La Lega spiazzata dagli avversari che ne cantano la vittoria elettorale

            Ripetuto anche a livello locale -dal Piemonte, dove ha fatto conquistare la regione al centrodestra, a Lampedusa, dalla fascia ormai ex rossa dell’Emilia-Romagna, dove è diventato il primo partito come nel resto del Nord, a Capalbio, la ex Atene della sinistra scic, e via saltando da Capalbio.jpgun punto all’altro dell’Italia- il successo elettorale della Lega sembra avere dato la testa più ai giornali che l’avevano più o meno duramente avversata nella campagna elettorale che al suo leader Matteo Salvini. Di cui titoli e vignette -a cominciare da quella di Emilio Giannelli sul Corriere della Sera, che lo rappresenta come Superman che svetta mentre Luigi Di Maio precipita- danno l’immagine del padrone ormai di tutto: dall’”agenda” MESSAGGERO.jpgdel governo alle chiavi di casa nostra, non bastandogli più le coste così a lungo difese dall’assalto dei migranti, i nuovi pirati, e dalle “interferenze” dei magistrati ancora convinti, secondo il capo leghista, di poter fare politica con le loro ordinanze e sentenze senza farsi prima eleggere dai cittadini.

            Vi è qualcosa di obiettivamente esagerato in questa rappresentazione dei risultati elettorali di domenica: sia nel successo innegabile, per carità, di Salvini, sia nell’insuccesso, anch’esso innegabile, dei grillini, scavalcati nelle loro sedute o riunioni di analisi dal Fatto Quotidiano con quel titolo di prima pagina Il Fatto.jpgche li spinge all’opposizione: cioè al suicidio, più rapido di quella lunga morte scelta l’anno scorso alleandosi per il governo con i leghisti, anziché spingere -si deve presumere, stando al ragionamento di Marco Travaglio- per le elezioni anticipate. Con le quali essi avrebbero potuto tentare di passare dal 32 al 40 per cento, anziché precipitare al 17, com’è avvenuto dopo poco più di un anno di inebriante potere, alla media non so di quante nomine al giorno e di quanti annunci di conquiste di casematte e cose del genere.

            Lo spettacolo dell’informazione politica è sempre o generalmente desolante nei passaggi cruciali del nostro Paese, come si vide già ai tempi di “Mani pulite” e di tutto ciò che ne conseguì:  sempreGazzetta.jpg o generalmente sopra le righe, per moltiplicare sia il successo del vincitore sia l’insuccesso dello sconfitto di turno. E non è solo questione di volere saltare sul classico carro del trionfatore, ma anche di masochismo.

            I grillini e i loro sostenitori residui, verrebbe voglia di dire, continuano a sottovalutare il soccorso che può venire loro dagli ostacoli procurati nel centrodestra da Silvio Berlusconi in persona a Salvini contestandogli la leadership di quel campo, a vantaggio per ora dell’ormai ex presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani, forse in attesa che diventi ex anche il presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi. Che d’altronde è stato già indicato dal Cavaliere nella campagna elettorale come una preziosa riserva della Repubblica  fra le proteste di Giorgia Meloni, probabilmente cresciuta di voti proprio per quelle sue reazioni.

            Salvini potrà anche avere già dato “i 30 giorni a Di Maio”, e a Giuseppe Conte, annunciati in primaRepubblica.jpg pagina da Repubblica;  può avere anche incassato “un voto della Madonna”, sparato Il Foglio.jpgin rosso sulla prima pagina dal Foglio che lo soprannomina “il Truce” con quella sinistra rima col Duce; può anche fare da ministro ormai dell’Intero, rolli.jpganziché dell’Interno, un mazzo così a chi gli capita a tiro;  può anche divertirsi a leggere persino sul Giornale della famiglia di Berlusconi il sorpasso eseguito sul CavaliereIl Giornale.jpg anche nei voti di preferenza nella scalata al seggio di Strasburgo, cui peraltro dovrà rinunciare per una incompatibilità che curiosamente non scatta nel momento della candidatura, con quanto poco rispetto per gli elettori è evidente; ma quando verrà l’ora di decidere davvero sulle sorti del governo gialloverde, cioè ogni volta che i grillini dovessero davvero resistergli come un “argine”, ribadito da Di Maio e dallo stesso Salvini liquidato come un’espressione “emotiva”, il leader leghista si chiederà che cosa davvero lo aspetti ad Arcore e dintorni. E forse si guarderà bene dall’avvicinarvisi.

