In memoria di Gorbaciov, e di chi in Italia ebbe a che fare con lui

Vignetta del Foglio
Titolo del manifesto

Predestinato a lasciare il segno già da quella inconfondibile voglia impressagli dalla natura sulla testa, anche da morto Mikhail Gorbaciov non ha smesso di sorprendere e di dividere, fuori e dentro il Cremlino. Dove persino Vladimir Putin, cinico abbastanza da mettere a ferro e fuoco da più di sei mesi l’Ucraina con una guerra che sa bene di non potere ormai vincere, è stato sorpreso dalla notizia della morte dell’ultimo presidente dell’Unione Sovietica, indeciso ancora -mentre scrivo- se partecipare o no ai funerali annunciati per sabato.  Mi conviene o non mi conviene? deve essersi semplicemente chiesto pensando proprio alla guerra in Ucraina ch’egli sapeva disapprovata da Gorbaciov, per quanto fosse riuscito a guadagnarsene il consenso nel 2014 all’annessione della Crimea. 

Anche da noi, in Italia, Gorbaciov riuscì a creare grande scompiglio politico negli anni Ottanta con i suoi disperati tentativi di riformare l’irriformabile, certificato in una breve visita a Mosca dall’allora ministro del Tesoro Guido Carli. Invece Ciriaco De Mita, dal 1982 segretario della Dc, aveva scommesso dal primo momento sulla riformibilità e conseguente salvataggio del comunismo, che gli serviva a Roma per continuare a scommettere, a sua volta, sull’evoluzione del Pci. Che aveva ai suoi occhi solo un vantaggio: contenere la voglia dell’odiato Bettino Craxi di rappresentare la sinistra, magari unita sotto le sue insegne per il crollo del comunismo.  

La vista di De Mita e Andreotti a Mosca nell’ottobre del 1988

Disgraziatamente per De Mita, a Mosca l’ambasciatore italiano era Sergio Romano, convinto della irriformabilità del comunismo e per niente disposto a compiacere nei sui rapporti le previsioni, gli interessi, le aspirazioni e quant’altro del segretario della Dc, neppure quando questi diventò, sia pure per una breve stagione, presidente del Consiglio. E nell’ottobre del 1988 corse a Mosca, con la famiglia appresso più alcuni ministri, fra i quali quello degli Esteri Giulio Andreotti, per sincerarsi della situazione. 

Di quel viaggio era destinato a fare le spese proprio l’ambasciatore, destinato poco dopo ad un’altra destinazione diplomatica ch’egli rifiutò, preferendo lavorare più tranquillamente e, meglio remunerato, come storico, saggista, editorialista. 

La testimonianza di Sergio Romano al Corriere della Sera oggi

Sentite con quanta discrezione ed efficacia lo stesso Romano ha appena descritto quella esperienza, intervistato dal Corriere della Sera  e parlando dei politici con i quali aveva avuto rapporti in quegli anni: “Ho avuto a che fare soprattutto con Andreotti e De Mita. Avevo simpatia per Andreotti: non era un uomo caldo (e nemmeno io), non cercavamo l’amicizia. Ma era stimabile: colto ed esperto”. E De Mita? ha insistito l’intervistatore? “No, lui non era Andreotti”. Grande ambasciatore, e ancor più grande il suo ex e ormai compianto ministro degli Esteri. Che amava tanto la Germania, come disse una volta parlando a Pisa, da preferirne due anche quando cominciò a prospettarsi l’unificazione,ma senza per questo mettersi a lavorare contro. 

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Palazzo Chigi scambiato dai partiti alla canna del gas per la bottega di Figaro

Titolo del Dubbio

Per fortuna Palazzo Chigi è ancora e soltanto la sede della Presidenza del Consiglio, e non anche il teatro che aveva rischiato di diventare ai tempi di Giuseppe Conte, o ancor più del suo portavoce Rocco Casalino. Che improvvisava conferenze stampa in ogni ora del giorno, e della notte, sia pure per rincorrere una tragedia come la pandemia virale, in uno scenario drammatico anche per le luci, le distanze, la sbrigatività delle domande e delle risposte: uno scenario interrotto con qualche segno d’allegria solo all’atto del commiato di Conte. Che uscì dal palazzo ricevendo applausi dal personale affacciato alle finestre sul cortile e ricambiò con la fidanzata a mezza strada fra il compiacimento e la delusione. 

Vi ricordate Giuseppe Conte in piazza a vendere la sua disponibilità a Draghi?

