Zingaretti ha resistito alla conferma di Conte sino a un momento prima di cedere

            Come diceva la buonanima del socialista Fernando Santi dell’allora segretario del suo partito Francesco De Martino, anche a Nicola Zingaretti, segretario del Pd, è toccato in questa crisi agostana di governo di “resistere fino a un momento Conte 2 .jpgprima di cedere” alla conferma a Palazzo Chigi di Giuseppe Conte. Che egli ha dovuto anche incontrare per confermargli a voce la rinuncia al veto posto nei giorni scorsi contro di lui in nome della “discontinuità” della nuova maggioranza e compagine ministeriale rispetto a quelle gialloverdi uscenti.

            Pur convinto di poter ottenere in cambio una forte “discontinuità” nella distribuzione dei dicasteri, Zingaretti si è scontrato anche su questo terreno con forti resistenze del capo formale del Movimento delle 5 Stelle Luigi Di Maio. Che è disposto ad accontentarsi  personalmente di un solo Ministero, rispetto ai due che ora guida per gli affari correnti, quelli dello Sviluppo Economico e del Lavoro, ma non intende rinunciare alla vice presidenza del Consiglio. Egli ha spalleggiato, in entrambi gli incontri avuti con Zingaretti per sbloccare la situazione, la pretesa di Conte, nonostante la sponsorizzazione fattane personalmente da Beppe Grillo, di essere considerato “terzo” fra pentastellati e Pd. Per cui a un vice presidente del Consiglio piddino dovrebbe continuare ad esserne affiancato uno grillino.

            C’è da giurare che il “toto-ministri” continuerà sui giornali, tra retroscena e cronache fatte di dichiarazioni, sino all’ultimo momento, anche oltre l’appuntamento di domani delle delegazioni della costituenda nuova maggioranza al Quirinale con Mattarella per il secondo giro di consultazioni e il conferimento dell’incarico al presidente uscente del Consiglio. Continuerà, il toto-ministri, anche quando Conte porterà la lista al capo dello Stato e dovrà magari cambiarla su richiesta di chi poi deve nominare davvero i titolari dei dicasteri, su alcuni dei quali -per esempio, il Tesoro, la Difesa, la Giustizia e gli Esteri- il presidente di turno della Repubblica è generalmente molto attento sia per il loro rilievo anche internazionale sia per l’affinità delle loro competenze con le sue prerogative e funzioni costituzionali. Il presidente della Repubblica presiede anche il Consiglio Superiore della Magistratura ed  è capo delle Forze Armate, con tutti i risvolti geopolitici che ne derivano.

            Erano largamente prevedibili, di fronte allo sblocco della situazione con la rinuncia di Zingaretti al vetoil Fatto.jpg contro Conte, il sollievo e persino l’entusiasmo di giornali schierati nettamente per una maggioranzamanifesto.jpg giallorossa come Il Fatto Quotidiano – che ha addirittura annunciato “la vendetta” del governo “Conte 2”,  da non chiamare assolutamente “Conte bis”- e il manifesto. Che ha incoraggiato, salvo umorismo, Zingaretti e Di Maio a fare sino in fondo “la cosa giusta”.

            Molto meno soddisfatta e convinta è apparsa la Repubblica di carta con un titolo di apertura che dà praticamente in crisi il nuovo governo, prima ancora della sua nascita, e con un commento la Repubblica.jpgdell’editorialista politico Stefano Folli abbastanza urticante per Conte e gli Folli.jpgaltri protagonisti o attori di questa crisi, liquidata come “un gioco spregiudicato”, finalizzato solo o soprattutto ad evitare le elezioni anticipate. Ma non ad evitare -aggiungerei- le campagne elettorali autunnali e primaverili in regioni molto importanti, come quelle tradizionalmente rosse dell’Emilia Romagna, dell’Umbria e della Toscana.

           Esse erano già in pericolo prima della crisi di governo. Ora una sconfitta diventerebbe per il Pd ancora più rovinosa perché attribuibile direttamente all’intesa “giallorosa”, come la chiama Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano. Cui Zingaretti si è acconciato rinunciando alle elezioni anticipate reclamate anche da lui, come da Matteo Salvini sul versante opposto, e inseguendo nell’inversione di marcia Matteo Renzi. Il cui peso, già notevole nei gruppi parlamentari modellati sulle candidature da lui decise quando regnava al Nazareno, adesso sembra destinato a tornare a crescere anche nel partito. Che potrebbe rischiare davvero, se dovesse resistergli, la scissione attribuita già da tempo ai progetti dell’ex segretario un po’ stretto nei panni del semplice “senatore di Scandicci”, ostentati dopo le dimissioni impostegli dalla pesante sconfitta elettorale dell’anno scorso.

 

 

 

 

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Esagerato il paragone di Conte ad Andreotti, Di Maio a Moro e Zingaretti a Berlinguer

E’ un po’ sfuggito di mano in questa crisi anche l’esercizio, o gioco, delle analogie in cui ci siamo cimentati pure noi del Dubbio discutendo, per esempio, sulla somiglianza di Giuseppe Conte più al compianto Giulio Andreotti o al felicemente vivente Mario Monti, o altri ancora. Abbiamo persino cercato di fare sciogliere il nodo, come ha fatto simpaticamente l’amico Paolo Armaroli allo stesso presidente uscente del Consiglio, che ha preferito tenersene lontano  forse per non compromettere la già difficile partita di Palazzo Chigi che si gioca anche su di lui, almeno sino al momento in cui scrivo.

