Il generale Agosto in ritirata. Prevale la crisi del governo gialloverde

            Il generale Agosto, solitamente vincente, questa volta è in ritirata, incalzato da una crisi di governo chiesta dal leader legista, dopo molte incertezze, per andare il più presto possibile alle elezioni e subita dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte con un pesante attacco al suo vice presidente e ministro dell’Interno in una curiosa conferenza stampa. Alla quale i giornalisti sono stati chiamati a tardissima ora senza il diritto di porre domande, in attesa della parlamentarizzazione delle dimissioni e della stessa crisi con un discorso alle Camere. Che tuttavia Conte ha  anticipato accusando Salvini di avergli chiesto di “capitalizzare” col ricorso anticipato alle urne il successo elettorale conseguito dalla Lega nelle elezioni europee del 26 maggio rovesciando i rapporti di forza con gli alleati grillini, di avere interrotto su questa strada una intensa e proficua azione di governo, a dispetto delle spiagge preferite dal ministro dell’Interno, e pretendendo di sostituirsi ai presidenti delle Camere nel momento in cui ne ha sollecitato la convocazione, senza rendersi conto -ha detto Conte- che prima del 20 agosto non sarà possibile fare rientrare deputati e senatori dalle ferie alle quali sono stati appena mandati.

            In verità, l’articolo 62 della Costituzione si limita a stabilire che “ciascuna Camera può essere convocata in via straordinaria per iniziativa del suo Presidente, o del Presidente della Repubblica o di un terzo dei suoi componenti”. E aggiunge che “quando si riunisce in via straordinaria una Camera, è convocata di diritto anche l’altra”, per cui non sembrano francamente arbitrari, sul piano costituzionale,  i tempi stretti chiesti da Salvini in un comizio a Pescara.

            L’aspetto tuttavia più singolare delle comunicazioni del presidente del Consiglio a Palazzo Chigi è il silenzio totale opposto alla scintilla che ha provocato, in fondo, la svolta di Salvini e la crisi: la mozione dei grillini al Senato contro la realizzazione della linea ferroviaria per il trasporto ad alta velocità delle merci fra la Francia e l’Italia (Tav), sbloccata dallo stesso Conte con l’annuncio che la rinuncia sarebbe stata e sarebbe più onerosa del completamento, peraltro possibile con costi ulteriormente ridotti dopo le sue interlocuzioni europee.

            E’ a quella mozione, respinta dal Senato con 181 voti contro 110 e di fatto lesiva delle decisioni e delle prerogative del presidente del Consiglio, non a caso tenutosi lontano dall’aula, che è seguita la decisione di Salvini di interrompere l’esperienza di governo col partito ch’egli ha chiamato “dei no”.

            Alla fine, anziché prendersela con i grillini, non foss’altro per l’imbarazzante posizione in cui l’avevano messo in Parlamento, Conte ha deciso di prendersela solo con i leghisti, supportato Il Fatto.jpgin questo da quel titolo –“Salvini: Dimettiti- Conte: No, sfiduciami”- sparato in prima pagina dal Fatto Quotidiano. Che tuttavia, pur dando a Salvini del “coniglio”, non bastandogli evidentemente il “cazzaro verde” autorizzatogliMannelli.jpg in un processo dal tribunale di Milano, ha dedicato a Conte nella stessa prima pagina una vignetta a dir poco sfottente. In cui gli viene contestata la frequenza delle rivendicazioni “a tutto il personale medico e paramedico” d’Italia e del mondo  della sua qualifica di “premier”.

            Più caustico forse è stato il titolo – “Torta in faccia”- cui è ricorso il manifesto per rappresentare l’approccio o l’approdo il manifesto.jpgalla crisi, di fronte alla quale Luigi Di Maio nella sua qualità di capo ancora del movimento delle 5 stelle si è giustamente stropicciato gli occhi, consapevole che il suo è il partito che rischia Di Maio.jpgdi più nelle urne dopo il capitombolo elettorale del 26 maggio. Esso rischia di più nonostante l’accusa che lo stesso Di Maio ha deciso di muovere ai leghisti di avere cercato e voluto la crisi solo per bloccare all’ultima curva elettorale la riforma per il popolare e decisivo dimezzamento, secondo lui, del numero dei parlamentari. A tutela di questa riforma il vice presidente grillino ormai uscente del Consiglio chiede o immagina il soccorso di chissà quale nuova maggioranza a sostegno di un governo che eviti le elezioni anticipate. Sogni di mezza estate, verrebbe voglia di dire.

 

 

 

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Vita difficile per i nuovi dorotei, impegnati nel Pd a inseguire i grillini

Come ha detto con sorprendente levità Matteo Salvini commentando le condizioni della maggioranza gialloverde dopo le votazioni al Senato sulla Tav, “qualcosa si è rotto” anche nei rapporti fra i grillini e i “dorotei” del Pd, come io chiamo -e vi spiegherò perché- quelli che da qualche tempo coltivano più o meno apertamente la speranza di potersi inserire nelle tensioni fra grillini e leghisti per aiutare i primi a fare a meno dei secondi, sostituendoli col maggiore partito della sinistra.

