Tra fiducia e panico, politico e mediatico, la corsa al Quirinale

Titolo della Stampa
Titolo del Tempo

Due titoli -anzi, due titoli e mezzo, come vedremo- e due scenari opposti sullo sfondo del Quirinale: dalla fiducia al panico. Cominciamo con la fiducia suscitata da una visita di Sergio Mattarella a Torino. Dove, ospite dei giovani dell’amico Ernesto Olivero che lo aveva supplicato tre volte di rimanere ancora al Quirinale -presumibilmente per lasciare decidere la successione a un Parlamento non in scadenza e sostanzialmente delegittimato come questo-  si è detto sicuro che lascerà il Paese in “ottime mani”. Così ha appunto titolato in prima pagina La Stampa. Beato lui, Mattarella, che sembra sapere come finirà. E poveri noi, che invece stentiamo a capire e tanto meno prevedere. Né abbiamo la disinvoltura, il coraggio e quant’altro degli amici e colleghi del Tempo di scommettere sul barista che prepara lo spritz a Mario Draghi ed ha confidato di avere sentito la moglie del presidente del Consiglio pronosticare il trasferimento del marito da Palazzo Chigi al Quirinale.

Titolo del Giornale

Passiamo all’altro titolo e scenario offerto dal significativo, a dir poco, Giornale della famiglia Berlusconi. Dove -non se l’abbiano a male gli interessati- gradiscono poco ogni notizia, indizio, retroscena che allontana la sagoma reale o immaginaria dell’ex presidente del Consiglio dal palazzo del Presidente della Repubblica. Ma è un titolo e mezzo, come accennavo. Il titolo dice, quasi da quotidiano di opposizione: “Situazione insostenibile- Palude Quirinale. Cosa c’è dietro il silenzio di Draghi”. Che, a parte la versione del barista, si ostina a non dire chiaro e tondo che cosa intenda fare del suo governo: cercare di guidarlo sino all’esaurimento della legislatura, ordinario o anticipato che sia, cioè con una campagna elettorale di più di un anno o solo di qualche mese, o tentare la successione a Mattarella.

Intervista di Marina Berlusconi al Corriere della Sera

Nella rappresentazione dei danni derivanti dalla incertezza vera o presunta di Draghi il direttore del Giornale si è trovato involontariamente in conflitto paradossale con la figlia di Berlusconi, Marina. Che ha voluto dire la sua al Corriere della Sera su questo confuso o incerto passaggio politico assicurando che no, non c’è poi tanto da preoccuparsi perché “l’Italia corre” o, come preferite, “sta crescendo”. “Crediamoci”, ha raccomandato la signora.

“Catenaccio” del Giornale
Mattarella con la figlia Laura

Il mezzo titolo del Giornale, chiamato tecnicamente “catenaccio”, riguarda direttamente ed esclusivamente Mattarella per via delle voci che, contrariamente alla smania attribuitasi di prendersi il meritato riposo, specie ora che ha firmato il contratto di affitto di una casa a Roma per il dopo-Quirinale, fanno pensare il contrario. E mettono forse in ansia più la figlia Laura che il presidente Mattarella.

Augusto Minzolini sul Giornale

E quali sono queste voci, un po’ derise dal buon Augusto Minzolini per il loro carattere apparentemente paradossale? Se richiesto veramente da tutti di restare ancora un po’ al suo posto, come accadde nel 2013 col predecessore Giorgio Napolitano, il presidente uscente acconsentirebbe in cambio dell’impegno generale di approvare nell’anno residuo della legislatura una modifica della Costituzione che vieti la rieleggibilità del capo dello Stato e abolisca al contempo il cosiddetto semestre bianco, il divieto cioè di sciogliere le Camere nella parte conclusiva del mandato quirinalizio. E ciò che in passato avevano inutilmente proposto dal Quirinale i democristiani Antonio Segni e Giovanni Leone. Potrebbe essere in effetti l’uovo di Colombo, evidentemente indigesto però al Giornale, ripeto, della famiglia Berlusconi. Per oggi è tutto. Domani sarà un altro giorno.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Quel “tarlo” che Zagrebelsky non ha mai perdonato a Napolitano

Titolo del Dubbio
Il presidente emerito della Corte Costituzonale Gustavo Zagrebelsky

Se il piatto della vendetta si serve freddo, come dice un vecchio proverbio, quello preparato dal presidente emerito della Corte Costituzionale  Gustavo Zagrebelsky per il presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano è stato servito freddissimo, direi congelato, ai lettori di Repubblica. Che si sono visti riproporre gli attacchi del costituzionalista all’ormai ex capo dello Stato nove anni dopo i fatti, risalendo al 2012 l’attacco del professore a “Re Giorgio” – così lo chiamavano un po’ tutti i simpatizzanti, anche della stampa estera- per avere fatto ricorso alla Corte Costituzionale contro la potentissima Procura della Repubblica di Palermo. Nelle cui intercettazioni per le indagini sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia nella stagione delle stragi erano finite anche le utenze del Quirinale, compresa quella del capo dello Stato chiamato al telefono, fra gli altri, da Nicola Mancino. Che non era un omonimo, ma proprio il ministro democristiano dell’interno all’epoca della vicenda finita sotto le lenti degli inquirenti, diventato poi presidente del Senato, quindi supplente del capo dello Stato in caso di impedimento, e vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura con lo stesso Napolitano presidente.

