Le trattative di governo fra grillini e Pd si guastano tra cena e dopocena

             Saranno pure mancati nell’incontro fra i capigruppo parlamentari dei grillini e del Pd “problemi insormontabili”, come gli interessati hanno annunciato mandando gli italiani a cena, ma proprio a cena i capi dei due partiti, Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti, ospiti dell’ex democristiano d’area mastelliana e ora pentastellato Vincenzo Spadafora, si sono scontrati rovinosamente sul nome di Giuseppe Conte. Che Di Maio ha riproposto per la guida del nuovo governo, in cui i piddini dovrebbero sostituire i leghisti, ma che  Zingaretti ha escluso per ragioni di “discontinuità”. Senza la quale l’elettorato del suo partito gli esploderebbe in mano, nonostante la disponibilità dell’ex segretario Matteo Renzi ad accettare o concedere qualsiasi cosa, forse anche questa, per ricacciare Matteo Salvini all’opposizione.

            Il trionfalistico annuncio della “resistenza” di Di Maio sulla prima pagina del Fatto Quotidiano, dove Il Fatto.jpgevidentemente tifano per la conferma di Conte, specie dopo l’attacco sferrato al leader della Lega nell’aula del Senato prima di dimettersi per chiudere l’esperienza gialloverde, è ben diverso dalle campane quasi a morto suonate dalla Repubblica di carta. Dove si sprecano i titoli non proprio Repubblica.jpgincoraggianti sulle trattative fra il Movimento 5 Stelle e il Pd: “Ultimatum per rompere”, “La nuova alleanza è già in un vicolo cieco”, “Cronaca di una fineRepubblica 2 .jpg annunciata”. E tutto alla faccia dei “problemi insormontabili” mancati nell’incontro fra i capigruppo parlamentari dei due partiti, Folli.jpgavventuratisi a trattare, in particolare, sulle misure compensative della riduzione del numero dei parlamentari, reclamata dai grillini come misura quasi igienica, senza prima accertarsi della reale praticabilità del percorso avviato.

            Sarà un caso, per carità, ma la resistenza di Di Maio è seguita alle insistenti aperture ai grillini da parte di Salvini, ora tollerato, se non ben visto, sotto le cinque stelle anche da uno come Alessandro Di Battista, Dibba per gli amici.  Che qualche settimana fa, tra un esercizio e l’altro di apprendista falegname, aveva sprezzantemente invitato il leader leghista a “tornare” nella fogna, come la considerano i grillini, di Silvio Berlusconi.

            Sarà stato disinvolto, e ancora più indigesto al Cavaliere, convinto di potere ancora essere il regolo di quello che fu il centrodestra anche dopo la trazione leghista uscita dalle urne del 4 marzo dell’anno scorso, per non parlare delle successive elezioni regionali affrontate insieme da Forza Italia e dal Carroccio; avrà sbagliato i tempi troppo agostani della crisi, come gli rimprovera abbastanza chiaramente e insistentemente l’amico e collega di governo uscente Giancarlo Giorgetti, l’unico ad essere stato amichevolmente elogiato al Senato la settimana scorsa da Conte prima di andare a dimettersi al Quirinale, ma bisogna pur riconoscere che Matteo Salvini ha quanto meno saputo disseminare di mine il percorso delle trattative, prima sotterranee e ora palesi, fra grillini e piddini per il ribaltone estivo di questo 2019 che il presidente del Consiglio aveva previsto e promesso “bellissimo” con i colori gialloverdi.

            Il leader della Lega nel momento in cui ha saputo e voluto guadagnarsi il primato della inimicizia politica di Renzi, impopolarissimo sotto le 5 stelle, dove ancora lo ricordano come “l’ebetino” Rolli.jpgdegli spettacoli di Beppe Grillo nei teatri e sulle piazze, ha creato altri problemi non piccoli, e ben poco sormontabili, nel movimento di cui è riuscito a dimezzare i voti nelle elezioni europee del 26 maggio scorso. Il suo “forno” fa ancora una certa concorrenza a quello del Pd, dove peraltro si fa fatica a stabilire il prezzo del pane da vendere.

            Sarà uno spettacolo da “turarsi il naso”, e coprirsi gli occhi, direbbe la buonanima di Indro Montanelli, ma pur sempre uno spettacolo in questa estate che neppure il generale Ferragosto è riuscito a mettere in riga, o a difendere, come preferite, dalla crisi di governo ora gestita, in attesa di tornare nelle mani del capo dello Stato, dalla “strana coppia” Di Maio-Zingaretti, come l’ha definita il manifesto offrendola in una foto d’archivio ai lettori.

 

 

 

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La crisi di governo vista con le lenti deformate dei giornali “d’area”

L’irritazione, la delusione e quant’altro attribuite al presidente della Repubblica Sergio Mattarella dal navigato quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda al termine del primo e inconcludente giro di consultazioni, cui ne seguirà un altro, annunciato per martedì in diretta all’ora di cena dallo stesso Mattarella dopo due ore di riflessione, sono niente di fronte alla sensazione del vuoto che si avverte seguendo la crisi con le lenti dei cosiddetti giornali “d’area”. Che hanno preso il posto dei vecchi giornali di partito, scomparsi con le forze politiche di cui trasmettevano idee e umori: giornali a leggere i quali, quando si passava da un governo a un altro, si coglieva un po’ meglio di adesso, diciamolo francamente, come andavano le cose dietro la facciata delle consultazioni.

