Conte buttato giù dall’areo senza paracadute dagli amici del Fatto Quotidiano

            Onore all’autoironia, questa volta del Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, che fra tutti i giornali italiani può ben essere considerato il più comprensivo, il più indulgente, diciamo pure il più convinto sostenitore non dico del governo, dove ancora c’è forse l’anomalia della partecipazione di partiti diversi dal Movimento 5 Stelle, ma quanto meno del presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Che tuttavia il vignettista Vauro Senesi ha ritratto sulla prima pagina nella più scomoda, direi drammatica situazione: quella di un uomo che si è lanciato dall’aereo senza il paracadute.

            L’omonimo decreto legge sul rilancio si è appena incagliato alla Camera, nell’esame di cosiddetta conversione, per la improvvisa comparsa di un buco di copertura. L’altro decreto legge appeso da giorni all’occhiello della giacca del presidente del Consiglio, pendolante sulla pochette, e preannunciato addirittura come “la madre di tutte le riforme” per le semplificazioni che dovrebbe apportare sulla strada della ripresa, è uscito da sei lunghissime ore di seduta notturna del Consiglio dei Ministri con la formula non nuova, in verità, ma pur sempre precaria del “salvo intese”. Che il capogruppo del Pd alla Camera Graziano Delrio, da qualche tempo insofferente per i rinvii e le indecisioni, ha equiparato al “primo tempo di una lunga trattativa”, destinata a durare chissà quanto, dietro e magari anche sotto le quinte, prima che un provvedimento arrivi quanto meno alla firma del presidente della Repubblica. Il quale pazientemente aspetterà nel suo ufficio, nonostante il disagio già procuratogli dalla sensazione che la maggioranza sia in realtà tenuta insieme solo dall’attesa della scadenza per niente vicina del suo mandato al Quirinale.

            Se il capogruppo del Pd alla Camera ha impietosamente ridotto il decreto legge sulla semplificazione esaminato dal governo al primo tempo di una lunga trattativa, il capogruppo dello stesso Pd al Senato, Andrea Marcucci, in una intervista al Corriere della Sera ha buttato Marcucci.jpegsecchiate d’acqua, o di benzina, secondo i punti di vista, sul problema sollevato dal segretario del suo stesso partito Nicola Zingaretti, dal capo della delegazione piddina al governo Dario Franceschini e condiviso dal presidente del Consiglio di tradurre in periferia l’alleanza con i grillini per limitare i danni, o accrescerli, anche qui secondo i punti di vista, delle elezioni regionali del 20 settembre. “Per riuscire a mediare non si cambiano i nomi” ha detto Marcucci pensando ai candidati del suo partito contestati o comunque indigesti ai grillini e ribadendo la convinzione che “i patti locali” si debbano fare “su idee comuni”. E se queste idee non ci sono, pazienza. Non si fanno le intese e ci si rimette al responso degli elettori.

            Scusatemi l’accostamento un po’ troppo irriverente, ma diversamente da Ennio Morricone, il genio italiano della musica che è mortoMoricone.jpeg a 91 anni nel timore di disturbarci con la notizia della sua dipartita, e disponendo perciò funerali rigorosamente privati, il secondo governo di Giuseppe Conte si avvicina al suo primo compleanno in un rumore persino assordante di contrasti, rinvii e quant’altro che potrebbero collassarlo già in autunno, senza risparmiarci disturbi.

 

 

 

 

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Mattarella non si lascerà coinvolgere nelle manovre della maggioranza

In genere non sono casuali le corrispondenze di Marzio Breda dal Quirinale per il Corriere della Sera, o i suoi servizi dal fronte, quando il Colle da camera di compensazione e Titolo del Corriere.jpegsoluzione dei conflitti rischia di essere trasformato dagli attori politici in senso lato, volenti o nolenti, in campo di battaglia, o anticamera di manovre più o meno oblique. Che mirano a congelare o cambiare, secondo le circostanze, i rapporti di forza formatisi nell’ultima crisi di governo arrivata sulla scrivania del capo dello Stato e da lui risolta nell’esercizio dei poteri conferitigli dal secondo comma dall’articolo 92 della Costituzione in termini che più laconici e chiari non potrebbero essere: “Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri”. E ciò anche quando il governo è ridotto dalla sfiducia delle Camere a gestire, su insindacabile giudizio del capo dello Stato, le eventuali elezioni anticipate.

Mi è già capitato, qui sul Dubbio, di immaginare il disagio di Sergio Mattarella di fronte a quelle che Breda, riferendo delle reazioni degli “intimi del Quirinale”, ha definito “chiacchiere fatue e gratuite” sulla corsa Sommario del Corrierealla successione cominciata con più anticipo del solito rispetto alla scadenza del mandato presidenziale. Che “si materializzerà -ha ricordato il quirinalista del Corriere– il 3 febbraio 2022”, cioè fra un anno e mezzo.

