Lo scherzo da prete di Renzi a Zingaretti uscendo dal Pd dopo averlo spinto a sinistra

              Matteo Renzi – il “Mezzo toscano”, lo hanno definito al manifesto, con lo stesso soprannome assegnato a suo tempo dai detrattori al democristianissimo Amintore Fanfani dileggiandone la bassa statura fisica, che Renzi però non ha- ha fatto il previsto scherzo da prete al segretario del Pd Nicola Zingaretti. Prima lo ha spinto a sinistra verso l’accordo di governo con i grillini tra il plauso e la partecipazione dei transfughi Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema, Edoardo Speranza, Pietro Grasso e compagni, e ora si sposta a destra, o quanto meno al centro, per poter contestare, quando occorrerà, la gestione dell’intesa.

            L’annuncio del distacco, con la formazione di gruppi parlamentari autonomi, uno alla Camera e mezzo al Senato, dove i suoi potranno confluire solo nel gruppo misto, lo ha dato lo stessoReoubblica.jpg Renzi scegliendo le testate il Giornale.jpgdi Repubblica e del Giornale della famiglia di Silvio Berlusconi, al quale peraltro egli spera di portar via, tra Montecitorio e Palazzo Madama, qualcuno stanco della declinante Forza Italia, già insidiata a destra dalla Lega di Matteo Salvini e dai Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni.

            Una pesca anche fuori dal Pd è la sola che potrebbe giustificare la promessa fatta da Renzi in persona a Giuseppe Conte -in una telefonata che però non avrebbe del tutto convinto il presidente del Consiglio, rimasto Il Secolo XIX.jpgugualmente “allibito” secondo il titolo del Secolo XiX- di “allargare la base parlamentare” Il Foglio.jpgdel suo secondo governo. E’ stato insomma un invito dei suoi, diciamo così, a stare sereno, su cui ha scherzato il vignettista del Foglio immaginando però all’altro capo del telefono di Renzi non Conte, ma il segretario del Pd Zingaretti, e alludendo naturalmente all’esperienza amara di Enrico Letta. Che di “serenità” promessagli da Renzi con un messaggio elettronico conobbe nel 2014 solo quella procuratagli con una crisi costatagli la guida del governo.

            La scissione, separazione o come altro si vorrà chiamare quella maturata e ora anche annunciata da Renzi faciliterà il ritorno nel Pd dei Bersani, D’Alema, Speranza, Pietro Grasso ed altri usciti nel 2017 rompemdo proprio con lui che lo guidava, anche dopo avere perduto il referendum sulla sua riforma costituzionale, a dispetto del ritiro dalla politica imprudentemente promesso prima del voto, e usato dai dissidenti proprio per contribuire alla sconfitta, addirittura brindandovi.  Ma va detto che il ritorno al Pd degli scissionisti “liberi e uguali” di due anni e mezzo fa era già nell’aria da tempo con l’avvenuto della segreteria Zingaretti, grazie alla quale essi sono appena entrati nel governo e relativa maggioranza.

            Ciò consente di sospettare che nel distacco di Renzi ci sia anche un comprensibile tasso di vendetta: un piatto che, si sa, viene di solito servito freddo. D’altronde, allo stesso Renzi è stato attribuito, senza smentite, questo sfogo dopo la “derenzizzazione” del Pd praticata da Zingaretti per pagare i debiti della sua elezione: “Non posso più stare con i mei carnefici”.

            Ora non solo Zingaretti ma Conte in persona dovrà trattare con Renzi come una parte Belpietro.jpgautonoma della nuova maggioranza giallorossa creata in funzione antisalviniana. L’uomo siederà al tavolo di questa maggioranza anche “per le nomine” del vasto, anzi vastissimo campo del sottogoverno, come ha perfidamente osservato sulla sua Verità Maurizio Belpietro. Che non gli ha mai perdonato di averci mezzo lo zampino, diciamo così, nella rottura con l’editore Angelucci e la perdita della direzione di Libero durante la campagna referendaria sulla riforma costituzionale.

 

 

 

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