Fondatore, garante, elevato e ora anche epuratore: il destino di Beppe Grillo

            Più che di espulsioni, annunciate peraltro in un contesto di tale confusione statutaria che dovranno probabilmente occuparsene i tribunali, è tempo ormai di epurazioni sotto le 5 Stelle. Ai 15 senatori ribelli, che hanno negato la fiducia al governo di Mario Draghi e sono finiti con le loro foto su qualche giornale come ricercati, si sono aggiunti i 31 deputati grillini che li hanno imitati a Montecitorio. E sono 46, se sappiamo ancora fare di conto.

            Il povero Marco Travaglio sul suo Fatto Quotidiano non si dà pace. Eppure dovrà darsela perché ho la sensazione che Beppe Grillo da epuratore non si lascerà fermare dalle sue proteste e dalla sua urticante ironia. Che ha già fatto un’altra vittima della mania di storpiare i nomi a persone e cose non gradite. Il Movimento 5 Stelle, per esempio, è diventato sul giornale una volta adorante Movimento 5 Sedie. Che non è male, bisogna ammetterlo, dal punto di vista naturalmente dell’arrabbiatissimo censore, sorpreso da tanto attaccamento “incoerente”, in rosso, alle poltrone del governo e del sottogoverno.

            Da spettatore divertito dei suoi spettacoli, al termine dei quali spesso il comico lo intratteneva a cena e gli anticipava notizie, non osando sospettare che gli desse direttive, Travaglio è ora diventato uno storico di Grillo, scrivendone al passato, ma conservandone comunque una memoria non all’altezza delle sue abitudini di archivista, capace in ogni momento della giornata di citare anche a memoria il casellario giudiziario del malcapitato di turno e una raccolta accuratissima delle sue frasi più celebri, significative, inchiodanti e quant’altro.

            Questa volta il direttore del Fatto Quotidiano è stato surclassato sulla Stampa, nella felice rubrica del Buongiorno, da Mattia Feltri. Che ha restituito a Grillo queste perle degli anni neppure tanto lontani in cui non potevi nominare un partito diverso dal suo MoVimento senza procurargli il voltastomaco. Sentite: “Povero paese dove si discute di alleanze…Noi non ci alleiamo con nessuno…..La demolizione è cominciata, li mandiamo tutti a casa…..Sono io il garante contro la scilipolitizzazione della politica…..alleanze è una parola terribile….non faremo mai alleanze, né a destra né a sinistra….è un principio inderogabile….pensare che faremo alleanze è come pensare che un panda mangi carne cruda, è contro natura….non ci alleiamo, sarà la rete a controllare”. E giù a questo punto un lunghissimo e pur incompleto elenco, temo, dei partiti, partitini, cespugli, movimenti con i quali i grillini si sono alleati in questa legislatura fantasmagorica: un elenco da “pagine gialle”, secondo il titolo felicemente dato al Buongiorno  di questo venerdì 19 febbraio 2021.

            La “sicilipolitizzazione” della politica lamentata a suo tempo da Grillo deriva naturalmente dall’ex parlamentare dipietrista Domenico Scilipoti, Mimmo per gli amici, che conquistò le prime pagine dei giornali nel 2010 contribuendo a salvare l’ultimo governo di Silvio Berlusconi dall’assalto alla baionetta degli amici e seguaci dell’allora presidente della Camera Gianfranco Fini. Che nei mesi precedenti aveva sfidato il Cavaliere a “cacciarlo” dal partito che insieme avevano improvvisato, ma dove l’ambizioso leader della destra aveva preso l’abitudine di condurgli una lotta sordida, sino a cinguettare contro di lui con qualche magistrato in pubblici incontri. In questi giorni Scilipoti è stato visto e sentito nei corridoi del Senato felice di Draghi come Grillo.

 

 

 

 

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Da De Gasperi a Draghi, ma anche dai qualunquisti ai grillini

Anche Mario Draghi, come altri che lo hanno preceduto a sorpresa alla guida del governo senza alcuna provenienza partitica, ha dovuto assistere in educato silenzio alle solerti ricerche dei suoi antenati, o soli padri, nonni e bisnonni. Il più gettonato in questo tutto nel passato è stato Alcide De Gasperi, il cui compito di “ricostruzione” dell’Italia uscita a pezzi dalla seconda guerra mondiale è stato indicato come precedente o modello della ricostruzione del Paese devastato questa volta dalla pandemia. Ma anche dalla crisi dei partiti subentrata alla caduta delle ideologie e al sopravvento della magistratura -e che magistratura, viste le testimonianze e le denunce in corso di Luca Palamara- sulla politica.