Antonio Ingroia
Giorgio Napolitano ai funerali del suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio

                La Procura palermitana della Repubblica si era messa in testa di poter disporre la distruzione delle intercettazioni dell’inintercettabile capo dello Stato adottando una procedura che avrebbe potuto consentirne paradossalmente la diffusione facendo prima ascoltare il contenuto alle parti processuali. L’allora magistrato di punta dell’accusa, il non dimenticato Antonio Ingroia, già scherzava pubblicamente scherzava sulla sua memoria di ferro e sulla licenza che avrebbe potuto concedersi come romanziere scrivendone a tempo debito. C’era ben poco da ridere, in verità, ma molti risero lo stesso, fuori e dentro gli uffici giudiziari, vi lascio immaginare con quanta soddisfazione sul Colle, dove ancora si piangeva la morte per infarto del consigliere giuridico di Napolitano, il povero Loris D’Ambrosio, finito nel tritacarne delle polemiche e dei sospetti su chissà quali e quante pressioni sui magistrati inquirenti.

Eugenio Scalfari

       Secondo Zagrebelsky, anche a costo di lasciare Ingroia libero di divertirsi come possibile romanziere, Napolitano avrebbe dovuto risparmiare alla Corte Costituzionale il sospetto, fondato o non che fosse, di dover decidere per forza a suo favore, a tutela della sua figura istituzionale. Eugenio Scalfari, non più direttore di Repubblica ma pur sempre fondatore e custode, garante e quant’altro della sua anima, amico di entrambi i contendenti, non esitò un istante a schierarsi con Napolitano. E il presidente emerito della Consulta, come altri celebri collaboratori, per esempio Barbara Spinelli, entrarono nei “coni d’ombra” dove Scalfari metteva ogni tanto i dissidenti

        Ora che in un cono d’ombra ci si è messo di persona lo stesso Scalfari  per i  97 anni felicemente compiuti in aprile, per i temi sempre più alti e distaccati di riflessione, celebrato ancora in vita dalle figlie con un documentario  davvero toccante anche per chi ha avuto tante occasioni di non condividere le scelte di un giornalista pur eccezionale come lui, Zagrebelsky è tornato alla carica contro Napolitano, non nominandolo esplicitamente ma facendolo chiaramente riconoscere nel passaggio di un articolo sui “tarli” del Quirinale in cui si contesta “il velo di silenzio” steso dalla Corte  nel 2012 sui “contatti informali” dell’allora presidente della Repubblica. “Contatti che possono contenere interventi inconfessabili e incontrollabili”, ha aggiunto Zagrebelsky severamente al presente, come per dire che altri potrebbero fare ancora e di più dopo Napolitano, pur mettendo Sergio Mattarella al riparo da ogni dubbio o paura su una specie di monumento alla “fortuna” erettogli in una specie di inciso.

Il pesante giudizio di Giuliano Ferrara su Zagrebelsky

        Ma è stato -ripeto- solo un inciso, perché il quadro complessivo del Quirinale emerso dall’articolo di Zagrebelsky si conclude con la diagnosi non di “una supplenza” determinatasi alla Presidenza della Repubblica per limiti, carenze ed errori degli attori politici ma “di una vera e propria modifica tacita della Costituzione, di cui ora avvertiamo la portata e i rischi”. In particolare, il celebre costituzionalista, che all’Università chiamavano “Re Gustavo” per celebrarne il prestigio, ha contestato ai presidenti succedutisi al Quirinale prima di Mattarella “moniti sui diversi argomenti di stretta competenza politica, pressioni su decisioni che spettano al Parlamento, pretese condizionanti le formule di governo, uso di poteri fuori delle condizioni previste per il loro esercizio…interdetti e veti o sponsorizzazioni su persone invise o gradite”, sino a “creare reti di relazioni che facilmente possono trasformarsi in diffusi “giri di potere” nel governo, nelle Camere e nel sottogoverno”. “Onde si è parlato in certe circostanze, senza accorgersi dell’ossimoro, di “partiti del Presidente”, ha impietosamente aggiunto  Gustavo Zagrebelsky. Altro che i “tarli della Repubblica” -ripeto- usati nel titolo di prima pagina con cui l’articolo è stato pubblicato giovedì, procurando all’autore l’ira funesta di Giuliano Ferrara, che sul Foglio gli ha dato del “costituzionalista più trombone, pedante e loffio che ci sia”.

Pubblicato sul Dubbio

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