La Meloni sogna in inglese nella corsa tutta italiana a Palazzo Chigi

Dalla prima pagina della Stampa
Titolo del Foglio

Se Mary Elisabeth Truss, 47 anni, Liz per gli amici ma anche per il più largo pubblico inglese, scelta dagli “intrepidi” conservatori -come ha scritto ammirato Giuliano Ferrara sul Foglio-  per la successione a Boris Johnson arriva a Dowing street “sognando la Thatcher”, secondo il titolo della  Stampa, la conservatrice -anche lei, dichiaratamente- Giorgia Meloni, 45 anni, scala in Italia Palazzo Chigi in questa campagna elettorale sognando entrambe. E avendo ormai buone probabilità di riuscita, per quanto il suo per niente estimatore Carlo De Benedetti, collegato ieri sera con lo studio televisivo appena riaperto di Lilly Gruber, la consideri una disgrazia. E scommetta addirittura su Silvio Berlusconi, il proprio arcinemico, per fermarla. O farla almeno durare il meno possibile. 

Donald Trump
Carlo De Benedetti

Carlo De Benedetti, “l’ingegnere”, già editore della Repubblica e ora del più modesto  ma ugualmente ambizioso Domani, fondato giusto per dimostrare o insegnare ai figli come possedere un giornale senza danneggiarlo e cederlo ai concorrenti, è un uomo  -anche per la sua stazza fisica- più di pancia che di testa, direi. E’ rimasta celebre la sua profezia, proprio nello studio televisivo della Gruber, contro l’elezione di David Trump a presidente degli Stati Uniti nel 2017 perché troppo indebitato, troppo pasticcione e troppo di destra: elezione invece puntualmente arrivata. E che potrebbe essere addirittura ritentata, per quanto i problemi dell’ex presidente siano nel frattempo aumentati di numero e di peso.

Il segretario del Pd Enrico Letta

“L’ingegnere” è di una franchezza anche spietata. Per quanto cerchi ancora di stimarlo, prevedendone comunque un difficile passaggio congressuale nel Pd dopo le elezioni del 25 settembre, egli ha liquidato Enrico Letta come l’uomo che ha sbagliato tutto nella preparazione e nella conduzione di questa campagna elettorale. Avrebbe sbagliato soprattutto a non capire la necessità di allestire contro il centrodestra a trazione ormai meloniana un cartello tipo Cln: il Comitato di Liberazione Nazionale, a suo tempo, dal nazifascismo. Un cartello comprensivo anche dei “grillozzi”, come li chiama sul Foglio il già citato Giuliano Ferrara con la stessa indulgenza, comprensione e quant’altro dell’’ingegnere”.

Giuliano Ferrara, ieri
Titolo del Foglio di ieri

Ora purtroppo, secondo il quadro dipinto dallo stesso Ferrara non più tardi di ieri, e condiviso su Domani anche da Curzio Maltese, sempre ieri, non resterebbe che rassegnarsi e prepararsi ad un’avveduta gestione della sconfitta. “Appello al centrosinistra per un futuro decente di battaglie comuni”, ha titolato Il Foglio con questa conclusione dell’elefantino rosso: “Quello che si sarebbe dovuto intraprendere prima, per essere competitivi, si deve ricostruire dopo, a competizione perduta”. 

Titolo dell’editoriale di Domani

“Pd, M5S e terzo polo torneranno insieme ma solo dopo le elezioni”, si leggeva nel titolo dell’editoriale di Domani dando a costoro degli “uccellini sullo stesso ramo”. E risparmiando il meno poetico ma forse più pertinente paragone -dal punto di vista di De Benedetti, Ferrara e Maltese- con i famosi polli che nei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni si beccavamo mentre Renzo li portava alla mensa dell’avvocato Azzeccacarbugli.  

