Matteo Salvini ha “affinato” il suo piano: non le dimissioni e una crisi, ma peggio

            E’ stato paradossalmente ottimista chi ha visto, temuto o auspicato, secondo i gusti, il proposito di dimettersi e di provocare la crisi di governo dietro le sfide del vice presidente leghista del Consiglio e ministro dell’Interno a quanti sono tentati di intervenire, fra il Quirinale e Palazzo Chigi, per sbloccare a Catania, come a Trapani il mese scorso, i migranti bloccati sul pattugliatore della Guardia Costiera italiana Ubaldo Diciotti. Dove sono rimasti in 150, dopo lo sbarco di 27 minori senza accompagnamento autorizzato da Matteo Salvini, in diretta facebook, accogliendo le sollecitazioni giudiziarie, che sono però rimaste inevase per il resto, comprese 11 donne. Della cui posizione sanitariamente ed emotivamente molto critica, appena verificata di persona, si è fatta paladina sul molo di Catania  l’ex presidente della Camera Laura Boldrini gridando a Salvini, davanti a una telecamera de la 7: “Se è ancora un uomo le faccia sbarcare”.

            Salvini, che aveva ricordato il rovescio politico proprio della Boldrini per irridere la posizione critica assunta sul blocco del pattugliatore Diciotti anche dal presidente grillino della Camera Roberto Fico, ha messo a punto la sua strategia, o tattica, precisando che non si dimetterà se il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, da solo o su sollecitazione del capo dello Stato, consentirà lo sbarco dei migranti a dispetto degli ordini del Viminale.

            Ciò significa che la crisi politica immaginata o perseguita dal leader leghista è di quelle striscianti, sistemiche, ancora più dure delle dimissioni di un ministro dell’Interno e di una caduta del governo. E’ una crisi nella quale tutti rimangono al loro posto per cercare di logorare gli altri: Salvini prendendosi il merito -visti i sondaggi che continuano a premiarlo- della linea dura contro gli sbarchi e i grillini, col presidente del Consiglio stimolato o no -ripeto- da Sergio Mattarella, il demerito di un cedimento impopolare.

            I grillini, il cui imbarazzo è evidenziato dall’allontanamento dei fatti di Catania dal blog del loro movimento, e anche da quello personale del comico genovese, cercano di sottrarsi alla tenaglia del loro alleato  di governo condividendone gli attacchi all’Unione Europea. Cui risalirebbe la responsabilità del blocco del pattugliatore della Guardia Costiera per il rifiuto o il silenzio opposto alla richiesta di distribuirne il  carico umano fra più paesi.

            Il vice presidente pentastellato del Consiglio Luigi Di Maio ha minacciato il rifiuto dell’Italia di pagare le quote annuali all’Unione, da lui indicate in 20 miliardi, che risultano peraltro ridotti a 6 in una intervista di Salvini al Corriere della Sera. Nella quale il leader leghista ha anche annunciato, dalla località trentina in cui è in vacanza, un incontro “nei prossimi giorni” a Milano col premier ungherese Viktor Orbàn sperando di ricavarne un grosso aiuto a cambiare le cose.

            Salvinipg.jpgIn verità, l’amico ungherese di Salvini è fra i più decisi nei paesi dell’ex blocco sovietico ora soci dell’Unione Europea a rifiutare l’assunzione di quote di immigrati. Ma Salvini, liquidato con epiteti pesantissimi da Massimo Cacciari proprio per i suoi assai curiosi interlocutori privilegiati in Europa in nome del sovranismo, ha chiarito di aspettarsi altro da Orbàn e simili: l’aiuto a cambiare le regole che impediscono, nel caso di Catania, di fare ripartire la  nave Diciotti in direzione della Libia per sbarcarvi i migranti soccorsi fra Malta e Lampedusa.

            Ma le regole che impediscono a Salvini in caso estremo di risolvere il problema in questo modo, ammesso e non concesso che egli trovi tutti gli interlocutori necessari ad aiutarlo nell’Unione, non sono solo di carattere e natura europea. Lo dimostra la protesta levatasi dall’Onu per gli “ostaggi” trattenuti a Catania da Salvini. Che probabilmente non saprà resistere alla tentazione di dichiarare guerra, per quanto fortunatamente a parole, anche alle Nazioni Unite contando sulla scarsa popolarità che esse si sono guadagnate da tempo nel mondo. Pertanto egli potrebbe trovare anche in questa offensiva aspetti utili ai suoi progetti politici ed elettorali in Italia.

 

 

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Claudio Petruccioli riapre lo scrigno del compromesso storico di Enrico Berlinguer

Delle numerose rievocazioni dell’agosto 1968, a cinquant’anni dalla fine della famosa primavera politica nell’allora Ccecoslovacchia, liquidata da Leonid Breznev col ripristino armato dell’ordine sovietico a Praga, la più solida e utile ad una lettura completa di quegli eventi, e dei loro effetti sulla sinistra italiana, è stata quella di Claudio Petruccioli a Carlo Fusi per Il Dubbio.

