Le esche di Travaglio alle Procure contro Berlusconi al Colle

Su Libero di ieri

Caspita, che preveggenza ha saputo dimostrare Carlo Nordio, conoscendo evidentemente i suoi polli ancora al lavoro nelle Procure, scommettendo non più tardi di ieri su Libero “che i pm interverranno anche nella partita per il Quirinale”.

“Occhiello” del titolo dell’articolo del Fatto Quotidiano

Oggi sul solito Fatto Quotidiano -e dove sennò?- oltre all’annuncio di una “petizione” e di una campagna di carta contro la candidatura pur di incerta formulazione, diciamo così, di Silvio Berlusconi a presidente della Repubblica, si spara in un titolone di prima pagina  una specie di notizia di reato che potrebbe ben essere interpretata come un’esca per le Procure della Repubblica. Dove la cosiddetta obbligatorietà dell’azione penale potrebbe indurre i più volenterosi ad aprire il solito fascicolo, cioè la solita inchiesta: giudiziaria, mica solo giornalistica come con inchiostro rosso il giornale diretto da Marco Travaglio ha definito quella condotta da Ilaria Proietti, e tradottasi in un lungo articolo fatto prevalentemente di insinuazioni o rivelazioni anonime.

Un misterioso parlamentare già del MoVimento 5 Stelle ha raccontato alla stessa Proietti, o ad un suo informatore, di avere ricevuto da emissari di Berlusconi, veri o presunti che fossero, offerte delle più diverse per votare l’ex presidente del Consiglio al Quirinale quando finalmente sarà il momento nell’aula di Montecitorio, a Camere riunite in seduta congiunta con la partecipazione anche dei delegati dei Consigli Regionali. Offerte, ripeto, di tutte le qualità e quantità: “poltrone in consigli di amministrazione di società all’estero e 100 mila euro”, sintetizza il sommario del titolo di prima pagina. Che sono “meno di quel che dava alle sue olgettine” il non più tanto generoso Berlusconi, commenta un “deputato campano”, non meglio specificato, coinvolto nell’”inchiesta” della giornalista. Che naturalmente potrebbe invocare il segreto professionale se qualche magistrato volesse strapparle nomi e particolari senza fare molta fatica a scoprirli da solo.  

Un nome tuttavia si fa nell’articolo a proposito dei 100 mila euro. Sarebbe quello del forzista nuovo di zecca Gianluca Rospi, ex grillino approdato alla luce del sole nel partito di Berlusconi attraverso il movimento dell’ex forzista Giovanni Toti. Centomila euro sarebbe costato appunto “il taxi” -come lo definisce la giornalista di Travaglio- che ha portato Rospi da Berlusconi, ma non certo per ammissione o racconto dell’interessato. La fonte è rimasta rigorosamente anonima.

Intervista di Antonio Martino a Repubblica
Altro titolo del Fatto Quotidiano

In questo contesto alquanto velenoso di rivelazioni, che ripropone lo spettacolo del “suq” già vissuto ai tempi politici e giudiziari del senatore Sergio De Gregorio sottratto a suo tempo da Berlusconi a Romano Prodi, ci sarà da aspettarsi di tutto e di più, a meno che lo stesso Berlusconi, anzichè continuare a divertirsi -come lo descrivono sempre al Fatto Quotidiano– a immaginare le facce dei magistrati con la sua foto da presidente della Repubblica alle loro spalle negli uffici dove amministrano la giustizia, non accetti i consigli alla rinuncia appena datigli dall’insospettabile amico  ed ex ministro Antonio Martino. Che, parlando pure lui in forma anonima di “un amico” convinto della irriducibilità del sogno quirinalizio del Cavaliere, si è chiesto in una intervista a Repubblica, “con la vita che ha fatto Berlusconi, e che ancora può fare, perché dovrebbe appassionarsi per un mestiere che consiste in baciare bambini, tagliare nastri e andare ai funerali”. Per giunta possedendo “tante belle abitazioni che non riesce neppure a viverle tutte”.

Occhetto riscrive la storia di quel brutto no a Spadolini per il Quirinale

Titolo del Dubbio

Fra gli inconvenienti o i pregi delle cicliche corse al Quirinale, secondo i gusti, ci sono le esuberanze o i vuoti di memoria di protagonisti, comprimari, attori e quant’altro delle precedenti edizioni, e quindi della storia di questa nostra non più giovane Repubblica. Che si porta addosso ormai i suoi 75 anni e mezzo, o poco meno, per fortuna non pensionabili.  

