxi prevale con 291 voti contro 272. Nelle altre due soccombe per due voti.
In aula scoppia a questo punto il finimondo, con comunisti, leghisti e missini inviperiti contro i democristiani, colpevoli di avere salvato il “cinghialone”, come anche negli uffici della Procura milanese, bersagliati di telefonate, hanno imparato a chiamare Craxi. Volano insulti da tutte le parti. I commessi debbono faticare le proverbiali sette camicie per evitare scontri fisici.
Occhetto corre via, infuriato, negli uffici di partito alle Botteghe Oscure, dove annuncia ai giornalisti che i “nostri” tre ministri si dimetteranno per protesta: non contro la Camera presieduta da Napolitano, evidentemente, ma contro i democristiani. Dopo molti anni egli ammetterà, partecipando nei locali della Fondazione Craxi alla presentazione di un libro con Claudio Martelli, di essere stato allora troppo precipitoso.
I tre ministri tuttavia -Luigi Berlinguer all’Università e ricerca scientifica, Vincenzo Visco alle Finanze e Augusto Barbera ai rapporti con il Parlamento- formalizzeranno le dimissioni solo il 4 maggio. Saranno imitati, fuori dal Pds, dal post-radicale e ambientalista Francesco Rutelli. Che poi augurerà a Craxi per agenzie di provare il “rancio” del carcere rimediandosi in un ristorante dello “stronzo” dalla figlia di Bettino, Stefania, condannata poi a pagargli a rate non ricordo più quante centinaia di migliaia o milioni di lire.
La stessa sera del 29 aprile 1993 Craxi riceve nella sua residenza romana, all’albergo Raphael, la visita del festoso amico Sivio Berlusconi, che prudentemente lascia l’hotel dall’uscita posteriore. Cosa che la sera dopo, uscendo per raggiungere Giuliano Ferrara negli studi televisivi della Fininvest, Craxi rifiuta di fare, come invece gli suggerisce il fedele Nicola Mansi, imbattendosi perciò in una folla di scalmanati provenienti da un comizio di Occhetto nella vicina Piazza Navona.
Vola di tutto nella piazzetta antistante l’albergo dal pubblico contro Craxi: insulti, minacce, derisioni, ombrelli, bastoni, monete, monetine, soldi di carta, accendini, scarpe.
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Ebbene, proprio quella serata infame, una specie di edizione metaforica della macelleria di Piazzale Loreto del 1945, è stata evocata l’altra sera, collegato col salotto televisivo di Lilli Gruber, da Marco Travaglio -e da chi sennò ?- per dire, in pratica, che Craxi e i suoi amici se l’erano un po’ cercata sfidando l’indignazione popolare. Così come, fatte le debite proporzioni, se la sarebbero cercata se dovesse capitare la stessa cosa anche a loro, Augusto Minzolini e i senatori che, stavolta a viso aperto, a scrutinio cioè palese, lo hanno salvato dalla decadenza dal Parlamento sfidando l’ira e l’evocazione della piazza del vice presidente grillino della Camera Luigi Di Maio.
Per aiutare i suoi lettori a ricordarne bene i nomi Travaglio ha pubblicato come un manifesto sulla prima pagina del suo giornale l’elenco dei 19 senatori del Pd che hanno votato a favore di Minzolini avvalendosi della “libertà di coscienza autorizzata” -ha detto, in particolare, Massimo Mucchetti, uno dei 19- dal capogruppo Luigi Zanda. Una libertà di coscienza -va detto, pur apprezzando il ripensamento- non autorizzata, per dirla sempre con Mucchetti, nell’autunno del 2013, quando fu votata la decadenza da senatore di Silvio Berlusconi, in applicazione della stessa legge Severino invocata l’altro ieri contro Minzolini, fatte anche questa volta, naturalmente, le debite proporzioni.
In verità, ai 19 -contro i 37 voti contrari dei piddini- Travaglio ha aggiunto nel suo manifesto anche i 14, sempre del gruppo del Pd, che si sono astenuti. Eppure il regolamento del Senato dà all’astensione gli stessi effetti del voto contrario. Evidentemente, anche l’astensione deve essere giudicata da quelle parti come un attentato alla legalità, giustizia, moralità eccetera eccetera.
Sono dovuti passare 23 anni perché quelle due paroline –libertà di coscienza– passassero dall’ormai compianto Martinazzoli ad un altro democristiano, Lugi Zanda, nel frattempo ritrovatosi nello stesso gruppo e partito con gli eredi -non i “reduci”, ha recentemente avvertito Matteo Renzi- del Pci.
Il passaggio di consegne, o di parole, personalmente non mi dispiace per niente. Ne sarei persino orgoglioso, da amico che sono stato di Martinazzoli, e sono di Zanda. Ma spero che duri.
Pubblicato su Il Dubbio