Bettini fa rima con Pasolini parlando di complotto contro Conte

Ogni tanto Goffredo Bettini mostra di avere capito di averla sparata grossa gridando al complotto contro Giuseppe Conte, non caduto -ha detto- ma fatto cadere da interessi più forti di lui, e a dispetto delle sue virtù salvifiche che i complottisti, appunto, non avrebbero voluto dargli il tempo di dimostrare pienamente. Per cui, poveretto, ora da nuovo Moro capace di scomporre e ricomporre equilibri malmessi egli è stato ridimensionato a un sostanziale vice di Beppe Grillo alle prese con la rifondazione di un movimento destinata, occhio e croce, al fallimento di tutte le altre rifondazioni politiche tentate in anni più o meno recenti, a cominciare da quella -ricordate?- del partito comunista.

            Ma ogni volta che Bettini cerca di correggersi finisce per ripetere le stesse cose in modo peggiore, più pasticciato e meno credibile. Eccovene l’ultima prova, che pure sembrava promettente per il riconoscimento, finalmente, di qualche fesseria politica effettivamente commessa da Conte almeno negli ultimi mesi del suo secondo governo: “C’erano degli interessi perché la campagna è stata sproporzionata agli errori e non mi pare che questo voglia dire che c’è stato un complotto”. Ah no? “Non esiste il complotto”, ha insistito l’oracolo spiegando però: “Renzi ha fatto cadere il governo Conte 2 ma credo che, al di là di Renzi, ci sia stato qualcosa di più grande che si è mosso”. Ma allora ci risiamo…col complotto.

            Eh, sì, ci risiamo perché sentite il proseguimento del discorso, misto di riconoscimento dei propri limiti investigativi e di imitazione della buonanima di Pier Paolo Pasolini: “Non sono uno 007, non sta alla politica portare prove. Do un’opinione e una lettura politica”.

            Sentite, anzi rileggete con me ciò che il 14 novembre 1974 Pasolini scrisse sul Corriere della Sera diretto da Piero Ottone a proposito non di colpi di Stato e stragi: “Io so ma non ho le prove, non ho nemmeno indizi. Io so perché sono intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa, o si tace, che coordina fatti anche lontani, che mette insieme pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia, il mistero”.

            Non fece in tempo, Pasolini, se mai ne avesse avuto i titoli, a partecipare ad un concorso per magistrati. Lo avrebbe vinto di sicuro, visti anche certi pubblici ministeri e giudici in circolazione, fra i quali -grazie a Dio- ogni tanto c’è qualcuno che mostra di ravvedersi, com’è appena accaduto -per giunta sul Fatto Quotidiano- a Henry John Voodcock  in polemica con Gian Carlo Caselli. 

            Per fortuna, all’età che ha, e col solo diploma di maturità scientifica che ha avuto il tempo e la voglia di prendere, possiamo risparmiarci l’approdo di Bettini dalla politica alla magistratura.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Quegli equilibri politici inutilmente difesi a spese di Aldo Moro

Guido Bodrato è l’unico superstite dello Stato Maggiore democristiano che partecipò alla gestione del drammatico sequestro di Aldo Moro. Le risposte che lui ha fornito a Walter Veltroni in una lunga intervista al Corriere della Sera su quel passaggio sotto molti aspetti ancora oscuro della storia repubblicana, e non solo per le reticenze degli assassini, meritano perciò grandissima attenzione.

            E’ toccante il ricordo che Bodrato ha fatto dell’ultima, onestissima lettera scritta dall’ormai ex segretario della Dc Benigno Zaccagnini alla moglie Anna nel 1989 dall’ospedale in cui si stava avvicinando alla morte: “Tra poco incontro Aldo per abbracciarlo…Mi sono chiesto tante volta se potevo fare qualcosa di più….Qualcosa di onesto….Se Aldo fosse stato con noi avremmo trovato una strada che io non ho trovato”.

            Ma Moro, pur prigioniero dei suoi carnefici, onorevole Bodrato, non vi lasciò soli. Vi scrisse lettere che, per quanto da molti liquidate come estorte dai carcerieri, riflettevano limpidamente il suo modo di pensare, e anche di fare politica. Vi aveva chiesto, fra l’altro, di convocare gli organi collegiali del partito, a partire dal Consiglio Nazionale che, certamente, lui non avrebbe potuto presiedere, ma che poteva pur discutere in sua assenza anche delle sue lettere, senza con questo diventare uno strumento delle brigate rosse.

