Il figlio di Aldo Moro apre col pensiero del padre al Pd di Enrico Letta

Avevo perso un po’ le tracce -e me ne scuso con l’interessato- di Giovanni Moro, il figlio del presidente della Dc assassinato dalle brigate rosse il 9 maggio 1978 dopo 55 giorni di penosa prigionia e quello sterminio della scorta, in via Fani, che un’esponente delle stesse brigate rosse, ospite di una trasmissione televisiva, avrebbe poi definito con orrore “una macelleria”. Come se non fosse stata macelleria anche quella improvvisata con l’ostaggio nel bagagliaio di quell’auto in cui i suoi aguzzini l’avevano messo per sparagli, inerme, a turno.

Insegnante di sociologia politica alla facoltà di scienze sociali dell’Università Gregoriana di Roma e autore di numerosi saggi sui temi a lui cari della cittadinanza attiva e della qualità della democrazia – che, ahimè, è rimasta “incompiuta” come il padre l’aveva drammaticamente lasciata morendo ucciso a 62 anni, mentre il figlio ne aveva solo 20- Giovanni Moro ha cercato di tenersi sempre lontano dai riflettori, anche nelle tante cerimonie celebrative del padre. Ed io sono rimasto un po’ fermo alle sue immagini di ragazzo, quando lo vedevo camminare con la mano in quella del padre. Che dalla cosiddetta prigione del popolo in cui lo tenevano rinchiuso i terroristi nel loro lungo braccio di ferro con lo Stato, ma ancor più in generale col senso profondo della vita e dell’umanità, aveva in qualche modo consigliato al figlio, forse già attratto allora dalla naturale propensione a seguire le orme del genitore, a tenersi lontano dalla politica che gli era stata così fatale.

Ho pertanto letto con un misto di sorpresa e di emozione l’articolo di Giovanni Moro che sotto forma di lettera, ma sistemato con la dignità di un commento vero e proprio nella pagina delle “idee”,  la Repubblica ha ospitato ieri col titolo felicemente significativo “Le parole che cerco nel Pd”. Al quale Giovanni, pur essendo ancora dichiaratamente “senza partito”, con tanto di virgolette, ha rivolto la sua attenzione non certo a caso “apprezzando i propositi del nuovo segretario” Enrico Letta. Che può ben considerarsene compiaciuto, più ancora -a mio avviso- del cambio al femminile propostosi ai vertici dei gruppi parlamentari, che mi sembra peraltro condiviso da Giovanni Moro con quella doglianza per  le diffuse “resistenze- ha scritto- a prendere sul serio la questione delle donne”. Come anche per “la ritrosia a trattare temi “divisivi connessi ai diritti civili o alla ridefinizione dello status legale della cittadinanza”. Che invece il nuovo segretario del partito ha sollevato nel sostanziale discorso di investitura, pur avendo a mio avviso sbagliato poi, per difendersi e quasi scusarsi di fronte alle critiche, anzi agli attacchi ricevuti all’esterno dal leader della Lega Matteo Salvini, di averne parlato per “soli venti secondi”. Per cui sarebbe stata esagerata tanta reazione negativa.

Il Pd, nato da una fusione “fredda”, diciamo così, fra i resti del Pci e della sinistra democristiana con tracce anche liberali e ambientaliste, attraversa dalla stessa fondazione, per le modalità in cui avvenne, una crisi d’identità in apparenza meno grave ma temo, in realtà, altrettanto grave come quella dell’ancora più improvvisato Movimento 5 Stelle, delle cui regole, vere o presunte, ha difficoltà a venire a capo anche un avvocato civilista e un giurista dell’esperienza accademica di Giuseppe Conte. E’  importante, o quanto meno significativo, il fatto che pur in queste condizioni il Pd riesca ad attirare l’interesse, e forse anche la voglia di parteciparvi, del figlio di Aldo Moro. Sul luogo del cui tragico sequestro, non dimentichiamo neppure questo, lo stesso Enrico Letta ha raccontato di essere stato portato ancora adolescente dal padre avvertendo emotivamente la voglia di fare politica da grande. E cominciò in effetti a farla nel liceo di Pisa dove studiava.

Poi, datosi alla politica completamente, egli crebbe alla scuola -guarda caso- di un moroteo come Beniamino Andreatta. Che Moro ai suoi tempi di governo usava sempre consultare prima di prendere decisioni in materia economica, anche senza seguirne sempre e necessariamente le indicazioni perché Andreatta abitualmente preferiva le soluzioni nette ai compromessi, cui invece Moro era obbligato dal carattere sempre composito delle sue maggioranze.

Nella sua analisi dei mali della politica –“l’abuso delle risorse pubbliche, la personalizzazione della leadership, la sostituzione della comunicazione alla stessa politica, il primato delle dinamiche interne ai gruppi dirigenti, la passione per le ormai famose poltrone”- il figlio di Moro li ha in qualche modo ricondotti tutti, o almeno in parte, a quelli già avvertiti dal padre negli “anni 70”. Le cui ansie di cambiamento “i gruppi dirigenti provenienti dal Pci e dalla sinistra democristiana” hanno rimosso “dimostrando nei fatti una piena continuità di cui dovrebbero invece preoccuparsi”, perché con “la scorciatoia di unire due debolezze” si riesce “raramente” a fare “una forza”. Sembra di leggere Aldo Moro.

 

 

 

 

 

Pubblicato sul Dubbio

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