Ma già prima del commiato, non potendo continuare dentro, lo spettacolo ad un certo punto si era trasferito fuori, in piazza, a ridosso di Montecitorio, con quel banchetto improvvisato davanti alle telecamere da cui Conte annunciò -ricordate?- la fine del mugugno, attribuitogli a torto o a ragione, e il passaggio al sostegno al successore Mario Draghi. Sulla cui stanchezza egli stesso aveva avuto la dabbenaggine di scommettere dopo le fatiche alla presidenza della Banca Centrale Europea, per esorcizzarne  l’incarico alla guida del governo. Al quale l’interessato invece non si sottrasse nel momento in cui gli fu offerto e conferito dal presidente della Repubblica, senza neppure pagare quel prezzo suppletivo che a molti era apparso, a torto o a ragione nel 2011, la nomina a senatore a vita di Mario Monti: un altro illustre tecnico prestato alla politica in condizioni di emergenza. 

Se Palazzo Chigi fosse, magari in qualche sua parte distaccata, un teatro lirico potremmo ben reclamarvi in questi giorni, sia pure di campagna elettorale, una edizione speciale del bellissimo Barbiere di Siviglia del grande Gioacchino Rossini, recitato nella parte di Figaro proprio da Draghi. Il quale, per quanto dimissionario, in carica solo per i cosiddetti affari correnti dopo il ritiro di alcuni partiti dalla maggioranza di unità nazionale auspicata da Sergio Mattarella, viene adesso chiamato da tutti, anche da quei partiti, a fare interventi persino straordinari per fronteggiare un elenco di emergenze allungatosi dopo la pazza crisi di un’ancor più pazza estate. 

Stefano Rolli sul Secolo XIX di ieri

“Figaro qua figaro là, un barbiere di qualità, di qualità. Tutti mi chiedono, tutti mi vogliono”, dice allegro il protagonista dell’opera rossiniana. Dal quale tuttavia penso che Draghi per primo stenti a riconoscersi per gli intrighi di cui quel barbiere si lasciava allegramente considerare capace. E che di certo non appartengono alla storia e al carattere del presidente del Consiglio fortunatamente ancora in carica, per quanti gliene abbiano attribuito i suoi critici ed avversari: a cominciare dal progetto di fuga da Palazzo Chigi ancora rimproveratogli in questi giorni, per esempio, dal solito Marco Travaglio sull’altrettanto solito Fatto Quotidiano. Un progetto emerso con la candidatura al Quirinale in veste di “nonno a disposizione” e sviluppatosi poi, dopo la conferma di Mattarella, in una crisi non subita ma in fondo provocata con atteggiamenti di sfida, per esempio, a Giuseppe Conte e a Matteo Salvini. 

Lo stesso Conte, senza lasciare l’esclusiva del racconto o dell’accusa al giornalista che ne riflette di più e a volte anticipa gli umori, è tornato qualche giorno fa ad attribuire a Draghi la sostanziale regìa della scissione pentastellata eseguita dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Che ancora una volta ha reagito riproponendo un fatto, una circostanza che andrebbe una buona volta chiarita. In particolare, Di Maio ha raccontato di avere deciso la scissione quando apprese di  una risoluzione di politica estera dei senatori grillini, sullo sfondo della guerra di aggressione della Russia all’Ucraina, che era stata sottoposta all’esame, compiaciuto, dell’ambasciatore di Mosca a Roma. 

Di quella risoluzione, una volta finita sui giornali, non si fece più nulla, confluendo anzi i grillini in un’altra concordata fra i partiti ancora partecipi della maggioranza, ma la scissione proseguì il suo corso, a passo anzi più veloce e a ranghi ancora più consistenti del previsto. E finì per seminare di altri veleni-questo può essere tranquillamente condiviso, ma non per responsabilità di Draghi- il tratto ormai terminale della legislatura, con la manina o  la manona attribuita da Conte al presidente del Consiglio nell’operazione di fuoruscita del ministro degli Esteri dal MoVimento 5 Stelle, privato anche numericamente in Parlamento della posizione preminente conquistata nelle elezioni del 2018.

La penultima di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano di ieri
Titolo del Messaggero di ieri

Il Messaggero titolava ieri in prima pagina sul “sostegno” offerto dai partiti a Draghi “per l’ultima missione”. Che sarebbe quella, praticamente, contro il caro-bollette, su cui il presidente del Consiglio -o “Supermalus”, come ormai lo sfotte Travaglio- ha già avvertito di avere stanziato più miliardi della Germania. E altri potrebbe ancora spenderne, ma non aumentando il debito pubblico. E’ quell”’ultima missione” che non mi convince, temendo che i guai non siano per niente finiti. E tanto meno finito il lavoro di Draghi, anche se alle elezioni ormai mancano poco più di venti giorni. 

Pubblicato sul Dubbio

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