I fumi che preoccupano Grillo non sono quelli dell’Ucraina, ma degli inceneritori dei rifiuti

I fumi che ossessionano Beppe Grillo, il garante e ora anche consulente remunerato del MoVimento 5 Stelle presieduto da Giuseppe Conte, non sono quelli che si levano in Ucraina sulle case, sugli edifici pubblici, sui ponti, sulle strade distrutte dai missili o dalle truppe russe d’invasione, ma quelli degli inceneritori ai quali sta pensando il sindaco di Roma Roberto Gualtieri per liberare la città dalle immondizie lasciategli in eredità dalla pentastellata Virginia Raggi. 

Dal blog di Beppe Grillo

Sono gli inceneritori a dispetto della cui realizzazione, incoraggiata dal governo, Conte ha ordinato ai ministri del suo ormai sostanziale partito di non votare il decreto degli aiuti per più di 14 miliardi di euro disposti a favore dei più bisognosi colpiti dagli effetti economici della guerra scatenata da Putin in Ucraina. “Bruciare rifiuti -dice il titolo del principale articolo del blog personale di Grillo, ora a disposizione ben pagata dal suo MoVimento- è la negazione dell’economia circolare”, in attesa o in contemplazione della quale a Roma i cinghiali sono diventati di casa per le immondizie a loro disposizione in ogni zona, anche centrale, della città. 

Giuseppe Conte

E’ una forza di governo, pur appestata dalla monnezza, come si dice appunto a Roma, quella che Grillo si vanta di avere portato in Parlamento e che ancora reclama di imporre la sua “centralità” in una legislatura proseguita solo grazie alle urgenze via via sopraggiunte alla formazione del primo governo Conte: le emergenze sanitarie, economiche e sociali evocate l’anno scorso dal presidente della Repubblica per mandare a Palazzo Chigi Mario Draghi, anziché chiamare gli italiani anticipatamente alle urne, cui si è aggiunta ora l’emergenza bellica. Nella quale siamo coinvolti con gli aiuti militari all’Ucraina autorizzati in aprile fino a dicembre dal Parlamento con un voto quasi unanime forse sfuggito all’attenzione dell’ex presidente pentastellato del Consiglio. Il cui quasi partito, pur rappresentato al Ministero degli Esteri da Luigi Di Maio, lamenta di non essere sufficientemente informato di ciò che il governo fa e spedisce all’Ucraina di notte e di giorno, come altri paesi, per non farla soccombere all’assalto di Putin. 

Eppure questa è roba ragionevolmente secretata in tutte le forme dovute e consentite dalla Costituzione, per cui è semplicemente insensato che si reclami di parlarne in aula a Montecitorio o a Palazzo Madama, in un apposito dibattito pubblico utile, con tanto di mozioni finali da mettere ai voti, anche per legare mani e piedi al presidente del Consiglio nella missione imminente negli Stati Uniti. Dove egli incontrerà il 10 maggio il presidente Joe Biden, impegnato ormai ogni giorno a incitare gli alleati a sostenere in tutti i modi, e fino in fondo, l’Ucraina aggredita. 

Alla fine Draghi, coperto da una posizione  ferma del Quirinale frequentemente ribadita dal presidente Mattarella, è sbottato. E ha fatto informare i giornali, tra la “delusione” espressa da Conte, che del viaggio negli Stati Uniti e della guerra, più in generale, risponderà nella seduta della Camera del 19 maggio destinata alle interrogazioni rapide: il famoso question time.

Titolo del Foglio

Ormai l’insofferenza fra i due -Draghi e Conte- non potrebbe essere più evidente. E pare – stando almeno alle informazioni del Foglio- che al Quirinale non abbiano intenzione di incoraggiare tentazioni dello stesso Draghi di accorciare per questo la legislatura. Anzi, Mattarella vorrebbe portarla avanti raschiandone il barile, cioè mandandoci alle urne a maggio dell’anno prossimo, pur essendosi votato il 4 marzo per il precedente rinnovo delle Camere, nel 2018. Altri rospi evidentemente dovrà rassegnarsi a ingoiare la coppia, ora, di Conte e Grillo, in ordine rigorosamente alfabetico. 

Se i magistrati non si fidano neppure di se stessi nel giudicare il loro lavoro

Titolo del Dubbio

Tra dichiarazioni critiche di singoli magistrati, documenti con più firme e tazebao affissi o circolanti nei tribunali in vista dello sciopero fissato per il 16 maggio contro la riforma pur parziale della giustizia, approvata dalla Camera e all’esame del Senato, sta letteralmente scoppiando il problema della scarsa rappresentatività dell’associazione o sindacato di categoria. Che pur vanta più di novemila iscritti su meno di diecimila   magistrati operanti in Italia: ma iscritti sulla carta, perché in realtà a prendere le decisioni è una minoranza del 15 per cento. Lo abbiamo già rilevato a proposito dei 1400 partecipanti all’assemblea generale del 30 aprile all’Angelicum, dove votarono per lo sciopero in poco più di mille.

I dirigenti dell’associazione hanno incautamente ritenuto di emendarsi da ogni colpa o responsabilità nella gestione correntizia della categoria espellendo l’ex segretario Luca Palamara, colto con le mani nel sacco, diciamo così, nella pratica delle trattative da sottogoverno per promozioni e destinazioni da deliberare formalmente nel Consiglio Superiore della Magistratura. Lo hanno espulso – prima ancora che Palamara finisse davvero sotto processo in tribunale- come se quel modo balordo di gestire promozioni e incarichi, a grappoli o singoli, lo avesse inventato lui, e non lo avesse invece ereditato dai colleghi che lo avevano praticato con la stessa disinvoltura, a dir poco.

Tutti i nodi prima o dopo vengono al pettine. Esso potrebbe rivelarsi, per le polemiche interne che lo stanno distinguendo, proprio lo sciopero del 16 maggio, indetto in fondo contro gli stessi magistrati. Che non si fidano neppure di se stessi, come li ha giustamente accusati l’avvocato Gian Domenico Caiazza commentando le reazioni dell’associazione contro i fascicoli dove si potranno finalmente trovare  i veri contenuti delle prestazioni delle toghe, di cui tener conto nella prosecuzione delle loro carriere, sempre dipendenti dal Consiglio Superiore.

Pubblicato sul Dubbio

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