Scomodo forse per lo stesso Enrico Letta l’endorsement raccolto a Berlino

Titolo di Repubblica
Titolo del Corriere della Sera

Entrambi i giornali più diffusi in Italia –Corriere della Sera e la Repubblica- hanno in qualche modo trasferito a Berlino la campagna elettorale di casa nostra, peraltro a 5 giorni dal voto, considerando come l’avvenimento principale delle ultime 24 ore l’incontro assai cordiale del segretario del Pd Enrico Letta nella capitale tedesca col cancelliere socialdemocratico Olaf Sholz. “Caso Berlino sulle elezioni”, ha titolato il Corriere. “Berlino: no ai postfascisti”, ha spiegato la Repubblica riferendo non tanto sull’incontro fra Letta e Sholz quanto sulla contemporanea -e certamente non casuale- preoccupazione espressa dal presidente del partito del cancelliere per una vittoria della destra di Giorgia Meloni. 

Francamente, il segretario del Pd avrebbe potuto fare a meno di questo tipo di endorsement, un pò eccessivo pur considerando le difficoltà nelle quali egli si trova con quella distanza ormai incolmabile fra il suo polo, alquanto striminzito dopo la rottura con Giuseppe Conte a sinistra e con Carlo Calenda e Matteo Renzi al centro, e il centrodestra a trazione, questa volta, meloniana. 

Paolo Meli a Otto e mezzo

Con quel tipo di endorsement Enrico Letta ha messo nei guai dopo qualche ora in Italia persino il suo amico -e, credo, anche elettore- Paolo Mieli. Che, ospite del salotto televisivo di Lilli Gruber, ha sorpreso anche la padrona di casa riconoscendo al segretario del Pd il merito di non avere abusato dell’antifascismo -anzi, di non avervi proprio fatto ricorso- per contrastare Giorgia Meloni, sino a rendere questa campagna elettorale “più all’acqua di rosa di tutte” , testualmente. 

Giorgia Meloni a Quarta Repubblica

La Meloni, dal canto suo, ospite di Nicola Porro alla “Quarta Repubblica” della quasi omonima rete della televisione berlusconiana, non si è lasciata scappare l’occasione per chiedere furbescamente a distanza ad Enrico Letta se nell’incontro con Sholz avesse perorato la causa del tetto al prezzo del gas sostenuta per l’Italia da Mario Draghi nell’Unione Europea. Cui i tedeschi sembravano avere in qualche modo aperto ripiegando però successivamente sulla difesa dei propri interessi, diversi dai nostri perché i prezzi praticati dai russi alla Germania sono più bassi. E così la giovane candidata a Palazzo Chigi, oltre che ad allinearsi a Draghi più di Letta, ha potuto riproporre, pur senza ripetere la storia della “pacchia finita” se lei dovesse arrivare alla guida del governo, la sua rappresentazione dell’Unione Europea. Dove la difesa degli interessi nazionali è permessa a tedeschi, francesi, olandesi ma non all’Italia, che pure è tra i paesi fondatori e non certo ultimo per estensione, popolazione e produzione industriale. 

Temo, per Letta nipote, rispetto allo zio Gianni che ad Arcore è di casa, che Silvio Berlusconi ascoltando la Meloni si sia forse un pò pentito di avere commentato negativamente quella “pacchia finita” scappatole di bocca nella piazza milanese del Duomo. E, sotto sotto, pur con tutto il suo apprezzamento dell’Unione Europea, qualche riflessione “il caso Berlino” evocato nel titolo del Corriere della Sera deve averla suggerita anche a Mario Draghi oltre Oceano. Dove il presidente del Consiglio è andato a raccogliere premi e altri riconoscimenti meritatissimi ai margini dell’assemblea generale delle Nazioni Unite. 

Mario Monti

I tedeschi, come lo stesso Draghi ha sperimentato negli anni della presidenza della Banca Centrale europea, non hanno molte simpatie per gli italiani, considerati troppo pasticcioni e indebitati, forse con una sola eccezione. Che non è quella di Draghi ma di Mario Monti, di cui in Germania fu salutato dai giornali d’oltralpe l’arrivo a Palazzo Chigi, nel 2011, scoprendolo come il genero sognato da molte mamme teutoniche. Ma neppure i tedeschi -diciamola tutta- sono molto popolari in Italia. 

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Il no di Draghi un pò come quello di Mattarella al secondo mandato

Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano di ieri beffeggiando Matteo Renzi
Titolo del Dubbio

Ancora ieri su un giornale che non vuole sentirsi dare dell’”organo” del partito di Giuseppe Conte ma che ne riflette o anticipa spesso umori e cambiamenti di rotta si contestava all’odiato Matteo Renzi di avere proposto o previsto un Draghi bis rimediando “a stretto giro” una clamorosa e diretta smentita dell’interessato. Che in effetti in quella che potrebbe essere stata l’ultima conferenza stampa da presidente del Consiglio, almeno prima delle elezioni di domenica prossima, ha recentemente opposto un no secco all’ipotesi di una sua disponibilità per un “secondo mandato” a Palazzo Chigi. Dove ormai quasi avvertono l’ombra di Giorgia Meloni, dichiaratasi “pronta a governare” anche al Giornale della famiglia Berlusconi in una intervista titolata proprio così in prima pagina, con una perentorietà che potrebbe apparire persino in contrasto con la prudenza dello stesso Berlusconi. Del quale era apparsa qualche giorno fa addirittura “una bomba atomica” al Riformista di Piero Sansonetti l’avvertimento che Forza Italia non farà parte del governo, o ne uscirà in qualsiasi momento, se non ne risulterà chiara la linea europeista e atlantista. 

