Il centrodestra italiano sempre più nel pallone tra Putin e Marine Le Pen

Fra gli effetti, o danni collaterali, della guerra di Putin all’Ucraina c’è la crisi sempre più profonda ed evidente del centrodestra italiano. Dove la confusione ormai è massima anche in riferimento alla linea da seguire nei riguardi del capo del Cremlino, dal quale Berlusconi si è deciso dopo un lungo e comprensibilmente imbarazzato silenzio a dissociarsi in modo abbastanza netto e preciso, ma Matteo Salvini no. Tanto è vero che al leader leghista è bastato andare in Polonia di recente per cercare di affacciarsi poi all’Ucraina per essere respinto con perdite clamorose di faccia. Neppure Berlusconi, d’altronde, è molto popolare in Ucraina, dove da presidente del Consiglio fu diffidato dal mettere piede per essere andato ad omaggiare l’amico Putin  nella Crimea  appena strappata agli ucraini.

Ora Berlusconi e Salvini- sembrano marciare uniti verso un rapporto quanto meno privilegiato in un centrodestra dove non si capisce bene se potrà esservi ancora uno spazio per Giorgia Meloni, forse cresciuta troppo elettoralmente per continuare ad essere sopportata da forzisti e leghisti. 

Titolo di Libero

Forte di una sortita di Salvini a Porta a Porta, la famosa “terza Camera” di memoria andreottiana, il quotidiano Libero ha potuto esporre in un titolo come un trofeo, più ancora che notizia, la “voglia di Forza-Lega” ormai incontenibile. Sarebbe “il vero matrimonio”, collaterale a quello un pò cinematografico cui Salvini da invitato ha potuto recentemente assistere  fra Berlusconi e la deputata forzista Marta Fascina. E incassare proprio in quella occasione dallo stesso Berlusconi il riconoscimento di essere il “vero, unico leader politico” italiano. Altro che delfino, per sua fortuna, vista la fine fatta fare dal Cavaliere a tutti i delfini nella storia del suo movimento e, più in generale, del centrodestra. 

Questa “voglia di Forza-Lega”, o “vero matrimonio”, per stare sempre al linguaggio da  tifoseria di Libero, si starebbe già diffondendo in sede locale con liste e candidati comuni, dalla Sicilia alla Liguria, per esempio, dove i rapporti con la destra della Meloni sono ormai ai minimi termini. 

Anche in questa destra, d’altronde, la confusione è grande dopo che la Meloni ha cercato di accreditare il suo movimento nella famiglia dei “conservatori”, procurandosi la difesa di esponenti autorevoli del Pd di fronte all’accusa rivoltale dallo storico di sinistra Luciano Canfora di essere una “neonazista”.

Sempre Ignazio La Russa al Corriere della Sera
Ignazio La Russa al Corriere della Sera

Come conservatrice Giorgia Meloni ha preso le distanze nette dalle figure internazionali care ancora a Salvini come Putin e la candidata all’Eliseo Marine Le Pen, arrivata al ballottaggio del 24 aprile col presidente uscente della Repubblica francese Emmanuel Macron. Ma il maggiore forse fra i “fratelli d’Italia”, Ignazio La Russa, l’ha appena smentita sul Corriere della Sera dicendo che lui voterebbe Le Pen senza alcuna esitazione, pur non condividendone al cento per cento la linea.  Addirittura, da amico personale che si vanta di essere di Berlusconi, di cui è stato peraltro ministro della Difesa, La Russa si è avventurato ad esprimere dubbi sulle simpatie attribuite allo stesso ex presidente del Consiglio per Macron. “Io non sono così sicuro -ha detto- che Berlusconi andrebbe a votare per Macron al secondo turno”. 

Grande, ripeto, è la confusione nel centrodestra. Dove non per questo -c’è da aggiungere con un certo sconcerto- si evita di partecipare alla voglia di elezioni anticipate in autunno avvertita in giro, forse non a torto, e denunciata dal segretario del Pd con l’aria però di non temerle neppure lui. 

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Se le Camere staranno come d’autunno sugli alberi le foglie…

Titolo del Dubbio

Enrico Letta, che, sia pure indirettamente,  si è procurato dello “stupido”, da Luciana Castellina spintasi a definire così il Pd da lui guidato ormai da più di un anno, sta seminando di avvertimenti il percorso finale di questa legislatura sopravvissuta più o meno miracolosamente, partorendo ben tre maggioranze attorno alla vantata “centralità” conquistata nelle elezioni del 2018 dal MoVimento 5 Stelle. Che ormai viaggia, tra elezioni amministrative, suppletive e sondaggi, attorno a poco più di un terzo dei voti di allora,  ma continua a rivendicare un ruolo decisivo anche con Mario Draghi. Il cui arrivo a Palazzo da Chigi si deve a un capo dello Stato deciso invece a superare, se non azzerare, il risultato elettorale del 2018 per portare a termine la legislatura in un quadro politico fuori dagli schemi “tradizionali” o comuni. 