Michele Brambilla sul Quotidiano Nazionale ha dato, non certo per offenderlo, del Rieccolo di montanelliana memoria a Matteo Renzi per avere saputo tornare sulla scena a sorpresa dal retroscena del progetto attribuitogli, a torto o a ragione, di una scissione del Pd con i suoi quasi comitati civici di ricordo democristiano. Il Rieccolo di Montanelli era Amintore Fanfani, toscano come Renzi, che già si compiacque di essergli paragonato nel 2004, quando da segretario del partito e presidente del Consiglio insieme portò il suo partito al 40 per cento abbondante dei voti nelle elezioni europee. Che, in verità, non c’erano ancora ai tempi d’oro di Fanfani, riuscito a portare a casa quel bottino nel 1958 in un turno  concretissimo di elezioni politiche che i suoi avversari interni non gli perdonarono, detronizzandolo nel giro di meno di un anno da segretario del partito scudocrociato, presidente del Consiglio e ministro degli Esteri.

Renzi si risparmiò la Farnesina nel cumulo d’incarichi del 2014, ma poi pagò ugualmente pegno riducendosi dopo soli quattro anni al ruolo di semplice “senatore di Scandicci”. Che però in questa crisi, eliminate d’incanto tutte le scorte di pop-corn fatte l’anno scorso sventando la medesima operazione, ha voluto e saputo porre sul tavolo per primo,  obbligando il segretario del partito Nicola Zingaretti a seguirlo, o inseguirlo, il problema dell’accordo di governo con i grillini in funzione antisalviniana.

In verità, Fanfani in vita sua -ve lo assicuro- non  aspirò mai alla dieta dei pop-corn, neppure nei momenti più difficili o sofferti della sua lunga milizia politica. E debbo anche dire, con franchezza, che non tornò mai sulla scena rovesciando le proprie posizioni politiche, come ha fatto Renzi passando repentinamente dalla chiusura a più mandate ai grillini all’apertura incondizionata, sino a sospettare congiure, trame e quant’altro dietro ogni difficoltà lungo la strada dell’intesa col Movimento delle 5 Stelle.

L’unica virata che io ricordo di Fanfani fu quella della fine degli anni Sessanta, quando l’allora presidente del Senato contestò la “irreversibilità” morotea del centrosinistra che pure proprio lui aveva perseguito prima ancora di Moro, e quasi gestito come in una gravidanza a Palazzo Chigi con la formula delle cosiddette convergenze parallele con i socialisti. I quali prima si astennero e poi appoggiarono, rispettivamente, un suo monocolore democristiano e un tripartito Dc-Pri-Psdi. Seguì nell’autunno del 1963 il primo governo a partecipazione diretta dei socialisti guidato da Moro.

Curiosamente, a dir poco, in questi giorni di ricerca dì un’intesa fra grillini e piddini al Foglio di Giuliano Ferrara e di Claudio Cerasa hanno pensato di riproporre, non credo a caso ma come una specie di modello cui ispirarsi, il testo integrale del discorso col quale Fanfani presentò nell’agosto del 1960 il monocolore democristiano formato dopo l’avventura del governo scudocrociato di Fernando Tambroni, appoggiato in modo determinante dai missini e sfociato in sanguinosi disordini di piazza.

Vista la proiezione di quel monocolore di Fanfani verso l’obiettivo del centrosinistra, nella gradualità imposta dalle scadenze elettorali e dai passaggi congressuali della Dc gestiti con l’accortezza che era propria di Moro, allora segretario del partito, stento molto a vedere una qualsiasi analogia con i fatti e con la situazione attuali.

Data per scontata la collocazione a sinistra del Partito Democratico guidato da Zingaretti, in discontinuità -si disse anche allora- col moderatismo o addirittura col destrismo attribuito a Renzi prima della sua svolta a favore dei grillini, dovremmo vedere analogie fra i piddini e i socialisti degli anni Sessanta. Ma la sola idea di paragonare, conseguentemente, i pentastellati ai democristiani mi procura, francamente, le vertigini.

E’ vero che sul piano elettorale e parlamentare i grillini l’anno scorso, col loro 33 per cento dei voti, conquistarono la preminenza o la “centralità” che fu della Dc, ma è anche vero che essi l’hanno già perduta nelle elezioni del 26 maggio scorso per il rinnovo del Parlamento Europeo. E poi, via, cerchiamo di non esagerare col gioco, dicevo, delle analogie. E lasciamo riposare in pace i protagonisti della storia di una Dc che peraltro viene recuperata un po’ in ritardo dall’Inferno in cui avevano voluto cacciarla gli aspiranti alla seconda e poi terza Repubblica.

Hanno un bel richiamarsi, per esempio, i sostenitori di un governo Conte 2 con i grillini al monocolore democristiano del 1976 sostenuto dai comunisti per chiedere al Pd di Zingaretti di fare col presidente uscente del Consiglio ciò che il Pci di Enrico Berlinguer fece col pur “destro” Giulio Andreotti. Davvero vogliamo paragonare l’imparagonabile, politico e umano?

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

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