Antonio Ingroia
Antonio Ingroia ieri alla

C’è chi teme, sempre dal punto di vista dell’”ingegnere” e dintorni, che sarà difficile comporre dopo le elezioni ciò che il segretario del Pd non ha saputo o voluto unire prima, vista -per esempio- la fuga a sinistra di Giuseppe Conte, per quanto ancora raggiunto ieri da un’altra sponsorizzazione del destrissimo Trump, da oltre Oceano. Ma forse non ha torto il politicamente redivivo Antonio Ingroia, in una intervista alla Verità di Maurizio Belpietro, a scommettere sul camaleontismo dell’ex presidente del Consiglio. Conte tornerà col Pd? gli ha chiesto l’intervistatore. “Di sicuro, sì, c’è forse chi ha qualche dubbio?”, ha risposto e ridomandato l’ex pm ora dichiaratamente rosso, convinto che il presidente di ciò che rimane del MoVimento 5 Stelle sia solo un emulo dei più disinvolti democristiani di un tempo.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Gli errori di Gianfranco Fini che Giorgia Meloni non ripeterà nel centrodestra

Quelle mani di Giorgia Meloni a Cernobbio fra i capelli -o sugli occhi, come altri hanno preferito riferirne- per difendersi da un Matteo Salvini poco riguardoso della  corsa a Palazzo Chigi dell’alleata mi hanno riportato indietro con la memoria ad una scena apparentemente diversa. Eppure univoca nella incapacità a destra di mimetizzarsi, di fare buon viso a cattivo gioco.

Gianfranco Fini alla Direzione del Pdl nel 2010

La scena richiamata alla mia memoria  è quella dell’ormai lontano 22 aprile del 2010 a Roma, quando in una seduta da auditorium della direzione del Pdl  il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi sbottò contro Gianfranco Fini. Che da tempo, per niente trattenuto dal ruolo di presidente della Camera, promessogli dallo stesso Berlusconi prima delle elezioni del 2008 e puntualmente assegnatogli, gliela tirava nella maggioranza. E a chi gli raccomandava prudenza per conto del Cavaliere rispondeva paragonandosi ad un combattente che poteva anche saltare per aria ma trascinandosi appresso pure il capo del governo. Ma ciò non avvenne perché, a rottura avvenuta, Berlusconi sopravvisse al tentativo di sfiduciarlo compiuto dagli amici di Fini con una mozione a Montecitorio.

Quando Berlusconi -dicevo- sbottò dicendogli di dimettersi almeno da presidente della Camera se intendeva continuare a tirargliela, Fini dal suo posto cominciò a fare gesti di derisione, sino ad alzarsi, avvicinarsi al palco e chiedergli: “Che fai? Mi cacci?”. E Berlusconi di fatto lo cacciò. Fini rimase al vertice di Montecitorio, dove però non sarebbe più tornato neppure da semplice deputato, inutilmente candidatosi nelle liste improvvisate nel 2013 da Mario Monti. 

Carlo Calenda a Cernobbio

La Meloni, pur cresciuta alla sua scuola, non è Fini. E nella veste di candidata a Palazzo Chigi per il centrodestra, dove il suo partito sembra in grado di raccogliere più voti della somma di quelli di Berlusconi e Salvini, non si mette a fare scenate in pubblico. Si porta solo le mani fra i capelli o -ripeto- sugli occhi. Ma poi spiega all’alleato insofferente che dalle sanzioni alla Russia per la guerra in Ucraina l’Italia non può tirarsi indietro, come lui vorrebbe, senza perdere credibilità internazionale. Una donna tosta, direi, della quale il capo della Lega dovrà prima o poi tenere conto, anche se il pubblico molto scelto di Cernobbio -come ha notato un cronista scrupoloso- non le ha mai concesso più di dieci secondi di applausi. Molti di più ne hanno  invece ottenuti Carlo Calenda ed Enrico Letta, in ordine cronometrico. 

Il fatto è che nel mondo delle imprese e della finanza più di una imitazione di Draghi, cui la Meloni sarebbe disponibile pur dopo tanta opposizione, vorrebbero il Draghi vero. Su cui Calenda ha scommesso, insieme con Matteo Renzi, senza con questo infastidire il presidente del Consiglio, almeno sinora.  E certamente il segretario del Pd non lo contrasterebbe nel caso in cui fosse possibile confermarlo.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it l’11 settembre

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