Lo stesso MoVimento ancora “garantito” -non di più- da Beppe Grillo è passato per tre presidenti, effettivi o provvisori, l’ultimo dei quali, Giuseppe Conte, si è dovuto far confermare dopo sette mesi dalla prima elezione digitale ottenendo meno voti e permanendo in una situazione giudiziariamente controversa. 

Ora per difendere non so se più la visibilità o l’area elettorale del quasi partito di cui ha voluto assumere la guida, scartando anche lui la tentazione di una scissione per metterne su uno del tutto nuovo e suo, Conte rincorre praticamente Matteo Salvini ma anche altri leader o componenti della maggioranza di governo sulla strada della distinzione, conflittualità, tensione, chiamatela come volete. Ed ha scelto come terreno, peraltro diretto, di scontro con Draghi, dietro la facciata della difesa di chi sta peggio in questa incipiente recessione economica, quello delicatissimo della politica estera in piena guerra scatenata da Putin con l’invasione dell’Ucraina. E con un grillino alla guida del Ministero degli Esteri come Luigi Di Maio, quasi più draghiano ormai del presidente del Consiglio. 

Giuseppe Conte

Senza spingersi a contestare totalmente la linea atlantista e di sostegno anche armato all’Ucraina perseguita dal governo, Conte ha contestato l’aumento progressivo delle spese militari concordato in sede di alleanza atlantica per portarle in ogni singolo Stato al 2 per cento del pil. Ed ha cantato vittoria, e sconfitta quindi di Draghi, per lo spostamento della data del traguardo finale dell’operazione al 2028, indicata volenterosamente dal ministro piddino della Difesa Lorenzo Guerini nella speranza, evidentemente, di un contenimento della crisi internazionale innescata dalla guerra “speciale” cominciata da Putin. E ora affidata, dopo vari siluramenti e perdite consistenti, ad un generale resosi tristemente famoso per i metodi feroci adoperati in Siria.

Proprio a Conte, pur senza nominarlo, ma anche a Salvini per le sue mai attuate simpatie per Putin, diversamente dalla dissociazione finalmente esplicita di Silvio Berlusconi, e ad altre componenti del centrodestra sui temi fiscali e della giustizia, Enrico Letta si è riferito denunciando le tentazioni di elezioni anticipate in autunno che avverte in giro. Eppure si è già in campagna elettorale per le amministrative di giugno, abbinate nel primo turno ai referendum sulla giustizia scampati al rischio di  rinvio per elezioni anticipate già in questa primavera.

Enrico Letta

  Nel denunciare tuttavia le tentazioni di elezioni in autunno il segretario del Pd non ha minacciato nulla per evitare che esse arrivino a spegnere del tutto “la candela” del governo.  Quasi pronto anche lui alla sfida, convinto evidentemente di avere da perdere meno degli altri, o addirittura di guadagnare di più, egli si è limitato a ricordare che le responsabilità della fine prematura di una legislatura già agli sgoccioli sarà solo colpa dei momentanei alleati o soci della maggioranza. 

Dal Foglio di ieri

Lo stesso Draghi, impegnato con tranquilla sicurezza a livello internazionale per ridurre la ormai troppo imbarazzante e gravosa dipendenza energetica dell’Italia dalla Russia di Putin, è apparso ad alcuni stanco, diciamo così, delle trappole e delle resistenze nella maggioranza all’azione del governo e all’attuazione del suo programma. Il Foglio, di solito bene informato degli umori dell’entourage di Draghi, ha accreditato le voci di un’accelerazione della preparazione della legge di bilancio per rendere l’autunno più agibile elettoralmente. Altri addirittura si sono spinti, come il solito Fatto dell’altrettanto solito Marco Travaglio, a immaginare o presentare Draghi in concorrenza con due dei suoi predecessori a Palazzo Chigi -lo stesso Letta e Paolo Gentiloni- alla segreteria generale della Nato. 

Conte, a quanto pare, è escluso da questa ipotetica gara, non potendo evidentemente contare più sull’amico Trump alla Casa Bianca, dove lo chiamavano al plurale “Giuseppi”. Bei tempi, per lui, meno per gli altri ora alle prese con una guerra ormai al centro d’Europa. 

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.statmag.it il 15-4-22

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