Il fastidio di Mattarella, che potrà sorprendere solo chi non lo conosce o non lo apprezza abbastanza, nasce innanzitutto dalla propensione mostrata da qualche settore politico e opinionista a considerarlo tentato, come è accaduto ad alcuni predecessori dietro un disinteresse solo formale, da una rielezione. Cui egli è contrario per “un fatto di coscienza”, ha scritto Breda attribuendogli la condivisione del “precetto” una volta espresso dal costituzionalista Livio Paladin che “la rielezione di un capo dello Stati non è vietata ma non è opportuna”, vista la durata non certo breve del mandato, che è di ben sette anni.

Un messaggio, del genere, a dire la verità Sergio Mattarella l’aveva già affidato qualche tempo fa al vecchio, o venerando, Eugenio Scalfari, con cui ha un antico e consolidato rapporto. Ma, visto che si è continuato a dire e a scrivere il contrario, mettendo cioè nel conto una sua rielezione, magari condizionata chissà a che cosa, il presidente ha voluto ribadire la sua “olimpica indifferenza” anche tramite il buon Breda, ormai di casa, diciamo così, al Quirinale -beato lui- più dell’inquilino di turno e dei suoi consiglieri e collaboratori. Vediamo adesso se il giochetto di scommettere sulla tentazione della conferma continuerà.

Personalmente ritengo che, oltre al “fatto di coscienza” e al “precetto” di Livio Paladin abbia influito sulla indisponibilità di Mattarella la delusione provata dal suo immediato predecessore Giorgio Napolitano. Che nel 2013 cedette, alla sua età già molto più avanzata di Mattarella, all’appello emergenziale di partiti e amministratori locali sfilati al Quirinale dopo il fallimento di vari tentativi di trovargli un successore. Napolitano accettò ponendo pubblicamente la sola condizione, spiegata bene in uno sferzante discorso al Parlamento, e disinvoltamente disattesa  dalle forze politiche, di una concreta e rapida riforma della Costituzione. Piuttosto che farsi complice del ritardo e persino del fallimento, come avvenne con la bocciatura referendaria della riforma varata dal governo di Matteo Renzi, il primo presidente confermato nella storia della Repubblica preferì ridurre a soli due anni il suo secondo mandato. E diede una lezione di vita, diciamo così, ai soliti seminatori di zizzania che gli avevano attribuito su giornali allora di opposizione trame oscure per rimanere al suo posto.

Ma il fastidio di Mattarella per la brutta partita politica che qualcuno vorrebbe giocare alle sue spalle nasce anche dal rischio di “depotenziamento” – come lo ha chiamato Breda- del suo mandato  derivante dal tentativo di fare della sua successione una specie di collante della maggioranza giallorossa, che stenta sempre più chiaramente a trovare la necessaria sintonia con l’urgenza e la gravità dei problemi del Paese.

Il “depotenziamento”- ripeto- deriverebbe dalla presunzione di cattivi giocatori di anticipare nei fatti, o nella sensazione comune, il cosiddetto “semestre bianco”, che scatterà  solo il Cirazzieri.jpeg4 agosto dell’anno prossimo, quando mancando appunto sei mesi alla scadenza del proprio mandato il presidente della Repubblica non potrà sciogliere anticipatamente le Camere per esplicito dettato dell’articolo 88 della Costituzione. Che fu modificato nel 1991 per consentire ugualmente l’esercizio di questa prerogativa quando coincidono gli ultimi sei mesi dei mandati del capo dello Stato e del Parlamento. Non è certamente il nostro caso, scadendo le Camere attuali nel 2023.

Avvicinare nella comune rappresentanza del quadro politico quello che Breda chiama “il congedo” del presidente, come se fosse ormai alla scadenza del proprio mandato, potrebbe essere -ha scritto il quirinalista del Corriere– “una mossa pericolosa, studiata magari per esorcizzare qualsiasi ipotesi di voto in autunno e nel contempo puntellare la vacillante maggioranza giallorossa, vincolandola fin d’ora a un patto per imporre insieme il prossimo” presidente della Repubblica.

Più chiaramente di così la situazione non poteva essere esposta, anche per la parte in cui la partita del Quirinale risulta così ristretta ai soli due Corazzieri 2 .jpegmaggiori partiti della coalizione di governo, con la sostanziale esclusione -ha scritto Breda- dei “leader di quei partiti-cespuglio, come Matteo Renzi, che nel 2015 fu il king maker dell’elezione di Mattarella”. Ma Renzi era allora segretario di un Pd in buona salute politica ed elettorale e, insieme, presidente del Consiglio. Adesso quella doppia del Quirinale e del governo, già impropria di suo, sarebbe tutt’altra partita nelle mani di un movimento grillino dalla indecifrabile natura e di un Pd che ne subisce sempre più malvolentieri il peso.

 

 

Pubblicato sul Dubbio

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