La pantomima della crisi fra Parlamento, partiti e Mattarella al mare

            Emilio Giannelli ci ha scherzato sopra, con quella vignetta sulla prima pagina del Corriere della Sera che propone Matteo Salvini divertito romanticamente e politicamente, con la fidanzata Francesca Verdini, davanti allo spettacolo celeste delle cinque stelle e del governo cadenti nella notte di San Lorenzo, il diacono romano martirizzato sulla graticola e festeggiato oggi. Ma qualcuno, in questa estate del grande caldo e delle grandissime sorprese, avrà davvero pensato che il leader il manifesto.jpgleghista, che già si guadagna di suo nei comizi le peggiori polemiche, chiedendo per esempio agli elettori “pieni poteri” per governare da solo alla sua maniera, abbia scelto apposta questi giorni per mettere sulla graticola Giuseppe Conte e far cadere rovinosamente nelle urne anticipate d’autunno, come già in quelle europee del 26 maggio, le stelle grilline.

            Dalla grande confusione seguita alla decisione di Salvini di staccare la spina al governo gialloverde dopo 14 mesi di vita alquanto avventurosa, e alla resistenza oppostagli da Conte con la sfida a sfiduciarlo in Parlamento, immaginando a torto di metterlo chissà in quale e quanto imbarazzo, il presidente della Repubblica ha voluto prendere le distanze quasi igieniche andandosene lo stesso in vacanza in Sardegna. Egli è pronto a rientrare a Roma quando i signori della politica, fra Parlamento e partiti, si saranno decisi a formalizzare la crisi e affidarla alle sue mani per fargliela risolvere esercitando le sue prerogative costituzionali. Fra le quali c’è naturalmente quella dello scioglimento anticipato delle Camere e, in tal caso, della scelta del governo al quale far gestire le elezioni, o altre scadenze istituzionali da lui considerate prioritarie.

            Sulle scelte pur di esclusiva competenza del capo dello Stato si stanno esercitando le fantasie dei politici e dei soliti retroscenisti che spesso non riescono a distinguere fra i loro interessi o desideri e le reali prospettive, che così finiscono per tradursi in immaginarie trame o complotti per accelerare o ritardare o addirittura vanificare l’obiettivo elettorale propostosi con la crisi da Salvini. Che, a sentire certe rappresentazioni giornalistiche, sarebbe adesso legato da una specie di patto di ferro improvvisato col segretario del Pd Nicola Zingaretti per andare alle urne al più presto. Matteo Renzi dall’interno del Pd trescherebbe invece con Luigi Di Maio,  o viceversa, dopo tutti gli insulti che si sono scambiati prima e dopo la campagna elettorale dell’anno scorso per il rinnovo delle Camere, uniti adesso dall’interesse ad evitare le elezioni, dando magari la precedenza all’approvazione finale della riforma costituzionale per la riduzione del numero dei parlamentari. Essa non a caso richiederebbe poi dai sei mesi ad un anno di tempo per rendere praticabili le elezioni, tra adempimenti legislativi e tecnici.

            In questo clima ciascuno pensa naturalmente ai propri interessi, ripeto, e nessuno a quelli generali che saranno individuati e definiti dal presidente della Repubblica. Che intanto, cedendo anche io alla tentazione della fantasia, immagino sollevato davanti alle acque della Maddalena, nell’appartamento messogli a disposizione dall’Ammiragliato, proprio dalla crisi di governo finalmente sopravvenuta.

          La maggioranza gialloverde ha prodotto leggi ch’egli ha dovuto spesso promulgare così controvoglia, giusto per non complicare ulteriormente la situazione politica, da comunicare per iscritto le sue preoccupazioni e riserve ai presidenti del Consiglio e delle Camere. E ciò anche a costo di fornire indicazioni utili agli avvocati o ai magistrati interessati a dirottare le nuove norme alla prima occasione verso la Corte Costituzionale, peraltro dirimpettaia del Quirinale. E’ appena accaduto con la legge di conversione del secondo decreto legge sulla sicurezza, approvata al Senato col ricorso paradossale ad una fiducia solo apparente, vista la crisi che stava sopraggiungendo.  

 

 

 

 

Il solipsismo rivendicato da Salvini su quel palco di Pescara

Si è fatto prendere forse un po’ troppo la mano Matteo Salvini nel suo comizio a Pescara, per quanto comprensibilmente indispettito dalla decisione di Giuseppe Conte, che forse già conosceva, di rovesciargli addosso tutta intera la responsabilità della crisi con un monologo a Palazzo Chigi in cui avrebbe opposto la laboriosità del governo da lui presieduto alle “spiagge” preferite dal suo vice leghista e ministro dell’Interno. Eppure i grillini avevano da poco messo il presidente del Consiglio, non a caso tenutosi lontano dall’aula del Senato, in una situazione incredibile contestando di fatto con una mozione il suo sì alla Tav.

Con gli occhi, la mente, il cuore e chissà cos’altro rivolti agli elettori da lui già immaginati alle urne in autunno, senza aspettare neppure per cortesia lo scioglimento delle Camere spettante solo al capo dello Stato Sergio Mattarella, prudente ma gelosissimo, come tutti i predecessori, di questa prerogativa conferitagli dall’articolo 88 della Costituzione, col solo vincolo di sentirne prima i presidenti, Salvini ha detto, fra l’altro: “Se devo mettermi in gioco, lo faccio sereno, da solo e a testa alta. Poi potremo scegliere i compagni di viaggio, purchè non mi si venga a parlare di un governo sostenuto da Scilipoti vari”, cioè da transfughi e avventizi.