Rapito il 16 marzo, Moro riuscì  poi a sapere della convocazione della direzione del partito solo per il 9 maggio. E le brigate rosse non le diedero neppure il tempo di discutere perché si era ormai fatto troppo tardi per le loro esigenze e i loro contrasti interni, essendo a quel punto diventato Moro anche per loro più utile da morto che da vivo, come per alcuni suoi avversari,  esterni  e forse anche interni, volenti o nolenti, alla Dc.

So bene, onorevole Bodrato, che queste sono parole dure da leggere, oltre che da scrivere, ma Lei sa che sono anche vere. E ne trovo un riscontro anche in questo passaggio dell’intervista a Veltroni in cui si parla della “filosofia molto particolare di Andreotti”. Il quale, ritenendo che “in fondo siamo tutti peccatori, non era un personaggio votato all’intransigenza, e aveva un’idea del potere che coincideva con la sua celebre definizione: il potere logora chi non ce l’ha”. E ha ragione, onorevole Bodrato, ad aggiungere che “una delle principali ragioni che ha incrinato la credibilità della Democrazia Cristiana”, oltre all’infortunio del referendum sul divorzio nel 1974, “è stata proprio quella di affidare al potere il compito di riprodurre se stesso”. Eppure Andreotti fu in quel passaggio di una intransigenza assoluta, per quanto sicuramente dolorosa.

In parole povere, onorevole Bodrato, la vita di Moro valeva bene, secondo me, anche una crisi di governo: una crisi peraltro che si era appena composta solo formalmente, perché in realtà era rimasta irrisolta a tal punto, come Lei stesso ha giustamente ricordato, che senza il sequestro di Moro quel 16 marzo il Pci di Berlinguer sarebbe tornato a riservare al governo la vecchia astensione, e non la fiducia faticosamente concordata con lunghe trattative sul programma.

Ho ricordi diversi da quelli pur importanti, per carità, di Bodrato sulle ragioni della insoddisfazione dei comunisti. Che non mi risultava motivata dall’assenza nella lista portata alla fine da Andreotti al Quirinale, dopo un incontro alla Camilluccia con i vertici del partito, di “alcuni ministri indicati dagli indipendenti di sinistra per rendere esplicito -ha detto Bodrato- che dal governo delle astensioni si faceva un passo verso una presenza più significativa delle sinistra”: cosa sulla quale “una parte della Dc non era d’accordo”, per cui “la crisi restò aperta”.

L’ipotesi dei ministri scelti fra gli “indipendenti di sinistra” eletti nelle liste del Pci era stata già rimossa dalle trattative proprio da Moro, in difformità dalla disponibilità di Zaccagnini e Andreotti a parlarne. La lista di governo sorprese, a dir poco, il Pci di Berlinguer rispingendolo verso l’astensione perché conteneva la conferma di due ministri democristiani di cui i comunisti avevano chiesto l’esclusione. Essi erano Carlo Donat-Cattin e Antonio Bisaglia, in difesa dei quali Moro alla Camilluccia disse con fermezza che la Dc non poteva fare selezionare i suoi dirigenti da un altro partito, fosse pure il Pci.

Ricordo tutto questo non per puntiglio polemico ma solo per sottolineare la profondità di quella crisi per niente risolta. E che chissà in quale direzione avrebbe portato la politica italiana, come ha riconosciuto lo stesso Bodrato, se il dissenso del Pci non fosse rientrato per l’emergenza intervenuta col sequestro di Moro. Torno a chiedermi: valeva la pena sacrificare una vita -e per giunta             quella di Moro- in difesa di un equilibrio politico già così compromesso?

D’altronde, la cosiddetta “linea della fermezza”, che funzionò almeno come pretesto perché le brigate rosse potessero completare la strage cominciata in via Fani la mattina del 16 marzo, era stata contestata prima ancora che dal Psi di Bettino Craxi, all’interno della maggioranza, dal presidente della Repubblica Giovanni Leone. Il quale convocò apposta al Quirinale il segretario della Dc Zaccagnini per comunicargli personalmente il suo dissenso, come poi mi avrebbe raccontato anche nei dettagli in una intervista pubblicata sul Foglio nel ventesimo anniversario del sequestro di Moro. E pagò- poveretto- con dimissioni praticamente impostegli, dopo la conclusione della tragedia, quell’iniziativa tradottasi poi in una grazia predisposta motu proprio per  Paola Besuschio, presente nella lista dei 13 “prigionieri” con cui i terroristi volevano scambiare l’ostaggio.

Non fece in tempo, Leone, a firmare quella grazia perché preceduto la mattina del 9 maggio dai brigatisti rossi, chissà come e da chi informati con tanta tempestività di quanto stesse accadendo a rischio della loro disumana unità interna.

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