Silenzio, si vota…ma solo sotto le 5 Stelle, e in piena sicurezza sanitaria

            Dunque, si vota. No, Giorgia e fratelli, non montatevi la testa e non correte in piazza ad esultare per il fallimento del tentativo di Mario Draghi di formare il governo e per la resa di Sergio Mattarella alla richiesta della Destra di mandare gli italiani alle urne, rinnovando finalmente le Camere affollate di grillini dal 2018 e perciò paralizzate.

            Draghi sta preparando tranquillamente la lista dei ministri da portare al Quirinale per il suo “Ecogoverno”, come lo ha già battezzato Avvenire, il giornale dei vescovi italiani. Il logo potrebbe essere quello creato da Beppe Grillo in persona sul suo blog personale, con l’Italia tutta verde infiocchettata dal tricolore. Altro che l’”ammucchiata” proposta con dileggio, e con tanto di fotomontaggio, da Marco Travaglio sul suo Fatto Quotidiano, e con quel Draghi truccato da grillo, al minuscolo, dal fantasioso Vauro Senesi, sullo stesso giornale.

            Si vota, cara Giorgia e fratelli, solo sotto le 5 Stelle, dalle 10 alle 18 della giornata di oggi, in piena sicurezza sanitaria, senza bisogno di spostarsi da casa. Si vota al computer, purché iscritti alla “piattaforma Rousseau” di Davide Casaleggio, e su un quesito scritto di suo pugno da Grillo per farsi rispondere sì. “Sei d’accordo -ha chiesto il comico ai suoi spettatori a distanza- che il MoVimento sostenga un governo tecnico-politico: che preveda un super-Ministero della Transizione Ecologica e che difenda i principali risultati raggiunti dal Movimento, con le altre forze politiche indicate dal presidente incaricato Mario Draghi”. Punti, virgole, minuscole e maiuscole sono tutte, anche nella loro precarietà, del fondatore e garante del MoVimento. E pazienza se, una volta tanto, non può riconoscervisi Travaglio, che come “vero quesito” avrebbe preferito un bel sì o no all’”Ammucchiata” di cui sopra.

            Massimiliano Panarari si è chiesto con una certa preoccupazione se l’Italia, più ancora di Draghi che prepara la lista dei ministri e Mattarella che lo aspetta al Quirinale, può rimanere “appesa” ad una consultazione digitale sotto le 5 Stelle. Beh, una volta tanto mi sento non dico di difendere, ma di comprendere sì Grillo e la sua compagnia di giro. Che hanno i loro riti da rispettare, peraltro in modo abbastanza elastico e accomodante quando si tratta di conquistare o di conservare poltrone, potere e quant’altro.

             Per quanto Travaglio -sempre lui- e tutti gli altri malpancisti del MoVimento e dintorni siano in subbuglio e mobilitati nell’antimobilitazione, perseguendo un’affluenza digitale alle urne minima, da rinfacciare poi a Grillo e a tutti gli adoratori di quello che al manifesto  hanno chiamato oggi “il drago verde”, penso che né Draghi, al maiuscolo e al plurale, né Mattarella abbiano motivi di attendere con preoccupazione i risultati del referendum digitale pentastellato. Via, l’uno e l’altro hanno avuto ben altre occasioni di ansia nella loro vita.

            Ma a proposito di ansia lasciatemi manifestare un certo stupore per quella espressa dal presidente uscente del Consiglio Giuseppe Conte sulla maggioranza troppo larga delineatasi attorno a Draghi, che potrebbe “frenare l’esecutivo”. Lo ha detto lui, Conte, che ha guidato due governi entrambi caduti per l’immobilismo rimproveratogli da alleati che lo consideravano troppo condizionato dai veti dei grillini: Salvini nel 2019 e Renzi nel 2021, entrambi di nome Matteo, con una coincidenza anche d’analisi a dir poco diabolica.

 

 

 

 

 

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Matteo Renzi tra chi lo ringrazia per Draghi e chi lo maledice

Premetto che sarò ancora un po’ controcorrente tornando ad occuparmi di Matteo Renzi dopo quello che se n’è scritto anche qui, sul nostro Dubbio. E ora che la sicura formazione del governo di Mario Draghi appare a molti destinata ad oscurare chi pure, come Renzi appunto, ha quanto meno contribuito a spingere verso Palazzo Chigi l’ex presidente della Banca Centrale Europea. Di cui nei mesi scorsi, sempre da Palazzo Chigi, Giuseppe Conte aveva rivelato la “stanchezza” dopo tanta fatica a Francoforte, e il sostanziale disinteresse alla presidenza del Consiglio.