Matteo Savini domenica a Pontida

E’ una bomba, quella attribuita a Berlusconi, che Matteo Salvini dal palco di Pontida, davanti ai trentamila o quarantamila leghisti accorsi alla ripresa del raduno tradizionale, dopo l’interruzione da Covid, non ha scambiato neppure per un petardo. Sia che vada lui, come mostra ancora di credere  anticipandosi orgoglioso di una pur improbabile chiamata del presidente della Repubblica, sia che vada l’alleata, concorrente e amica leader della destra dichiaratamente conservatrice, Salvini si è detto convinto che Silvio, come lo chiama anche in pubblico quando ne parla, non costituirà un problema. La convergenza col fondatore di Forza Italia, e del centrodestra improvvisato nel 1994,   sarebbe addirittura al 99 per cento. Apparterrebbe quindi al residuo 1 per cento anche il dissenso pubblicamente espresso da Berlusconi nei riguardi del voto contrario  degli europarlamentari leghisti e meloniani alle sanzioni comunitarie in arrivo per l’Ungheria di Viktor Orbàn. Che non fa neppure più parte del Partito Popolare Europeo, di cui Berlusconi si considera il principale socio italiano.

Carlo Calenda

Ma torniamo al presunto sbugiardamento di Renzi da parte di Draghi col no opposto in conferenza stampa alla sua disponibilità per un secondo mandato a Palazzo Chigi. Un no interpretato invece da Carlo Calenda  -alleato di Renzi in un terzo polo elettorale pur non riconosciuto dalla Corte di Cassazione, secondo la quale ne esisterebbero solo due- come una risposta tanto obbligata quanto provvisoria, non essendosi ancora votato e tanto meno maturate le condizioni nelle quali potrebbe essere rigiocata la carta, appunto, di Draghi. 

In effetti, se si vuole essere minimamente obiettivi, o non prevenuti, come preferite, e fatte le debite differenze fra la Presidenza della Repubblica e la Presidenza del Consiglio dei Ministri, quel no di Draghi è un pò parallelo a quello opposto -e a lungo- da Sergio Mattarella quando, ancor prima che cominciasse il cosiddetto semestre “bianco” e conclusivo del suo mandato, se ne prospettò e sollecitò anche nei teatri e nelle piazze il bis. Ricordate? Quasi per rafforzare il suo rifiuto Mattarella cominciò a cercare casa in affitto a Roma per trasferirvisi alla scadenza del settennato al Quirinale. E si lasciò sorprendere da fotografi e telecamere quando, individuatene una conforme per prezzo e dimensioni ai suoi bisogni, cominciarono i sopralluoghi personali e persino i trasferimenti di mobili anche dalla sua Palermo. Ricordate anche questo? 

Mattarella e Draghi

Draghi stesso -che pure in una cena al Quirinale, secondo indiscrezioni non smentite, lo aveva inutilmente sollecitato al bis, addirittura condizionando ad esso anche la sua disponibilità a proseguire il lavoro di presidente del Consiglio- finì per prendere tanto sul serio il rifiuto del capo dello Stato in scadenza da cadere in una mezza imboscata. Fu nella conferenza stampa di fine 2021, quando in risposta ad una domanda sulla sua disponibilità a succedere a Mattarella egli si definì “un nonno al servizio delle istituzioni”.  Bastò e avanzò perché la trasparenza del presidente del Consiglio fosse scambiata per ambizione smodata o, peggio, per qualcosa di simile a un mezzo colpo di Stato, con l’inedito passaggio diretto di un uomo da Palazzo Chigi al Quirinale. Ma quando più tentativi di una successione fallirono Mattarella si lasciò responsabilmente confermare. 

Volete che, alla luce di quanto accaduto allora, che segnò anche l’inizio di un certo logoramento del suo governo oltre la misura normale di un epilogo di legislatura, Draghi potesse commettere nei giorni scorsi l’errore, l’imprudenza, l’ingenuità -chiamatela come volete- di mettersi in corsa per un secondo mandato a Palazzo Chigi? No, non lo poteva fare. Si potrà parlarne solo dopo le elezioni e il naufragio non so di quanti tentativi di governo, nel sospetto -fra l’altro- che quel 99 per cento di convergenze vantate da Salvini all’interno del centrodestra sia alquanto esagerato, diciamo così.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 25 settembre

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