Incredibile gaffe di Matteo Renzi al Quirinale nelle consultazioni per la crisi

         Diavolo di un uomo, Matteo Renzi ne ha fatta un’altra delle sue, reduce da una trasferta a Riad che ha acceso la fantasia del manifesto con quel titolo “L’arabo fenice”.  Egli ha offerto il fianco a tutti i suoi avversari, che peraltro non sono pochi e spesso sono persino sorpresi dalla palla che ricevono da lui in questa interminabile partita della crisi di governo formalizzatasi con le tardive dimissioni dal presidente del Consiglio. Che avrebbero potuto bastare al leader di Italia Viva per cantare vittoria. Invece non sono bastate. E non è bastata neppure una telefonata di mezz’ora ricevuta prima di salire al Quirinale per le consultazioni da Giuseppe Conte, che pure si era proposto più o meno pubblicamente di non avere più rapporti con lui per l’asprezza delle critiche ricevute, e dell’accusa di essere ormai un “vulnus” per la democrazia.

             Che cosa ti fa a questo punto Renzi, dopo essersi peraltro vantato della telefonata rivelandola? Va da Sergio Mattarella e gli chiede di non dare l’incarico per la formazione di un nuovo governo a Conte perché prima va verificata con un mandato esplorativo, preferibilmente al presidente grillino della Camera Roberto Fico, la disponibilità degli stessi grillini e del Pd a ricostituire davvero una maggioranza con i renziani. Ma, sant’Iddio, Mattarella stava per consultare proprio la delegazione del Pd guidata dal segretario Nicola Zingaretti in persona e aveva già fissato per oggi la consultazione con la delegazione del Movimento 5 Stelle.

             La richiesta di un esploratore ad hoc, sottintendendo un giudizio quanto meno di insufficienza sulle capacità consultorie di Mattarella, può ben essere considerata una gaffe istituzionale, politica e umana nei riguardi del Capo dello Stato. Che, se non ha reagito mandandolo sull’istante a quel posto, trattenuto forse solo dal ricordo di essere stato politicamente mandato al Quirinale proprio da Renzi nel 2015 col lancio della sua candidatura, anche a costo di rompere il famoso  “patto del Nazareno” con Silvio Berlusconi, ha dimostrato di essere un Giobbe dei nostri tempi.

          Non so che cosa farà il presidente della Repubblica alla conclusione odierna delle consultazioni: se supererà o no la pazienza di Giobbe conferendo un incarico esplorativo a Fico, o a qualcun altro, come già si aspetta qualche giornale, o no. Penso di poter immaginare, avendolo conosciuto e frequentato, cosa avrebbe fatto Sandro Pertini. Che credo sia stato, nonostante il suo cattivo carattere, di cui peraltro si vantava, il più popolare dei presidenti della Repubblica.

          Pertini avrebbe conferito a Conte, smanioso di riceverlo, l’incarico di tentare la soluzione della crisi con la formazione di un nuovo governo. E avrebbe così sfidato Renzi ad assumersi nelle trattative del presidente reincaricato la responsabilità di un veto che non ha avuto il coraggio di porre chiaramente nelle consultazioni al Quirinale. Che non è ancora o soltanto un museo ma la sede della Presidenza della Repubblica, con tanto di bandiere al vento, quando soffia, e di corazzieri splendenti.

             Peccato che l’ex presidente del Consiglio riesca così spesso a condurre male le sue pur giuste battaglie, come accadde nel 2016 con la sua apprezzabile riforma costituzionale personalizzando rovinosamente il referendum confermativo e trasformandolo in un plebiscito sulla sua leadership. Un vero peccato o, se preferite, uno spreco di energie e occasioni.

 

 

 

 

 

 

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La politicizzazione della giustizia è sopravvissuta all’emergenza invocata nel 1992

Anche Rosilde Craxi, la compianta sorella di Bettino e moglie dell’allora sindaco di Milano Paolo Pillitteri, usava commentare l’esplosione di Tangentopoli, nel 1992, vedendo negli eccessi della magistratura, tra retate di arresti e raffiche di avvisi di garanzia spesso destinati neppure a sfociare in rinvii a giudizio, che la politica raccoglieva i frutti dei gravi errori commessi durante gli anni del terrorismo. Allora in effetti la politica spesso non aveva preceduto ma seguito l’azione giudiziaria, alimentando l’impressione che fossimo venuti a capo capo di quella tragica stagione per merito soprattutto dei magistrati. Che avevano lasciato peraltro sul campo, quasi a dimostrazione dell’assunto, più vittime dei politici, anche  se non celebri come le seconde, specie col sequestro e infine l’assassinio di Aldo Moro, nel 1978.

Ne parlai una volta con Bettino nella sua casa di Hammamet e lo trovai agguerrito nella reazione, anche se stava confutando una tesi della sorella, e dandomi l’impressione che ne avesse già discusso direttamente con lei. Egli sostenne, in particolare, che quella del terrorismo fosse stata un’emergenza reale, e terribile, nella quale si poteva in qualche modo considerare inevitabile una reazione giudiziaria più tempestiva di quella politica. Sarebbe stata invece tutta montata, mediaticamente e giudiziariamente, l’emergenza “morale” invocata per giustificare dal 1992 in poi l’applicazione quanto meno anomala dei codici penale e di procedura penale, abusando a tal punto, per esempio, dell’arresto durante le indagini preliminari da fare sbottare anche un ex magistrato come l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, peraltro ministro dell’Interno nei suoi governi, fra il 1983 e il 1987.