L’Unità del Pci, l’Avanti del Psi, Il Popolo della Dc, specie quando a dirigerlo verso la fine era Sandro Fontana con lo spirito sarcastico di Bertoldo, La Voce Repubblicana del Pri, La Giustizia del Psdi, spesso vere scuole di giornalismo, da cui sono usciti fior di editorialisti, inviati e direttori di quotidiani per niente di partito,  appartengono ormai agli archivi. Adesso bisogna accontentarsi dei giornali, dicevo, “di area”. Che non rispondono ai partiti o movimenti di cui riflettono umori e tendenze, spesso cercando di dettar loro gli uni e le altre, come tanti “consigliori” al netto del significato o delle allusioni mafiose che questo termine si porta appresso, o addosso, ma spesso aiutano a capirne le pulsioni, le contraddizioni  o la linea, quando ne hanno una. Spesso, dicevo, ma non sempre.

E’ accaduto, per esempio, che durante la lunga gestazione di questa crisi, prima che si formalizzasse con le dimissioni del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il Giornale della famiglia Berlusconi reclamasse continuamente e vigorosamente le elezioni anticipate, come del resto ha fatto Silvio Berlusconi in persona dopo l’incontro della delegazione di Forza Italia, da lui personalmente guidata, con Mattarella al Quirinale. Ma contemporaneamente, e senza che si levassero smentite o precisazioni, sono comparsi altrove retroscena e quant’altro sull’”agghiacchiante arrivo”- parola del Fatto Quotidiano– di una guarnigione di ascari berlusconiani al seguito di Gianni Letta” per garantire ad un ribaltone giallorosso in funzione antisalviniana una “opposizione costruttiva” o “graduata”.

Ciò non significa tuttavia che Il Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio a schiena sempre orgogliosamente dritta si senta custode e sostenitore di una maggioranza giallorossa dura e pura, perché a leggerne la descrizione che fa del Pd, che dovrebbe sostituire i leghisti nell’alleanza con i grillini, c’è francamente da chiedersi se davvero esso ci tenga alla sorte e alla buona salute del Movimento delle 5 Stelle. Il cui “elevato”, “garante” e quant’altro, cioè Beppe Grillo, gli affida spesso i suoi urticanti commenti e messaggi al popolo.

“Trattare col Pd -ha appena scritto Travaglio in persona in un editoriale dopo il primo giro di consultazioni al Quirinale- è come trattare con la Libia. Fai l’accordo con Al Sarraj e poi scopri che non controlla neppure la scala del palazzo presidenziale perché quella è presidiata da Haftar. Però il tutto è occupato dalla milizia di Misurata, peraltro assediata dal capotribù dei Warfalla, diversamente dalle cantine contese dai clan Gadafda e Magharba. Così uno o se li compra tutti o si spara”.

Non hai finito di chiederti se Al Sarraj e Haftar siano paragonabili a Nicola Zingaretti o a Matteo Renzi, o viceversa, e già ti imbatti dopo qualche pagina in un racconto sui grillini, presumibilmente noti alla redazione del Fatto Quotidiano, che potrebbe bastare e avanzare per dissuadere il Pd dal tentare un accordo con loro, rischiando di essere travolto da faide interne di fronte alle quali impallidisce il ricordo di quelle dei tempi peggiori della Dc.

“La grandissima parte del Movimento -racconta Luca De Carolis a pagina 4 scrivendo appunto dei grillini- invoca Giuseppe Conte” ancora a Palazzo Chigi “ma Di Maio si sta già rassegnando al veto del Pd, cioè a far cadere il nome del premier uscente, di cui soffre popolarità e stile, e con il quale la distanza è da settimane profondo”, nonostante l’abbraccio nell’aula del Senato prima che salisse al Quirinale per dimettersi.

“Di Maio sa -continua il rapporto di De Carolis sulla situazione interna ai pentastellati- che i dem non potrebbero accettare sia lui che Conte in uno stesso esecutivo. E non ha voglia di fare un passo indietro, anche se alcuni big in queste ore glielo hanno chiesto proprio per arrivare a un Conte 2”.

Non finisce qui tuttavia il racconto esclusivo del Fatto Quotidiano, che prosegue così: “Di Maio, capo già molto indebolito, non ha voglia di sacrificarsi. Rimanere fuori dall’esecutivo gli farebbe perdere visibilità e altra quota nel Movimento, dove Beppe Grillo è tornato centrale. Però non potrebbe fare muro a un altro nome in costante ascesa per Palazzo Chigi: quello di Roberto Fico, il presidente della Camera, il grillino del cuore rosso antico, l’opposto del vice premier che lo soffre  come avrebbe sofferto Conte. Ma Fico andrebbe benissimo a molti nel Pd”, soprattutto – mi permetto di aggiungere- all’ex ministro Dario Franceschini. Di cui è arcinota l’ambizione alla Presidenza della Camera, che si libererebbe con Fico a Palazzo Chigi. Essa mancò a Franceschin per un pelo nel 2013, quando l’allora segretario del Pd Pier Luigi Bersani, candidato peraltro alla guida di un governo “minoritario e di combattimento” cui i grillini rifiutarono l’appoggio, gli preferì a sorpresa, all’ultimo momento, Laura Boldrini. Che, fedele, lo avrebbe poi seguito fra i “liberi e uguali” col presidente del Senato Pietro Grasso nella scissione promossa da Massimo D’Alema.

 

 

 

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