Lo scrivo non per amicizia verso gli autori, o per orgoglio o vanità di testata, ma per onestà professionale, avendo per la prima volta colto nel racconto e nell’analisi di un testimone comunista di quei fatti stimoli di riflessione in cui mi sono ritrovato, per giunta con spirito autocritico rispetto alle convinzioni che mi ero fatto seguendo negli anni Settanta, immediatamente successivi all’invasione sovietica della Cecoslovacchia, le vicende della politica italiana, e quelle della sinistra in particolare.

Non sono più convinto del tutto, per esempio, dopo il racconto e le riflessioni che Petruccioli ha maturato con una dichiarata ricerca negli “archivi”, oltre che nella propria memoria, che la prospettiva  berlingueriana del famoso “compromesso storico”, traducibile in parole povere nella ricerca di un’intesa  anche di governo tra la Dc e il Pci, fosse solo o principalmente in funzione antisocialista. E ciò anche se rimango persuaso, anzi ancor più dopo le riflessioni di Petruccioli, del carattere pretestuoso del richiamo di Berlinguer, a sostegno di quella prospettiva, all’epilogo drammatico dell’esperienza della sinistra al governo in Cile. Dove nel 1973, l’anno successivo all’elezione di Enrico Berlinguer alla segreteria del Pci, che di fatto guidava già da qualche anno affiancando Luigi Longo come vice, i militari cileni rovesciarono con la forza Salvatore Alliende bombardandone l’ufficio,  provocandone il suicidio, o ammazzandolo direttamente, e chiudendo col regime del generale Pinochet una fase di tensioni politiche e di paralisi del Cile.

Berlinguer.jpg Il segretario generale del Pci, pur essendo le situazioni politiche del Cile e dell’Italia molto diverse, ritenne di poterle in qualche modo assimilare sostenendo che neppure da noi una sinistra avrebbe potuto governare avendo contro mezzo Paese ancora raccolto attorno alla Dc, peraltro non ancora indebolita dalla sconfitta nel referendum del 1974 sul divorzio, e ai tradizionali alleati del campo moderato. Anche l’Italia insomma avrebbe potuto fare la fine del Cile, pur non esistendo da noi neppure l’ombra, francamente, di un generale Pinochet.

L’unico generale italiano al quale erano stati attribuiti, nell’estate del 1964, propositi paragolpistici, che peraltro procurarono condanne giudiziarie ai giornalisti che glieli avevano attribuiti, era stato Giovanni De Lorenzo, comandante generale dei Carabinieri e già capo dei servizi segreti. Che, in verità, si era limitato durante la crisi del primo governo organico di centrosinistra presieduto dal democristiano Aldo Moro a garantire al capo dello Stato Antonio Segni, democristiano pure lui, l’esistenza delle necessarie condizioni di sicurezza se si fossero verificati disordini in caso di formazione di un governo con l’esclusione dei socialisti.

Pietro Nenni, il leader del Psi che affiancava Moro a Palazzo Chigi come vice presidente del Consiglio, avvertì e annotò in quei giorni nei suoi diari gli ormai famosi “rumori di sciabole”. Da lì a temere dopo nove anni, nel 1973, e sull’onda dei fatti del lontanissimo Cile, che anche in Italia si sarebbe rischiato un colpo di Stato militare, o qualcosa di simile, col sostegno dei soliti americani in caso di vittoria della sola sinistra, francamente ce ne voleva. Ecco perché di fronte ai saggi sulla proposta del “compromesso storico” con la Dc affidati da Enrico Berlinguer al settimanale comunista Rinascita pensai che il segretario del Pci diffidasse a tal punto dei socialisti, allora peraltro neppure guidati dal poi temutissimo Bettino Craxi, da preferire come interlocutori privilegiati i democristiani.

Ebbene, anche Petruccioli ha notato, rovistando nella propria memoria e negli archivi, che sino ai fatti di Praga del 1968 i due argomenti prevalenti o unici di ogni riunione della direzione o altri organismi importanti del Pci erano stati sistematicamente i rapporti col comunismo internazionale e quelli col Psi al governo con la Dc nei governi di centrosinistra. Dopo l’invasione sovietica della Cecoslovacchia, pubblicamente deplorata dal Pci guidato da Luigi Longo “senza però mettere mai in discussione -ha osservato onestamente Petruccioli- i rapporti tra Pci e Pcus”, perché quella scelta di campo rimase irrinunciabile, il problema dei rapporti con i socialisti in Italia perse curiosamente interesse fra i comunisti, o calò sino a non lasciarne tracce, almeno di rilievo, negli archivi.