In effetti, come ho già ricordato evocando i precedenti della crisi politica in corso, inciampata anch’essa sui temi della giustizia, essendo scoppiata in tempo per evitare uno scabroso dibattito parlamentare sulla relazione annuale del guardasigilli grillino Alfonso Bonafede, nel 1994 il presidente della Repubblica non mosse obbiezione alcuna ad un decreto legge varato dal primo governo di Silvio Berlusconi, ancora fresco di nomina, per dare una stretta alle cosiddette custodie cautelari.

Eppure c’era il sospetto, a torto o a ragione, che quel decreto fosse stato accelerato dal governo per prevenire l’arresto, che era in aria, di Paolo Berlusconi, il fratello del presidente del Consiglio. Scalfaro firmò ugualmente senza battere ciglio, sorprendendo i magistrati di Milano, che poi protestarono minacciando pubblicamente le dimissioni. Ad essi invece il presidente della Repubblica si era accodato -pace all’anima sua- l’anno prima rifiutando la firma ad un decreto legge predisposto dal primo governo di Giuliano Amato per la cosiddetta uscita politica da Tangentopoli: provvedimento che pure era stato concordato col Quirinale, articolo per articolo, o addirittura comma per comma, tra numerose interruzioni di un Consiglio dei Ministri poi raccontato come testimone da Sandro Fontana, il compianto ex direttore del giornale ufficiale della Dc Il Popolo.

In esecuzione del decreto Biondi, dal nome del ministro della Giustizia del primo governo Berlusconi, furono scarcerati  numerosi detenuti, nonostante le proteste dei magistrati della Procura ambrosiana. Ad arenarlo, con la rinuncia alla sua conversione in legge, e a condividere quindi le proteste delle toghe milanesi, provvide invece la Lega di Umberto Bossi. Che ordinò personalmente al pur riluttante ministro dell’Interno Roberto Maroni, peraltro avvocato, di dichiarare di non avere letto o capito bene il decreto prima di firmarlo con il guardasigilli, o addirittura di avere firmato qualcosa di diverso da quello poi visto sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica. Berlusconi abbozzò, senza peraltro riuscire a sottrarsi ad una crisi che sarebbe scoppiata dopo alcuni mesi, sempre per iniziativa della Lega ma sul tema pensionistico reso incandescente dalle proteste dei sindacati contro una riforma in cantiere.

L’emergenza morale invocata, e condivisa da quasi tutti i giornali, i cui cronisti giudiziari si scambiavano le notizie come in un pool per una rappresentazione univoca delle indagini che asfaltavano i partiti di governo della cosiddetta e morente prima Repubblica, era a dir poco discutibile per il semplice fatto che la politica costava alla luce del sole almeno dalle dieci alle cento volte di più di quanto previsto dalla legge sul finanziamento pubblico dei partiti. All’improvviso si decise di contrastarne durissimamente le dimensioni e i metodi illegali, in una carneficina mediatica dalla quale si salvarono, e neppure del tutto, solo i comunisti o già post-comunisti per la ferrea disciplina, reticenza e complicità cui erano abituati. Ricordo il nome  “Gabbietta” del conto di un celebre raccoglitore di fondi del Pci e poi Pds-ex Pci, che divenne un mito fra i militanti nei congressi e nelle feste dell’Unità. Si chiamava Primo Greganti.

Una conferma involontaria alla interpretazione o rappresentazione di Craxi del marasma politico scatenato dalle iniziative giudiziarie nel 1992 e anni successivi,  è venuta dopo la morte del leader socialista, di cui è ricorso in questi giorni il ventunesimo anniversario, da una fonte insospettabile: l’ultimo segretario del Pci e primo del Pds-ex Pci Achille Occhetto. Il quale, evocando qualche tempo fa la fatica da lui fatta per salvare il suo partito dal crollo del muro di Berlino, si è lasciata scappare una confessione tanto onesta quanto tragica per capire e valutare quegli anni.

In particolare, Occhetto riconoscendo che si pose allora il problema assai difficile di ridisegnare la sinistra con un Craxi inviso a gran parte della base comunista -anche perché con stile che apparve a molti di annessione il segretario del Psi festeggiò la caduta del muro di Berlino con l’esposizione della bandiera dell’”Unità socialista” alle finestre della sede nazionale del suo partito- ammise che il colpo di grazia a quell’impresa venne dalla pur “meritoria” e “obbligata” azione giudiziaria chiamata “Mani pulite”. Che si estese rapidamente da Milano ad altre Procure, con eccessi lamentati di recente persino da Antonio Di Pietro, il magistrato simbolo di quell’inchiesta.

Costretti dalla popolarità di quell’azione- ma anche, direi, dalla direzione prevalentemente a senso unico delle indagini- a sostenere e persino inseguire i magistrati, i comunisti finirono per avvelenare i pozzi anche della sinistra italiana da ridisegnare. Negare a questo punto la politicità dell’azione della magistratura dopo l’emergenza reale del terrorismo, non sfruttabile a fini di una parte politica o dell’altra, e datarne l’inizio nel 1992, mi sembra francamente impossibile, pur con tutta la buona volontà e buona fede che ci può mettere un contestatore, in toga o in penna che sia.

Il guaio è che la politicizzazione della giustizia è dannatamente continuata ben oltre la fine e sepoltura della prima Repubblica. La stiamo ancora vivendo.

 

 

 

 

Pubblicato sul Dubbio

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