In una maggioranza così larga come quella delineatasi  da Silvio Berlusconi a Beppe Grillo, da Matteo Salvini a Nicola Zingaretti passando per tutte le sfumature di centro che abbiamo visto sfilare davanti a Draghi nelle consultazioni a Montecitorio, Renzi è ridotto a poco più di qualche briciola. I suoi starnuti non faranno più notizia. Draghi, pur dovendogli in qualche modo l’incarico, è riuscito insomma dove ha fallito Conte: a neutralizzare il fondatore di Italia Viva. Che potrebbe a questo punto essere definita dal solito Marco Travaglio, con l’abitudine che ha di storpiare i nomi che non gli piacciono, Italia morta, o sepolta, o morta e sepolta.

Beh, questa rappresentazione non mi convince, pur avendo appena avuto un’altra occasione per dolermi di Renzi: la scomparsa dell’ex presidente del Senato Franco Marini. Della cui candidatura a presidente della Repubblica, nel non lontano 2013, per quanto avanzata dal comune partito -il Pd- e sorretta anche dal centrodestra, che  ricordava e apprezzava la provenienza  dell’interessato dalla sinistra sindacale e anticomunista della Dc guidata dal compianto Carlo Donat-Cattin, proprio Renzi definì in un salotto televisivo “un dispetto al Paese”. E, assecondato nel Pd a sorpresa dall’allora segretario in persona Pier Luigi Bersani, volle che la prima, sfortunata votazione svoltasi nell’aula di Montecitorio su Marini, cui mancarono nel segreto dell’urna 157 dei 672 consensi necessari, fosse anche l’ultima. E si passò, dopo le schede bianche della seconda e terza, alla quarta votazione con un altro candidato, sempre del Pd, cui mancarono 109 dei 504 consensi necessari a quel punto della corsa al Quirinale: Romano Prodi. Anche in quel secondo fiasco o incidente, come preferite, molti avvertirono lo zampino del solito, disinvolto, spregiudicato Renzi.

Grazie a Dio, l’anagrafe gli aveva permesso, essendo nato solo nel 1975, di non concorrere nel 1971 all’affondamento della candidatura di Amintore Fanfani al Quirinale. E di quella successiva, all’interno dei gruppi parlamentari democristiani, di Aldo Moro.

Mi chiedo tuttavia se in politica si possono applicare a quanti la praticano gli stessi criteri di giudizio di un’amicizia, di una relazione sentimentale, della partecipazione ad un torneo di canasta o burraco.

Sergio Staino, un militante storico della sinistra e vignettista di grande valore e calore, che non perdona a Renzi la morte dell’Unità dopo avergliene affidato la direzione da segretario del Pd e insieme presidente del Consiglio, ha appena scritto sulla Stampa -in polemica con l’amico e compagno Massimo Recalcati, intervenuto da psicanalista sulla stessa Stampa in difesa di Renzi- che “ogni strada deve avere un cuore, se non lo ha è una strada sbagliata”. Parola di Carlos Castaneda, ha precisato Staino.

Ho una certa difficoltà, da vecchio cronista politico, a seguire il ragionamento di Staino, e Castaneda. Cuore e politica stanno come carattere e politica. E di un cattivo carattere sento di condividere quello che diceva Sandro Pertini, convinto che basta averne uno davvero perché risulti appunto cattivo. La politica è dura, si sa. Non è un pranzo di gala, come il mio amico Marini sperimentò di persona otto anni fa limitandosi tuttavia a dire, con la saggezza e il realismo di un vecchio combattente, soltanto questo: “Se me lo avessero detto che non piacevo, non mi sarei lasciato candidare”. Me lo ripetette nell’ultimo incontro che avemmo, alla vigilia del compimento dei suoi 87 anni. Di cui lui era fiero anche perché gli servivano -mi disse- a far capire a chi ne aveva contrastato la candidatura per la sua età che, se eletto, avrebbe portato a termine regolarmente “e sano di mente” il suo mandato di sette anni. Grandissimo e indimenticabile Franco.

Per quanto riguarda infine le sventure profetizzate a Renzi per la consistenza dannatamente modesta del suo nuovo partito, permettetemi di ricordare che anche la buonanima di Ugo La Malfa guidava una forza generalmente al di sotto persino del 2 per cento dei voti , eppure sempre decisiva negli snodi politici di gran parte della cosiddetta Prima Repubblica. Renzi certamente non è La Malfa, convengo, ma neppure Nicola Zingaretti è Enrico Berlinguer, o Aldo Moro, o Fanfani. E non parlo dei grillini. Ogni epoca ha i suoi uomini. Ed è consolante che di questi tempi ci sia uno come Mario Draghi, cui Sergio Mattarella ha potuto rivolgersi nell’intreccio di tante emergenze.

 

 

 

 

Pubblicato sul Dubbio

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