De Mita e Cossiga in una foto d’archivio

Il contributo più giocoso lo ha dato sinora Clemente Mastella riproponendo quella movimentata notte di giugno del 1985 in cui, chiamato al telefono da un imbarazzatissimo Flaminio Piccoli, dovette correre alla Camera e fare distruggere le schede con le quali i parlamentari della Dc avevano designato a scrutinio segreto il presidente in carica del Senato Francesco Cossiga al Quirinale riservandogli  un modesto o addirittura scarso 60 per cento dei voti. Ciò avrebbe potuto indurre a un ripensamento il segretario del Pci Alessandro Natta, che aveva già aderito con qualche difficoltà alla candidatura prospettatagli dal segretario della Dc Ciriaco De Mita, non essendo passati molti anni -solo cinque- dai giorni in cui i comunisti avevano cercato di mandare sotto processo davanti alla Corte Costituzionale per sostanziale favoreggiamento proprio Cossiga, allora presidente del Consiglio, per il caso del figlio terrorista di Carlo Donat-Cattin.

De Mita e Mastella in una foto d’archivio

Mastella, che assicura di avere ricevuto poi la dovuta gratitudine dall’interessato, trasformò magicamente, come capo ufficio stampa di De Mita, quel 60 nel 75 per cento dei voti, con tanto di comunicato che consentì il passaggio del candidato  in aula, a Montecitorio, al primo colpo: 977 voti su 979 votanti, ben oltre quindi la maggioranza dei due terzi dell’assemblea necessaria per i primi tre scrutini, pari a 674 voti.

Non fu certo la prima bugia a fin di bene della politica, e neppure l’unica. Già nel 1971 una votazione a scrutinio segreto, sempre fra i parlamentari della Dc in una corsa al Quirinale, si era chiusa senza dare alcun dettaglio del risultato per non scatenare poi un safari nell’aula della Camera contro il povero Giovanni Leone, prevalso nel partito su Aldo Moro per meno di dieci voti.

Giovanni Spadolini

Se Mastella ha forse ecceduto giocosamente nella memoria, smitizzando un po’ il capolavoro tuttora attribuito a De Mita per l’operazione Cossiga al Quirinale, temo che Achille Occhetto abbia esagerato in senso inverso raccontando al Corriere della Sera, come ha fatto qualche giorno fa, le ragioni per le quali il Pds-ex Pci da lui guidato nel 1992 preferì votare il democristiano Oscar Luigi Scalfaro piuttosto che il repubblicano Giovanni Spadolini.  Esso preferì il presidente della Camera a quello del Senato nella soluzione “istituzionale” che si volle dare al problema quirinalizio dopo la strage di Capaci. Che la mafia aveva compiuto mentre in Parlamento si succedevano inutilmente e stancamente le votazioni per la successione a Cossiga, sempre lui, per giunta anche dimissionario, per cui il povero Spadolini già lo stava sostituendo assistito dai corazzieri.

Occhetto al Corriere del 26 novembre

Pur “premuto -ha ammesso- da importantissimi personaggi dell’editoria e dell’imprenditorialità italiana perché scegliessi Spadolini”, per il quale non aveva nascosto le sue simpatie neanche l’allora segretario della Dc Arnaldo Forlani, che già nel 1981 gli aveva praticamente ceduto Palazzo Chigi, Occhetto ha cercato di far capire di avere scartato il leader repubblicano solo perché ne temeva l’insuccesso. Al quale avrebbe potuto seguire una candidatura pentapartitica tipo quella di Giulio Andreotti. Che in effetti come presidente del Consiglio in carica considerava ”istituzionali” anche le sue carte.

Occhetto con Napolitano, e D’Alema, in una foto d’archivio

E no, caro Occhetto. L’ex Pci preferì Scalfaro solo perché l’elezione di Spadolini avrebbe reso impossibile la successione di un suo uomo alla presidenza del Senato: seconda carica dello Stato a quel punto inevitabilmente rivendicata dalla Dc. L’elezione di Scalfaro avrebbe invece consentito quella di Giorgio Napolitano al vertice di Montecitorio.

Spadolini, Scalfaro e Napolitano in una foto d’archivio

Fu quindi una mera operazione di opportunismo politico a determinare quella scelta. Alla quale stoicamente -debbo dire- Spadolini si rassegnò, pur avendo già preparato il discorso di insediamento. Mi disse che dopo sette anni avrebbe avuto la stessa età alla quale Scalfaro era stato appena eletto al Quirinale. Grandissimo, felix Spadolini, come lo chiamava l’amico Montanelli: si era già prenotato per la successione, impeditagli solo dalla morte prematura, avvenuta nel 1994

Pubblicato sul Dubbio

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