Eppure proprio nel 1968 si era registrato il sostanziale fiasco elettorale dell’unificazione fra socialisti e socialdemocratici, temuta sia dai comunisti sia dai democristiani. E il Psi, riconsumatasi nel 1969 la scissione con i socialdemocratici, era entrato in una grande crisi di prospettiva politica. Una crisi che si prolungò sino all’esaurimento del centrosinistra, con l’annuncio del segretario Francesco De Martino, tra la fine del 1975 e l’inizio del 1976, che mai più i socialisti sarebbero tornati al governo con i democristiani senza la partecipazione o l’appoggio dei comunisti.

Come mai in quelle condizioni, pur non così eplicitamente descritte da Petruccioli, cui è apparsa invece più significativa l’insufficiente o mancato sostegno dei comunisti alla candidatura di Aldo Moro al Quirinale alla fine del 1971, per cui finì eletto Giovanni Leone con una maggioranza di centrodestra, l’interesse del Pci verso il Psi calò o cadde del tutto? Il  sospetto di Claudio, che ha stimolato anche me, è che dopo l’invasione sovietica della Cecoslovacchia, più che dalla diffidenza o dal rancore verso i socialisti, che pure sarebbero stati conformi alla lunga e tormentata storia dei rapporti fra le due maggiori componenti storiche della sinistra mondiale, e non solo italiana, Berlinguer fosse preso dalla preoccupazione e dalla delusione per la condotta e la linea del partito comunista sovietico. Da cui le nuove generazioni del Pci si aspettavano, pur dopo gli errori compiuti a Praga, una capacità e volontà di evoluzione pari a quella avuta dagli americani di fronte al dramma del conflitto vietnamita. Dal quale gli Stati Uniti ebbero il coraggio di sganciarsi proprio dopo il 1968, l’anno dei grandi cambiamenti.

“Se le cose stanno così”, fa dire Claudio Petruccioli a Berlinguer nell’intervista a Carlo Fusi, se cioè l’Unione Sovietica rimane ferma sulle sue vecchie posizioni contando sulla incapacità dei partiti comunisti occidentali di non mettere davvero in discussione il campo di appartenenza internazionale, “l’autonomia del Pci tanto ricercata ma così difficile da ottenere può essere meglio sostenuta sulla scorta di un rapporto politico di governo con la Dc”. E ciò anche a costo di lasciarle compiere, senza crearle troppi problemi, l’errore di precludere il Quirinale a Moro.

Più che troppo inviso al Pci, insomma,  il Psi -mi è parso di capire dalle riflessioni di Petruccioli- sarebbe stato troppo debole nel contesto interno e internazionale per mettere al sicuro l’autonomia cui aspirava il partito delle Botteghe Oscure.

“E’ solo un’intuizione da verificare. Se fosse così -ha detto Petruccioli- l’ombra di quel 21 agosto di 50 anni fa”, quando i carri armati dei paesi del blocco sovietico costituito dal patto di Varsavia occuparono la Cecoslovacchia,  ”si allungherebbe su tutta la storia politica nazionale, non solo sui rapporti fra il Pci e Mosca.

Resta tuttavia a sostegno residuo dei mei dubbi o sospetti originari una circostanza lamentata a suo tempo nel dibattito all’interno al Pci da Giorgio Napolitano e dai suoi compagni “miglioristi”, la circostanza della sostanziale discriminazione dei socialisti voluta o permessa nell’estate del 1976, quando la prospettiva del compromesso storico si materializzò nella versione ridotta della maggioranza di cosiddetta solidarietà nazionale.

Allora, avendo come sponde nella Dc Aldo Moro e Giulio Andreotti, il segretario del Pci arrivò prima all’astensione e poi alla fiducia parlamentare vera e propria, negoziata attorno a un programma, ad un governo monocolore democristiano. Non si trovò spazio per ministri anche di un Psi che pure aveva liquidato il governo bicolore Dc-Pri guidato da Aldo Moro, e provocato le elezioni anticipate, dicendo che mai sarebbe tornato a governare con i democristiani, come ho già ricordato, senza la partecipazione o l’appoggio dei comunisti.

Fu proprio il comportamento sostanzialmente discriminatorio verso i socialisti in quella stagione, unito al minimo storico da loro toccato nelle elezioni del 1976, a provocare la caduta della segreteria di Francesco De Martino e l’arrivo di Craxi alla guida del Psi, col dichiarato proposito “prima di sopravvivere e poi di filosofare”. E la filosofia si tradusse in una forte, inarrestabile spinta autonomistica che, unita alla tragedia del sequestro e dell’assassino di Aldo Moro ad opera delle brigate rosse, avrebbe finito per liquidare anche la parentesi della “solidarietà nazionale” e restituire i comunisti all’opposizione.

 

 

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