Il ritorno festoso di Berlusconi e l’allegria insolita di Draghi…..

            Beh, quella foto di Silvio Berlusconi al solito festoso e Mario Draghi insolitamente allegro e visibilmente compiaciuto di incontrare un amico più che il leader di uno dei partiti schieratisi a favore del governo che sta per formare, può ben considerarsi la più emblematica della lunga e tortuosa crisi finalmente in via di conclusione. E’ una immagine che ha risparmiato al giornale di Marco Travaglio di ricorrere ad un altro fotomontaggio per rappresentare, inorridito, la svolta che temeva di più da quando ha vacillato il secondo governo di Giuseppe Conte. La realtà dura da digerire per lui è di un Draghi per niente stanco e disinteressato a Palazzo Chigi, come lo stesso Conte invece lo aveva imprudentemente descritto nei mesi scorsi, e per niente refrattario a rapporti col “pregiudicato” e “amico di mafiosi”, come il direttore del Fatto Quotidiano grida ogni volta che ne ha l’occasione davanti alle telecamere rischiando un malore, ed è tornato a scrivere oggi.

            Il colpo di Berlusconi e  Draghi felicemente insieme è per Travaglio e simili peggiore della partecipazione di Matteo Salvini alla maggioranza perché in fondo al leader leghista alleato con i grillini il direttore del Fatto aveva preso l’abitudine per un anno abbondante.

            Immagino l’altro colpo che deve avere procurato a Travaglio l’ipotesi prospettata da Enrico Mentana in televisione che nel secondo giro di consultazioni del presidente del Consiglio incaricato abbiano avuto l’occasione di incrociarsi e salutarsi come compagni di viaggio nei corridoi di Montecitorio l’odiato Cavaliere e Beppe Grillo in persona. Cos’altro mi toccherà sentire, vedere o immaginare ?, si sarà chiesto il povero, inconsolabile cultore dell’epopea di Conte a Palazzo Chigi.

 

 

 

 

 

 

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Quella pugnalata alla schiena di otto anni fa sulla strada del Quirinale

              Alla notizia della morte di Franco Marini, già segretario generale della Cisl, ministro del Lavoro e presidente del Senato, chissà se e quanti di quei 157 che nel 2018 lo pugnalarono nella corsa al Quirinale si saranno pentiti di quella cattiva azione. Centocinquasette furono infatti il 18 aprile di quell’anno i voti che mancarono ai 672 della maggioranza dei due terzi dell’assemblea dei deputati, senatori e delegati regionali richiesta dall’articolo 84 della Costituzione nei primi tre scrutini per l’elezione del presidente della Repubblica. E Marini, per quanto candidato dal Pd ma sostenuto sulla carta da una larghissima maggioranza, comprensiva del centrodestra, con esclusione dei grillini che avevano candidato Stefano Rodotà, non potette tentare ancora perché il partito che lo aveva proposto buttò subito la spugna, temendo che la dissidenza interna sarebbe aumentata nelle votazioni successive. Il più lesto nel chiedere di cambiare candidato fu il pur non ancora parlamentare Matteo Renzi, che tuttavia poteva già disporre di un po’ di truppe comandate dall’esterno.

            D’altronde lo stesso Renzi aveva definito la candidatura di Marini, come quella di Anna Finocchiaro prospettata alla vigilia delle elezioni presidenziali, “un dispetto al Paese”. E non per i 79 anni che aveva Marini, perché la Finocchiaro ne aveva soltanto 57.

            Le cose andarono ancora peggio per Romano Prodi, alla cui candidatura lanciata sempre dal Pd, ma contrastata dal centrodestra, mancarono nella quarta votazione 109 voti dei 504 della maggioranza assoluta che le sarebbe stata a quel punto sufficiente. Ma per Marini non fu una consolazione perché era un uomo leale, non meschino. Onore alla sua memoria.

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