Nelle votazioni parlamentari sulla realizzazione della linea ferroviaria per il trasporto ad alta velocità delle merci dalla Francia all’Italia il Pd si è ritrovato non con i grillini ma con i leghisti. E ben poco sarebbe cambiato se i nuovi “dorotei” fossero riusciti a strappare al loro partito la decisione di disertare tutte le votazioni per non confondersi, appunto, con i leghisti. La mozione grillina per un no alla Tav formalmente attribuito al Parlamento e non al governo, nello specioso tentativo di lasciare fuori dalla contesa il presidente del Consiglio schieratosi per il sì, sarebbe stata ugualmente bocciata.

A salvare i rapporti fra i “dorotei” del Pd e i grillini difficilmente basterà il rammarico espresso per la gestione del passaggio parlamentare dall’ex capogruppo del Pd al Senato e ora tesoriere del partito, Luigi Zanda. Che rappresenta la corrente di Dario Franceschini nella delegazione incaricata recentemente dalla direzione del partito di seguire gli sviluppi della situazione politica nella speranza di una crisi.

I “dorotei” piddini hanno dovuto ingoiare  non solo la partecipazione alle votazioni, ma anche una modifica, all’ultimo momento, della mozione del loro gruppo, a favore della Tav, per consentire ai leghisti di approvarla interamente. E’ stato eliminato, in particolare, un passaggio polemico verso il governo, che avrebbe comportato la votazione del documento per parti separate.

Ma perché chiamo “dorotei” i piddini favorevoli, pur con varie sfumature o modalità, ad un’intesa con i grillini, con o senza la condizione di un preventivo passaggio elettorale? Che è stata posta dal segretario del partito Zingaretti nel tentativo di ridurre le tensioni interne e di scongiurare il disegno di una scissione attribuito, a torto o a ragione, a Matteo Renzi.

I “dorotei”, dal nome della santa protettrice delle suore nel cui convento si riunirono a Roma, nacquero come corrente della Dc nel 1959 per rivolta contro Amintore Fanfani, formalmente accusato di volere correre troppo verso i socialisti, superando il centrismo degli anni degasperiani, ma in realtà inviso per una certa bulimia di potere. Essa era stata avvertita nella decisione presa dal segretario della Dc, dopo il successo elettorale del 1958, di fare anche il presidente del Consiglio e il ministro degli Esteri.

A dimostrare che l’elemento distintivo dei “dorotei” fosse il potere, da conservare e insieme distribuire equamente fra di loro, e non la linea politica, fatta di programmi e di alleanze in un partito a Fanfani e Moro.jpgmaggioranza relativa e non assoluta, fu il fatto che Aldo Moro, chiamato a succedere a Fanfani alla guida dello scudo crociato, non ripudiò per niente le aperture ai socialisti. Fu lui, anzi, a completare l’operazione politica di Fanfani con una più accorta gestione realizzando personalmente nel 1963 il primo governo di centro-sinistra “organico”, a partecipazione cioè dei socialisti, al posto dei liberali dei governi centristi e in aggiunta ai socialdemocratici e ai repubblicani.

Nonostante si fosse guardato bene, visti i precedenti di Fanfani, dal cumulare troppe cariche lasciando la segreteria del partito all’amico di corrente Mariano Rumor, anche Moro finì per essere sospettato di volere rimanere troppo a lungo, e a tutti i costi, sulla scena da protagonista. Gli fu rimproverato dai colleghi di corrente di essere troppo aperto e tollerante con i socialisti, che pure non erano ancora quelli guidati dal volitivo e giovane Bettino Craxi, ma dall’anziano Pietro Nenni, e di averne anche favorito l’unificazione con i socialdemocratici. Di cui nella Dc temevano di fare le spese elettorali nel 1968, al rinnovo delle Camere.

Nonostante l’unificazione socialista fosse sostanzialmente fallita nelle urne, e destinata a dissolversi rapidamente anche a livello organizzativo, i “dorotei” pretesero dopo le elezioni la rimozione di Moro da Palazzo Chigi. Dove, pur di insediarsi al suo posto, Rumor offrì ai socialisti una edizione del centro-sinistra “più incisiva e coraggiosa”. Che tuttavia non bastò al Psi non più unificato, che reclamò poco dopo “equilibri più avanzati” ancora: tanto avanzati che il centro-sinistra non resse alla prova e si dissolse nelle emergenze della “solidarietà nazionale” col Pci e del terrorismo. Si passò negli anni Ottanta al “pentapartito”, comprensivo di liberali e socialisti, grazie alla svolta socialista di Craxi.

Ditemi voi, con questi precedenti, se sbaglio, o sbaglio più di tanto, a considerare “dorotei” quelli che nel Pd inseguono i grillini pur di recuperare il potere perduto con la sconfitta elettorale dell’anno scorso.

 

 

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