Ciò che sta emergendo politicamente dalle polemiche sulla tragedia di Genova, dove è crollato quanto meno per incuria un viadotto autostradale “malato” da tempo provocando più di quaranta morti, appartiene alla serie delle bugie che hanno le gambe corte. O dei mali che non vengono tutti per nuocere, servendo a volte anche a smascherare verità scomode. Che nel nostro caso non sono soltanto quelle dei favori veri o presunti fatti da una lunga serie di governi, di centrodestra e di centrosinistra, alla famiglia Benetton e alle loro società che gestiscono buona parte delle autostrade italiane. Ora è anche chiaro, ancora più chiaro del trattamento certamente discutibile riservato agli imprenditori trevigiani, il progetto statalista che unisce e al tempo stesso divide la maggioranza di governo grigioverde, nata per “cambiare” ma in realtà tentata dalla restaurazione di un sistema ripudiato con le privatizzazioni.
Più che toglierle alla famiglia Benetton, senza aspettare “i tempi della giustizia”, come si è lasciato scappare il pur giurista -da curriculum- Giuseppe Conte, catapultato a Palazzo Chigi dall’aspirante grillino che non ce l’aveva fatta ad arrivarvi lui direttamente, cioè Luigi Di Maio, sotto le 5 stelle vogliono assegnare la gestione delle autostrade allo Stato. E poiché lo Stato “ormai siamo noi”, come lo stesso Di Maio ha detto arrivando al governo e invitando i militanti stradali e digitali del suo movimento a smetterla di praticare l’opposizione, sarà il nuovo potere gialloverde a gestire autostrade e quant’altro, come forse l’Alitalia, la nuova Ilva e chissà cos’altro.
L’operazione, cavalcando anche i morti a Genova, si è fatta così scoperta, direi sfacciata, che sono emerse sorprese e perplessità anche all’interno della maggioranza, e persino dei due partiti che la compongono. Persino tra i grillini si cominciano a sentire voci dissidenti rispetto ai propositi statalisti orgogliosamente annunciati da Di Maio e dal ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli, oltre che tra i leghisti. Il cui maggiore elettorato di riferimento è al Nord, non al Sud abituato purtroppo da tempo a vivere di assistenzialismo. E dove non a caso i grillini hanno letteralmente sbancato i seggi elettorali promettendo il reddito di cittadinanza e altre varianti delle vecchie e giustamente bistrattate pensioni false di invalidità. Non parliamo poi, sempre al Sud, il mio Sud, dei lavori farlocchi, come quello di appiccare fuochi per poi spegnerli o farli spegnere da altri. Vogliamo parlarne un po’ seriamente?
Tra i leghisti, a perdere la pazienza davanti alla deriva statalista della maggioranza grigioverde è stato addirittura il sottosegretario a Palazzo Chigi Giancarlo Giorgetti, messo lì da Salvini per controllare la situazione con la sua riconosciuta e provata competenza. Ma Salvini, specie da quando i piddini hanno potuto documentare dai banchi dell’opposizione la sua personale partecipazione, tra le poche comparse nel Parlamento nazionale, prima che emigrasse a Strasburgo, all’approvazione di una legge nota addirittura come “salva-Benetton”, sembra in difficoltà a seguire o condividere le proteste antistataliste del suo Giorgetti. Egli è in imbarazzo sia con quest’ultimo che con i grillini, ma forse di più con Di Maio avendo realizzato con lui in questi mesi una coppia politica di successo, visti i selfie che entrambi raccolgono dappertutto, alle feste e ai funerali.
In queste condizioni vengono un po’ i brividi a vedere la vignetta di Emilio Giannelli sulla prima pagina del Corriere della Sera, dove il vice presidente leghista del Consiglio e ministro dell’Interno viene rappresentato con la palla in mano come giocatore e arbitro anche della partita delle nazionalizzazioni, o rinazionalizzazioni, convinto che possa e debba dettarne lui “le regole”.
Non so se La Stampa abbia peccato più di ottimismo o di ingenuità scommettendo in apertura della sua prima pagina sul no al ritorno di Autostrade allo Stato, che starebbe prevalendo nel governo dopo le forti spinte iniziali di Di Maio e Toninelli per la nazionalizzazione. Certo è che il quadro politico partorito dalle elezioni del 4 marzo scorso si è fatto paradossale. Nessuno poteva francamente immaginare, preferendo una soluzione positiva della crisi alle elezioni anticipate, che destra e sinistra potessero mescolarsi così disordinatamente da tornare all’antico della destra illiberale e della sinistra arcaica, accomunate proprio dal feticcio dello statalismo e da garantire agli italiani il ritorno, magari, del panettone di Stato sulle loro mense natalizie. E anche delle conserve, dei cioccolatini e della pasta statale.
Volete che con questi chiari di luna gli investitori possano sentirsi incoraggiati ad acquistare i titoli del debito pubblico italiano? Se ne guarderanno bene per paura, non per “complotto”, come hanno gridato insieme Salvini e Di Maio, o viceversa, promettendo di rompere le reni ai mercati, come ai suoi tempi Mussolini alla Grecia.