Enrico Letta alla difficile ricerca di un vaccino per il suo Pd

            In attesa che riprendano le vaccinazioni anti-Covid anche con AstraZeneca, il nuovo segretario Enrico Letta cerca un altro vaccino per mettere il Pd finalmente al riparo dal virus che ne insidia la salute sin dalla nascita, nel 2007. Che non è, o non è solo il virus delle correnti poltroniste, o poltronare, denunciato da Nicola Zingaretti dimettendosi all’improvviso da segretario addirittura per la “vergogna” avvertita di fronte alle condizioni di vita al Nazareno. E’ un virus identitario, prodotto dal sostanziale rifiuto di tutte le componenti di quel partito di guardare davvero in avanti, e non solo all’indietro, cioè alle loro provenienze, prevalentemente comunista e democristiana di sinistra, ma con venature anche liberali e ambientaliste.

            L’abitudine di guardare più indietro che avanti si è avvertita anche nelle generali reazioni alla scelta, appena compiuta dal nuovo segretario, dei due vice. Che sono, in ordine di galanteria e di gradi, la vicaria Irene Tenagli e Giuseppe Provenzano, Beppe per gli amici. Tutti, nonostante la giovane età di entrambi i nominati, l’una di 46 anni e l’altro di 38, si sono affrettati a spulciare le loro “provenienze”, appunto, per capire il nuovo corso del partito. E hanno attribuito la paternità politica della prima non so se più a Luca  di Montezemolo o a Mario Monti, e del secondo a Emanuele Macaluso. Pochi si sono soffermati sulle loro posizioni di fronte ai problemi, per esempio, sociali ed economici che attanagliano il paese, specie nella morsa di una pandemia non ancora domata. Dopo la la quale, comunque, niente potrà rimanere o tornare come prima.

            E’ attratto più dal passato che dal futuro anche chi a sinistra, fuori dal Pd da un po’ di tempo pur avendolo guidato, reclama novità come Pier Luigi Bersani. Che, intervistato da un giornalista di Repubblica sull’ipotesi di un “ritorno a casa”, ha risposto, sornione, che non vorrebbe creare all’amico Enrico, che gli fu vice segretario al Nazareno, un altro problema oltre a quelli che ha ereditato da Zingaretti. Ma poi, ricorrendo alle sue note e in fondo anche simpatiche iperboli amplificate dalle imitazioni di Maurizio Crozza, ha aggiunto: “A chi servirebbe una fusione di vertice? Non possiamo tirarci su per le stringhe delle scarpe da soli. Sarebbe un errore. Dove vanno soggetti troppo piccoli e deboli”, fra i quali il suo movimento “Articolo 1” inglobato nella sinistra dei liberi e uguali, “e un Pd che appare più respingente che attrattivo ?”, evidentemente anche dopo l’elezione del nuovo segretario.

            Ebbene, per non rischiare di impiccarsi, diciamo così, ai lacci delle sue scarpe, se ne usa appunto con le stringhe e non preferisce i mocassini, sapete che cosa Bersani è tornato a riproporre, come già nei giorni precedenti in alcuni salotti televisivi? La ricerca di un’altra, nuova “Cosa”, come Achille Occhetto da segretario chiamò la riedizione del Pci cercata dopo il crollo del muro di Berlino, cioè del comunismo.

           Benedetto Bersani, peraltro autore di quella famosa visione del partito come di una “ditta”, siamo ancora e sempre a quel punto? Ecco una domanda che penso si sia posto in silenzio anche Enrico Letta leggendo sui giornali e sentendo in televisione proposte, considerazioni, battute e quant’altro del suo amico Pier Luigi.

 

 

 

 

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Il buco sempre nero del sequestro Moro e quel nome ricorrente di Senzani

La notizia si trova come incidentale nella didascalia della foto di Sergio Mattarella, pubblicata a pagina 15 del Corriere della Sera, in raccoglimento davanti al monumento che ricorda in via Fani il sequestro di Aldo Moro, a 43 anni esatti dalla tragica operazione delle brigate rosse. Essa costò la vita subito ai cinque agenti della scorta, macellati dai proiettili, e dopo 55 giorni di prigionia allo stesso presidente della Dc.

“Intanto -si legge testualmente nella didascalia- nell’ambito di una nuova inchiesta della Procura di Roma sono stati prelevati campioni di Dna a più di 10 persone, tra le quali gli ex br toscani Giovanni Senzani e Paolo Baschieri”. Ancora Senzani, a 78 anni compiuti nello scorso mese di novembre, dei quali 17 trascorsi in carcere e 5 in libertà condizionata dopo essere stato condannato all’ergastolo per il sequestro e il delitto di Roberto Peci, fratello del brigatista pentito Patrizio, e per il sequestro dell’assessore regionale democristiano in Campania Ciro Cirillo? Sì, ancora Senzani in questo giallo interminabile che è il caso Moro. Su cui ormai si è perso il conto, diciamo così, delle indagini e dei processi: un giallo ancora più giallo di quello che negli Stati Uniti porta il nome dello storico presidente Jhon Fitzgerald Kennedy, assassinato a Dallas il 22 novembre 1963.

