

Più ancora di quelle pur bellissime frecce tricolori svettanti sul Quirinale dopo la firma del trattato di “cooperazione rafforzata” fra l’Italia e la Francia, l’immagine emblematica dell’importante evento politico e diplomatico è quella che ritrae il padrone di casa Sergio Mattarella mentre stringe la mano destra a quella del presidente francese Emmanuel Macron e la mano sinistra, il lato peraltro del cuore, a quella del presidente del Consiglio italiano Mario Draghi, come per dare loro anche il buon lavoro per l’applicazione dell’accordo concluso -non dimentichiamolo- dopo ben quattro anni di lavoro.
Come e da dove Macron e Draghi dovranno o potranno lavorare per l’esecuzione del trattato su quello che è stato chiamato anche “l’asse Parigi-Berlino”, lo diranno le elezioni presidenziali in programma nei due Paesi a scadenza ravvicinata: a gennaio a Roma, nell’aula di Montecitorio, dove per la successione a Mattarella voteranno i deputati, i senatori e i delegati regionali, e in aprile in Francia. Dove ad eleggere l’eventuale successore di Macron saranno direttamente -beati loro- i francesi.
La scommessa di Mattarella, ma anche di Draghi, sulla conferma di Macron è nelle cose, diciamo così, dimostrate dagli stessi tempi scelti per la firma del trattato. Che da solo è un incentivo olt’Alpe alla conferma del presidente francese in un quadro dove i nostri cosiddetti cugini hanno voluto o potuto precostituirsi le condizioni per continuare a svolgere, in cooperazione rafforzata con l’Italia, un ruolo trainante in Europa, specie nel cosiddetto dopo-Merkel.

Più difficile resta invece l’immaginazione di ciò che Mattarella, stringendo quelle mani, abbia potuto auspicare che avvenga ormai fra una decina di settimane al Quirinale. Dove, certo, potrebbe subentrargli proprio Draghi in circostanze o modi tali da assicurare una qualche continuità a Palazzo Chigi con un rinnovato accordo di emergenza e sostanziale solidarietà nazionale attorno a un nuovo presidente del Consiglio, salvo incidenti programmati o imprevisti funzionali ad uno scioglimento anticipato delle Camere. Che è adombrato come una specie di bomba atomica da chi si oppone all’elezione di Draghi.
Ma potrebbe anche, o ancora, accadere ciò che nel mondo pur gassoso delle 5 Stelle, nei cui gruppi parlamentari, o in ciò che ne rimane, sembra essere temuto come una sciagura. Tale almeno è considerata oggi sul solito Fatto Quotidiano l’ipotesi di un ripensamento di Mattarella per l’accettazione di una conferma praticamente a termine, per il tempo necessario da una parte a garantire un ritocco della Costituzione che impedisca con la non rieleggibilità del capo dello Stato un’altra conferma ancora in futuro, e dall’altra a permettere l’elezione del successore alle Camere nuove e più legittimate.

Come in un travaso di bile Marco Travaglio ha visto sul palcoscenico politico il fantasma della “coppia di Stanlio e Ollio che salutano tutti (“arrivedoorci!”) e non si muovono di lì”. E ha reclamato da Mattarella -“per non fare -ha scritto- la figura del bugiardo tipo Napolitano”, lasciatosi confermare nel 2013 per un paio d’anni- un’uscita finalmente inequivocabile, in stretto dialetto siciliano. Che sarebbe questa, di inutile traduzione in italiano tanto è chiara: “Chi camurria, m’aviti scassatu a minchia”. Un po’ troppo forse per una persona educata come Mattarella.