Sfrattato Conte da Palazzo Chigi prima ancora di presentare al Senato la mozione che lo sfiducerà, Salvini sembra avere sfrattato, con quelle parole a Pescara,  Silvio Berlusconi dalla postazione di alleato del centrodestra pur operante in tante amministrazioni locali. In teoria, se i sondaggi non gli suggeriranno altre scelte alla luce della legge elettorale in vigore, dovrebbe considerarsi sfrattata dalla postazione di alleata anche Giorgia Meloni con i suoi “fratelli d’Italia”, sovranisti come il “capitano” leghista.

Salvini evidentemente sente il vento in poppa con quel 38 per cento attribuitogli dagli aruspici elettronici anche dopo le polemiche a dir poco fastidiose cavalcate dalle opposizioni politiche e mediatiche sui presunti finanziamenti cercati per la Lega in Russia da persone indagate a Milano.

Mentre molti si sono confrontati e si confrontano sui personaggi della storia repubblicana italiana cui paragonare Conte, chi indicando Giulio Andreotti, chi Aldo Moro e chi Mario Monti, il leader leghista ha giocato davvero d’azzardo paragonandosi, forse senza neppure rendersene conto, addirittura ad Alcide De Gasperi. Che nelle storiche elezioni politiche del 18 aprile 1948, De Gasperi.jpgcon un’affluenza alle urne del 92,19 per cento, impensabile nei giorni e anni nostri, portò da sola la Dc al 48,51 per cento dei voti. E ciò nonostante, peraltro, pur disponendo di 305 deputati e 131 senatori, grazie ai quali avrebbe potuto tentare la formazione di esecutivi monocolori democristiani, egli preferì  fare governi di coalizione con i liberali, i repubblicani e i socialdemocratici.

L’aggettivo “solo” terrorizzava quel pur coraggioso statista che fu l’artefice politico della ricostruzione dell’Italia e delle sue scelte internazionali. Esse furono così lungimiranti da indurre dopo tanti anni un segretario comunista come Enrico Berlinguer a sentire l’autonomia del suo Pci più sicura e protetta, rispetto ai condizionamenti di Mosca,  sotto l’ombrello dell’alleanza atlantica.

Fa una certa impressione, via, affiancare Salvini, e la sua Lega, a De Gasperi e alla sua Dc, anche se riconosco che la Lega di Umberto Bossi agli inizi degli anni Novanta decollò al Nord in zone di forte radicamento democristiano. Dove però non era stata gradita la meridionalizzazione dello scudo crociato avvenuta durante la lunga e vigorosa segreteria del partito di Ciriaco De Mita.

Le vocazioni maggioritarie, chiamiamole così, per non chiamarle addirittura solitarie, non hanno del resto portato fortuna a nessuno che le abbia coltivate. Non la coltivò d’altronde neppure De Gasperi, che non avendo perseguito la maggioranza assoluta, per fare “da solo”, commentò i risultati delle elezioni del 1948 con la celebre battuta: “Credevo che piovesse, non che grandinasse”.

Bettino Craxi, che non scherzava certo per ambizioni e temperamento, volle sfidare nel 1991 tutti i partiti più radicati nella politica italiana, esclusa quindi la Lega fresca di esordio, contrastando con una campagna astensionistica –“andate al mare”- il referendum contro il sistema elettorale delle preferenze plurime. E perse rovinosamente.

Nel 2016 l’allora presidente del Consiglio e segretario del Pd Matteo Renzi volle affrontare da solo il referendum sulla sua riforma costituzionale, perdendolo altrettanto rovinosamente, sia pure col 40 per cento dei consensi, pari alla percentuale dei voti raggiunti nelle elezioni europee di due anni prima. Pertanto egli chiese a Mattarella un ricorso anticipato al rinnovo delle Camere che gli fu però negato.

Berlusconi negli anni del suo centrodestra, quando cominciò ad avvertire difficoltà nella gestione degli alleati, prese l’abitudine di rimproverare e persino insultare gli elettori per non avergli dato i numeri per governare da solo. Ma quelli gli risposero non aumentando, bensì riducendogli progressivamente i voti, sino a farlo sorpassare da Salvini l’anno scorso e ora, nei sondaggi, persino dalla Meloni.

Fu sfortunata la vocazione maggioritaria rivendicata alla nascita del Pd, nel 2007, dal suo fondatore e primo segretario Walter Veltroni, letteralmente sfibrato dai cespugli di sinistra e di destra, da Fausto Bertinotti a Clemente Mastella, che avevano strozzato quasi nella culla entrambi i governi di Romano Prodi.

Consapevole dell’obiettivo troppo ambizioso che si era proposto nelle elezioni anticipate del 2008, dopo la caduta del secondo governo Prodi, il povero Veltroni chiese aiuto ad Antonio Di Pietro e alla sua Italia dei Valori, apparentandoli col Pd.  Ma ciò non solo non gli consentì di evitare l’ultima vittoria elettorale del centrodestra di Berlusconi, e relativo governo, ma alla fine gli rese così problematica la gestione dell’opposizione, su posizioni anche di oltranzismo giustizialista, da fargli perdere la segreteria del partito.

A questa storia poco fortunata, e parziale, dei solitari, dei quali potrei scrivere ancora più a lungo, appartiene anche il monito che una volta Aldo Moro rivolse al pur amico, molto amico Carlo Donat-Cattin, perplesso sul passaggio della “solidarietà nazionale” col Pci  fra il 1976 e il 1978, l’anno peraltro in cui il presidente della Dc fu assassinato dalle brigate rosse. “E’ meglio sbagliare in compagnia che avere ragione da soli”, gli disse Moro.

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