 

 

 

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Anche il santino scalfariano di Berlinguer “liberale” può avere aiutato il Pd nelle urne

C’è voluta una settimana, ma alla fine con l’autorevolezza della sua lunga cultura e militanza marxista Rossana Rossanda ha contestato sabato scorso sul manifesto, rigorosamente al minuscolo nella elegante grafica della testata orgogliosamente comunista, il santino “liberale” di Enrico Berlinguer composto da Eugenio Scalfaro su Repubblica nell’ultima domenica della campagna elettorale, il 19 maggio.

“Mi permetto di osservare -ha scritto Rossanda parlando del segretario del Pci morto ne1984- che egli non avrebbe accettato la definizione di “liberale” che ne dà Scalfari”, spintosi ad associarlo ai fratelli Rosselli di Giustizia e Libertà, a Francesco De Sanctis, Benedetto Croce e Ugo La Malfa.

La parola “liberale”, secondo la Rossanda, “ha un significato molto preciso nel secolo scorso e non è così che Berlinguer si sarebbe definito”, essendo consistita la sua “diversità” nella condizione di “comunista di un tipo particolare”.

Al massimo, sempre secondo la Rossanda, che avanza il benevolo sospetto che Scalfari potesse  alludervi nel suo “ricordo molto amichevole” e liberale, appunto, dello scomparso leader comunista, Berlinguer coltivò “la speranza di poter modificare in modo non oppressivo le regole della vita interna del partito”.

Ma se questa fu davvero la speranza di Berlinguer, “non gli fu possibile” realizzarla “per l’avversione della maggior parte del partito”, ha ricordato la Rossanda senza bisogno di rifare esplicitamente, perché notissima, la storia della “radiazione” dal Pci, nell’autunno del 1969, dei dissidenti proprio del gruppo costituitosi attorno all’allora mensile manifesto: lei in testa con Aldo Natoli, Luigi Pintor, Lucio Magri. Cui si unirono poi Luciana Castellina, Valentino Parlato e a altri.

Le 50 mila copie vendute dal primo numero della rivista furono per i dirigenti del Pci, e le loro abitudini, una provocazione intollerabile. Occorreva che i dissidenti, polemici sui rapporti rossanda.jpginterni e su quelli con l’Unione Sovietica e gli altri paesi dell’est, specie dopo le tragedie, fra l’altro, dell’Ungheria e della Cecoslovacchia, abiurassero da soli dando quella che proprio Berlinguer definì con loro “una prova di fedeltà”. Mancata la quale, il malandato segretario del partito Luigi Longo, cui lo stesso Berlinguer era stato affiancato per succedergli nel 1972, avviò la procedura della radiazione. Che fu completata dal Comitato Centrale, su relazione di Alessandro Natta, con i voti contrari dei soli Cesare Luparini, Lucio Lombardo Radice e Fabio Mussi. Neppure, o soprattutto, come preferite, Pietro Ingrao volle sostenere i dissidenti, pentendosene anni dopo ma sentendosi allora “tradito” addirittura da loro.

Iscritto d’ufficio Berlinguer ai liberali per poterlo evocare a ridosso delle elezioni europee del 26 maggio come “padre o nonno” del Pd, Scalfari può tuttavia vantarsi di avere in qualche modo contribuito a procurargli nelle urne una parte dei guadagni vissuti giustamente dal segretario Nicola Zingaretti come una ripresa importante, dopo la debacle renziana dell’anno scorso.

 

 

 

Pubblicato su  Il Dubbio

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