La notizia di quel clamoroso attentato soprese il povero Moro mentre trattava con i socialisti a Roma la formazione del suo primo governo di centrosinistra “organico”, cioè con la partecipazione dei socialisti sino ad allora impegnatisi solo a sostenere dall’esterno governi propedeutici a quella svolta. Ricordo ancora nitidamente, all’arrivo di quella notizia, il volto terreo di Moro, che certo non poteva neppure immaginare di dover pagare così tragicamente anche lui il suo  impegno politico dopo 15 anni.

Pur estraneo giudiziariamente al sequestro e alla fine spietata di Moro, essendo stato condannato come terrorista altolocato, diciamo così, per imprese successive all’agguato di via Fani, il nome di Senzani ricorre ogni tanto anche in quella vicenda per impulsi soprattutto parlamentari.

Fu un’indagine parlamentare sul caso Moro, appunto, in particolare da parte della commissione bicamerale sulle stragi presieduta da Giovanni Pellegrino, che ripropose il coinvolgimento di Senzani anche in quel sequestro. E ciò soprattutto dopo che un magistrato del prestigio e dell’esperienza antiterroristica come Tindari Baglione aveva risposto pressappoco così, in quella commissione, alla domanda se il rapimento di Moro dovesse essere attribuito più alla preparazione delle brigate rosse o alla impreparazione dello Stato: “Francamente non so, ma certo è che disponevamo dello stesso consulente”. E si riferiva appunto a Senzani, di cui egli si era occupato a Firenze proprio per fatti di terrorismo.

La commissione Pellegrino al termine dei lavori mandò le sue valutazioni e quant’altro alla Procura di Roma perché indagasse. Ma l’iniziativa si concluse, peraltro nei lunghi tempi consentiti dalla legge per questo tipo di indagini, con l’archiviazione. Intanto chi, come me, fattosi carico in qualche modo dei sospetti della commissione parlamentare auspicando un chiarimento del ruolo di Senzani nella vicenda Moro e raggiunto da una querela dell’interessato per diffamazione, aveva dovuto chiudere la causa col patteggiamento. Vi aveva contribuito un rifiuto pur amichevolmente oppostomi dall’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga di testimoniare sulla controversa circostanza di avere disposto  come  ministro dell’Interno di una consulenza pure di Senzani, appunto, nella gestione del sequestro Moro, fra il 16 marzo e il 9 maggio del 1978.

Dopo la commissione Pellegrino, sciolta nel 2001, intervenne sul caso Moro la commissione d’inchiesta parlamentare presieduta fra il 2014 e il 2017 da Giuseppe Fioroni, dove tornò come un fantasma ad essere evocata la figura di Senzani e furono elaborate ipotesi, tesi e quant’altro finite anch’esse all’esame della Procura di Roma. Nell’”ambito” delle cui indagini, come si legge nella didascalia della foto di Mattarella in via Fani sul Corriere della Sera, si deve presumere che siano stati eseguiti i prelievi di campioni di Dna a più di 10 persone, tra le quali appunto Senzani.  Ma fra le quali, secondo una ricostruzione dell’Huffington Post, si cercano anche sette partecipanti al sequestro, di nazionalità pure tedesca, sfuggiti alle pur tante e complesse indagini condotte in sede giudiziaria da quel dannato 16 marzo 1978, e alle ricostruzioni dei fatti da parte dei terroristi processati. Si riuscirà a venirne una buona volta a capo davvero? A saperlo….

Di certo c’è solo, o soprattutto, nella tragica vicenda del sequestro Moro che quanto più è passato il tempo più sono cresciuti i dubbi: non foss’altro quelli di carattere tutto politico, se non lo vogliamo definire morale, su uno dei due pilastri della cosiddetta linea della fermezza: da una parte la sicurezza dello Stato, certo, dall’altra la convinzione che Moro nelle sue lettere e nei suoi appelli dalla prigione “del popolo” contro quella linea non fosse pienamente consapevole di ciò che scriveva. Moro invece non difese sino all’ultimo soltanto la sua vita, ma anche le sue idee, la sua idea della politica. Ne fu convinto sin da allora, fra i pochi, il presidente della Repubblica Giovanni Leone predisponendosi a quella grazia ad una detenuta -Paola Besuschio- compresa nell’elenco dei 13 “prigionieri” con i quali i terroristi avevano proposto di scambiare l’ostaggio.

Leone non ebbe purtroppo il tempo di firmare la grazia perché i terroristi, evidentemente tanto informati quanto decisi a non di dividersi ancora sulla scelta della tragica soluzione finale del sequestro, affrettarono l’esecuzione della loro sciagurata sentenza di morte.  E Leone -circostanza inquietante non meno di tutto il resto della vicenda- fu costretto poi a chiudere in anticipo con le proprie dimissioni il mandato al Quirinale.

 

 

 

 

 

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