Purtroppo non sono abbastanza anziano per vantarmi di avere visto e sentito De Gasperi in Parlamento e a Piazza del Gesù, la sede della sua Democrazia Cristiana, e di tentare quindi un paragone anche visivo e fonico fra lui e Draghi. Posso solo condividere la coincidenza fra le ricostruzioni spettate all’uno e all’altro e la loro comune e lodevole ripugnanza, avendo letto il primo e ascoltato il secondo, alla retorica e alla prolissità.

Fra i due, a dispetto di certe apparenze che potrebbero far pensare il contrario, ritengo che De Gasperi abbia raccolto una eredità migliore di quella  ricevuta da Draghi accettando il compito assegnatogli dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Pur tra le rovine della guerra De Gasperi fu in grado di contare, avendoli sia come alleati sia come avversari, secondo gli sviluppi anche della situazione internazionale, su partiti organizzati e su politici non improvvisati in qualche salotto televisivo ma spesso formatisi nella clandestinità e in prigione per il loro antifascismo. L’antipolitica con la quale egli dovette fare i conti fu quella del commediografo Guglielmo Giannini, che col suo fronte dell’Uomo Qualunque non voleva dalla politica “rottura di scatole”, secondo un famoso slogan, e si fermò nelle elezioni politiche del 1946  al 5,3 per cento dei voti, portando 30 deputati all’Assemblea Costituente. Nelle elezioni successive del 1948 era già sceso al 3,8 per cento. In quelle ancora successive del 1953, dopo avere tentato un aggancio con Palmiro Togliatti, che pure aveva sino al giorno prima definito “verme, farabutto e falsario”, Giannini finì candidato indipendente nelle liste della Dc nella sua Napoli, mancando il seggio E così avvenne nel 1958, sempre nella sua Napoli, ma nelle liste monarchiche di Achille Lauro.

A Draghi invece è capitato di dover fare i conti col comico Beppe Grillo e col suo MoVimento 5 Stelle, cresciuto come un fungo fra il 2013 e il 2018, sino a diventare il partito di maggioranza relativa, come la Democrazia Cristiana nella cosiddetta prima Repubblica e Forza Italia di Silvio Berlusconi o il Partito Democratico di Walter Veltroni e poi di Matteo Renzi nella seconda Repubblica, o forse anche terza, secondo i conti di alcuni politologi che si sentono già sulla soglia della quarta.

Del movimento grillino disinvoltamente passato in meno di due anni e mezzo da destra a sinistra come L’Uomo Qualunque della buonanima di Guglielmo Giannini, l’ex presidente della Banca Centrale Europea ha dovuto ereditare nel suo governo un certo numero di ministri che Giannini non ebbe mai. Ed ha dovuto anche prestarsi ai loro spettacoli, a cominciare dalle secchiate di vernice verde rovesciategli addosso da Grillo in persona per coprire il colore nero precedentemente applicato all’uomo delle banche usuraie, dei poteri “forti” e affamatori del popolo e altre diavolerie del genere.

Comprensivo dei problemi identitari e d’altro tipo ancora dei grillini, Draghi non solo ne ha salvato un po’ di ministri, ma ha dovuto cortesemente elogiare il predecessore a Palazzo Chigi Giuseppe Conte e proporsi per certi versi come un suo continuatore, scommettendo sulla disattenzione delle ritrovate o nuove componenti della maggioranza costituite dall’Italia Viva di Matteo Renzi, dalla Lega di Matteo Salvini, da Forza Italia di Berlusconi e dalla Più Europa di Emma Bonino.

Neppure questo tuttavia è bastato a contenere più di tanto i dissidenti pentastellati che hanno negato la fiducia a Draghi, o gliel’anno accordata in lacrime di sofferenza. E da cui il presidente del Consiglio non è minacciato proprio grazie alle dimensioni della nuova maggioranza che ha potuto raccogliere attorno al suo governo. Il guaio però è che i cosiddetti governisti del MoVimento di Grillo sono così condizionati dalla dissidenza interna da avere infarcito di aggettivi a dir poco equivoci la loro fiducia, sino all’eplosione goliardica del capogruppo al Senato Ettore Licheri. Che ha gridato nell’aula di Palazzo Madama, rivolto direttamente al presidente del Consiglio, che deve aspettarsi da tutto intero il movimento grillino “rotture di scatole”, in un sussulto qualunquistico che non è stato proprio il migliore viatico del governo pur entrato per fortuna nella pienezza dei poteri con la fiducia anche della Camera.

 

 

 

 

Pubblicato sul Dubbio

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